Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 15 settembre 2021, n. 24881

Tributi - Identificazione della società di fatto - Criteri

 

Rilevato che

 

1. La Commissione tributaria centrale del Lazio rigettava le impugnazioni proposte da C.M. e da C.P. avverso la sentenza della Commissione tributaria di II grado di Roma (sentenza n. 215/11/1993), che aveva respinto gli appelli presentati dai contribuenti contro la sentenza della Commissione tributaria di I grado di Roma (del 19 febbraio 1992, depositata il 1 settembre 1992), che aveva rigettato i ricorsi originari dei contribuenti contro l'avviso di accertamento emesso nei loro confronti per l'anno 1983 dall'Agenzia delle Entrate, che aveva ritenuto sussistere una società di fatto tra gli stessi. In particolare, la Commissione centrale evidenziava la sussistenza di una società di fatto tra i contribuenti che emergeva, non solo dalla esteriorizzazione del vincolo sociale, ma anche dall'attività in comune svolta dai contribuenti diretta alla costituzione di varie società di servizi, dall'uso degli stessi locali siti in via dei C. n. (..), nonché dall'esistenza di un fondo comune manifestata dalla contitolarità di tre conti correnti con la Banca Nazionale del Lavoro, con il Banco di Santo Spirito e con l'Istituto Bancario Italiano.

2. Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione i contribuenti, depositando anche memoria scritta.

3. Resta intimata l'Agenzia delle entrate.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo di impugnazione i contribuenti deducono la "violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in relazione agli articoli 31 e 37 d.p.r. n. 600 del 1973 e dell'art. 7, quarto comma, decreto legislativo n. 546 del 1992. Violazione e falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., in relazione alla valutazione delle prove". In particolare, si evidenzia che il giudice del gravame non ha tenuto conto dell'esito del procedimento penale riguardante l'anno di imposta 1984, che si era concluso con sentenza di non luogo a procedere nei confronti dei contribuenti. Inoltre, la presunzione di cui si è avvalso l'Ufficio avrebbe dovuto trovare fondamento su validi indizi, mentre l'unico presupposto individuato genericamente è coinciso con i conti cointestati, non essendovi prova della organizzazione di impresa, dello scopo sociale e dell'attività realizzata. Per gli anni 1981 e 1982 la Commissione tributaria ha riconosciuto l'inesistenza di società di fatto. In realtà, i ricorrenti svolgevano in maniera indipendente l'uno dall'altro la propria attività di commercialisti quali liberi professionisti, mentre quando avevano voluto porre in essere un'attività lucrativa avevano regolarmente costituito apposite società di capitali.

2. Con il secondo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono la "violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in relazione all'art. 32 del d.p.r. n. 600 del 1973-mancata prova dell'esistenza della società di fatto tra professionisti ed inapplicabilità dell'imposta ILOR al caso di specie". Invero, ai fini della qualificazione di una società di fatto nei rapporti di diritto tributario è necessario accertare l'effettiva sussistenza degli elementi costitutivi del vincolo sociale, non essendo sufficiente la mera apparenza di tale vincolo. Spetta, quindi, all'Amministrazione fornire la dimostrazione della concreta esistenza della società, senza potersi limitare a provare la sola apparenza esterna. Inoltre, l'accertamento ai fini ILOR non può essere per sua stessa natura imposto ai liberi professionisti, a meno che l'Ufficio non fornisca la prova che i movimenti sui conti correnti contestati provengano da attività diverse da quelle professionali svolte dai ricorrenti.

2.1. Il primo ed il secondo motivo, che vanno esaminati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono infondati.

2.2. Invero, per questa Corte, in materia tributaria, i criteri di identificazione della società di fatto sono diversi da quelli che assumono rilevanza nei rapporti contrattuali di diritto privato, giacché in questi ultimi l'esigenza è quella di tutelare l'affidamento senza colpa dei terzi basato sul comportamento dei soci che, perciò, si assumono il rischio relativo (Cass., sez. 1, 5 maggio 2016, n. 8981; Cass., sez. 1, 29 ottobre 1997, n. 10695; Cass., sez. 1, 11 marzo 2010, n. 5961); mentre nei rapporti di diritto tributario l'esigenza è quella di verificare l'esistenza dei presupposti per applicare norme impositive, sicché è necessario accertare l'effettiva esistenza degli elementi costitutivi del vincolo sociale, non essendo sufficiente la mera apparenza di tale vincolo, sia pure accompagnata dal ragionevole convincimento della sua esistenza (Cass., sez. 5, 16 dicembre 2005, n. 27775, Cass., sez. 1, 5 agosto 1996, n. 7164; Cass., sez. 1, 18 marzo 1988, n. 2500).

Si è aggiunto che, nel caso in cui si assuma, poi, l'esistenza di una società di fatto tra consanguinei (nella specie, tra figlio e padre), la prova della esteriorizzazione del vincolo deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che questa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che determinati comportamenti siano motivati da "affectio familiaris" (Cass., sez. 5, 16 dicembre 2005, n. 27775; Cass., sez. 1, 16 dicembre 2019, n. 33230).

Tuttavia, si è precisato che la prova della sussistenza della società di fatto, seppure non possa essere desunta dalla mera esteriorizzazione del vincolo nei confronti dei terzi, può essere però dedotta anche dall'esistenza di indici presuntivi (Cass., sez. 5, 16 giugno 2016, n. 12500).

Pertanto, si è affermato che l'esistenza di una società di fatto, nel rapporto tra i soci, non può essere desunta soltanto dalle dichiarazioni rese dalle persone coinvolte, essendo necessaria la dimostrazione, eventualmente anche con prove orali o mediante presunzioni, del patto sociale e dei suoi elementi costitutivi, quali: il fondo comune, l'esercizio congiunto di un'attività economica, l'alea comune dei guadagni e delle perdite, il vincolo di collaborazione in vista di detta attività (Cass., sez. 6-5, 15 settembre 2020, n. 19234; Cass., sez. 5, 11 marzo 2021, n. 6835).

Si è, dunque, precisato che, in tema di imposte sui redditi, ai fini dell'individuazione del soggetto effettivo titolare del reddito prodotto da una specifica attività economica, l'esistenza di una società di fatto può ben essere desunta da manifestazioni comportamentali rivelatrici di una struttura sovraindividuale indiscutibilmente consociativa, assunte non per una loro autonoma valenza, ma quali elementi apparenti e rivelatori, sulla base di una prova logica, dei fattori essenziali di un rapporto di società nella gestione dell'azienda (Cass., sez. 5, 20 gennaio 2006, n. 1127; Cass., sez. 6-5, 13 aprile 2017, n. 9604).

Pertanto, l'esistenza di un'attività imprenditoriale societaria richiede, ai fini fiscali, sia il requisito dell'apparenza del vincolo sociale nei confronti dei terzi, quale indice rivelatore della reale esistenza di tale società, sia l'effettiva esistenza degli elementi costitutivi di tale vincolo, che l'amministrazione può provare anche in via presuntiva. L'indagine va, quindi, condotta con riferimento agli elementi richiesti dall'art. 2247 c.c. per la sussistenza di un'attività societaria di fatto, consistente nell'intenzionale esercizio in comune fra i soci di un'attività commerciale, anche occasionale, a scopo di lucro e conferimento a tal fine dei necessari beni e servizi (Cass., sez. 5, 13 novembre 2008, n. 27088).

2.3. Nella specie, il giudice di merito, non solo ha evidenziato l'esistenza di una società di fatto che si manifestava come tale dinanzi ai terzi, ma anche accertato la sussistenza dei requisiti specifici della società di fatto, di cui all'art. 2247 c.c. (conferimento di beni, fondo comune, divisione degli utili e delle perdite, affectio societatis), desumendoli da tre elementi indiziari, gravi, precisi e concordanti.

Il giudice di merito ha congruamente valutato, ai fini della sussistenza della società di fatto tra i due professionisti, la circostanza dell'attività comune dei contribuenti diretta alla costituzione di varie società di servizi, l'uso degli stessi locali siti in via dei C. n. (..), nonché l'esistenza di un fondo comune manifestata dalla contitolarità di tre conti correnti con la Banca Nazionale del Lavoro, con il Banco di Santo Spirito e con l'Istituto Bancario Italiano.

Seppur sinteticamente, il giudice di merito ha correttamente valorizzato le circostanze che i due contribuenti, tra l'altro non in rapporti di stretta parentela, avessero la gestione di varie società di servizi, utilizzassero i medesimi locali per lo svolgimento delle varie attività ed avessero creato un fondo comune, attraverso la contestazione di tre conti correnti in tre istituti bancari diversi.

I ricorrenti chiedono a questa Corte, una nuova valutazione dei fatti, già congruamente effettuata dal giudice di merito, non consentita in questa sede. Peraltro, il vizio di motivazione non è articolato secondo i canoni di cui all'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., come modificato dal decreto-legge n. 83 del 2012, applicabile alle sentenze emesse a decorrere daini settembre 2012, ma è stato sviluppato semplicemente sulla doglianza "in relazione alla valutazione delle prove", senza indicare i fatti decisivi che sarebbero stati trascurati dal giudice di merito.

3. Né rileva la sentenza di non luogo a procedere pronunziata in favore dei contribuenti per l'anno 1984, sia perché l'anno di imposta in esame è il 1983, quindi un anno diverso, sia per la completa autonomia e indipendenza tra il giudizio penale ed il processo tributario. Non si comprende, peraltro, se la sentenza pronunciata in sede penale sia di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. o di assoluzione piena nel merito ai sensi dell'art. 530 c.p.p.

Invero, si ritiene che, in materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l'accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dall'art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l'imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l'atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario (Cass., sez. 6-5, 28 giugno 2017, n. 162629; Cass., sez. 5, 23 maggio 2012, n. 8129; Cass., sez. 5, 4 dicembre 2020, n. 27814; Cass., sez. 5, 27 giugno 2019, n. 17258).

4. Sussistendo, dunque, la società di fatto tra i due professionisti, perde rilievo la questione in ordine all'applicabilità dell'ILOR ai professionisti.

5. Non si provvede sulle spese del giudizio di legittimità, in assenza di attività difensiva da parte dell'Agenzia delle entrate.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis, dello stesso art. 1, se dovuto