Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 04 ottobre 2016, n. 19774

Rapporto di lavoro - Inabilità assoluta e permanente - Residua capacità lavorativa - Accertamento medico - Licenziamento per motivo oggettivo

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza n. 890/2014, depositata il 2 ottobre 2014, la Corte di appello di Milano, in riforma della sentenza del Tribunale di Milano, dichiarava illegittimo il provvedimento, con il quale la Regione Lombardia aveva, con effetto immediato, dispensato dal servizio il proprio dipendente R.C., a seguito di accertamento medico che lo aveva valutato inabile in modo assoluto e permanente a qualsiasi proficuo lavoro, disponendo la reintegrazione in servizio del lavoratore e il pagamento in suo favore di un'indennità risarcitoria commisurata a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

La Corte osservava che nella specie, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, non si era in presenza di una risoluzione automatica del rapporto ma di licenziamento per motivo oggettivo; che nessun accertamento di natura tecnica, anche nel caso in cui sia contemplata la possibilità di fare ricorso contro il medesimo in sede amministrativa, riveste un tale carattere di definitività da impedire la sua verifica nel processo; che la disposta consulenza medico-legale aveva consentito di accertare nel reclamante una residua capacità lavorativa. Su tali premesse, concludeva la Corte che, risolvendosi l'ipotesi della dispensa dal servizio per inidoneità del lavoratore in un'ipotesi di licenziamento per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica dello stesso, risultava integrata la fattispecie di cui all'art. 18, co. 7°, l. 20 maggio 1970, n. 300, della quale riteneva l'applicabilità ai rapporti di lavoro privatizzati alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, sia quanto ai profili sostanziali che a quelli processuali. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la Regione Lombardia con cinque motivi, illustrati da memoria; il C. ha resistito con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo la ricorrente Regione Lombardia denuncia, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione dell'art. 1 I. n. 92/2012, per avere la Corte di appello di Milano erroneamente ritenuto applicabile la nuova disciplina dei licenziamenti anche ai rapporti alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, senza considerare che le disposizioni contenute nei commi 7 e 8 di detto articolo giustificavano la soluzione interpretativa opposta.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia ancora, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell'art. 1 I. n. 92/2012, peravere la Corte qualificato erroneamente la fattispecie come licenziamento, e conseguentemente applicato l’art. 18 I. n. 300/1970, anziché come risoluzione automatica del rapporto, nonostante che l'Amministrazione, vincolata dal giudizio della Commissione medica, non disponesse di alcun margine di discrezionalità in ordine alla prosecuzione del rapporto.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c., l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, per avere la Corte omesso di pronunciare sulla istanza di richiamo del consulente tecnico d'ufficio a chiarimenti, istanza che aveva formato oggetto di specifica discussione fra le parti all'udienza del 24 settembre 2014 e che doveva considerarsi fatto decisivo per la risoluzione della controversia.

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione dell'art. 18, co. 7° I. n. 300/1970, riferendosi la norma, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, al solo caso della inabilità relativa alle mansioni svolte.

Con il quinto motivo la ricorrente denuncia ancora, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione dell'art. 18 I. n. 300/1970, per avere la Corte determinato l'indennità risarcitoria nella misura massima prevista, nonostante che al datore di lavoro, vincolato a disporre il collocamento a riposo del proprio dipendente, non fosse ascrivibile alcun inadempimento.

Il ricorso deve essere respinto.

Il primo motivo è inammissibile per carenza di interesse ad impugnare.

Risulta, infatti, privo di interesse il ricorso che, censurando la sentenza impugnata per avere applicato l’art. 18 I. n. 300/1970, così come modificato dalla I. 28 giugno 2012, n. 92, tenda alla sostituzione di tale disciplina con quella di cui all'art. 18 cit. nella formulazione anteriore, prevedendo quest'ultima, oltre alla tutela reale, il pagamento di un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione, in luogo di una più vantaggiosa per la ricorrente indennità risarcitoria contenuta nel limite delle dodici mensilità.

Il secondo motivo è infondato.

Al riguardo, si osserva, in primo luogo, che il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nel determinare all’art. 2 le fonti del rapporto di pubblico impiego privatizzato, indica le "disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile" (artt. 2082-2134 c.c.) ed inoltre le "leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa", fatte salve le diverse disposizioni contenute nello stesso decreto n. 165/2001 "che costituiscono disposizioni a carattere imperativo".

Ne consegue che, in linea generale, la forma tipica dei recesso del datore di lavoro è, anche per l'impiego privatizzato, quella del licenziamento, senza che, in difetto di norme speciali, possano trovare ingresso cause di risoluzione automatica del rapporto.

In coerenza con tale premessa, di ordine generale e sistematico, I'art. 55 octies d. Igs. n. 165/2001, prevede, per il caso di "permanente inidoneità psicofisica" del dipendente, che l'amministrazione di appartenenza "può risolvere il rapporto di lavoro", in tal modo confermando lo schema della sussistenza di un diritto potestativo di recesso in capo alla medesima, cui si contrappone, peraltro con le previste garanzie sostanziali e processuali, la posizione di soggezione del lavoratore.

Né può consentirsi una diversa lettura della norma primaria sul rilievo che il regolamento di attuazione, di cui al D.P.R. 27 luglio 2011, n. 171, adotti una diversa formulazione normativa, nel senso che, in caso di accertata permanente inidoneità psicofisica assoluta al servizio del dipendente, l'amministrazione "risolve il rapporto di lavoro", posto che, al di là di ogni pur assorbente considerazione sul rapporto gerarchico tra le fonti del caso concreto, resta che, anche di fronte ad una inidoneità "assoluta" (ovvero, più esattamente, presentata o emergente come tale), l'amministrazione conserva il diritto di esercitare o meno, senza vincoli di automatismo, il potere che le è attribuito, vagliando, a tutela del proprio interesse, se il procedimento, attraverso il quale la valutazione medica è stata acquisita, corrisponda alle previsioni che presiedono al suo regolare svolgimento, se le sue conclusioni siano adeguatamente motivate o se, invece, non pongano dubbi sulla loro effettiva plausibilità, se non debba ritenersi opportuno un qualche momento di integrazione e di ulteriore approfondimento.

D'altra parte, è consolidato l'orientamento, secondo il quale "ai fini dell'accertamento dell'idoneità al servizio dei dipendenti di aziende locali di trasporto pubblico, il parere della Commissione medica di cui all'art. 1 del decreto del 23 febbraio 1999, n. 88, concernente il controllo dell’idoneità fisica e psicoattitudinale del personale addetto ai servizi pubblici di trasporto, non è vincolante per il giudice di merito adito per l'accertamento della illegittimità del licenziamento disposto a seguito di detto accertamento, avendo egli - anche in riferimento ai principi costituzionali di tutela processuale - il potere di controllare l'attendibilità degli esami sanitari effettuati dalla predetta Commissione, sicché il datore di lavoro, nel momento in cui opera il licenziamento, agisce, come già argomentato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 420 del 1998, accollandosi il rischio di impresa avente ad oggetto la possibilità che l'Organo giudicante possa giudicare in modo contrario l'idoneità del dipendente" (Cass. 8 febbraio 2008 n. 3095; conforme Cass. n. 16195/2011).

Il terzo motivo è inammissibile.

Esso, infatti, non tiene conto del nuovo vizio di motivazione di cui alla modifica introdotta con il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito in I. 7 agosto 2012, n. 134, pur in presenza di sentenza di appello depositata in data 2/10/2014 e, pertanto, in data posteriore all'entrata in vigore della modifica (11 settembre 2012).

Come precisato da questa Corte a Sezioni Unite con le sentenze 7 aprile 2014 n. 8053 e n. 8054, l'art. 360 n. 5 c.p.c., così come riformulato a seguito della novella legislativa, configura un vizio specifico denunciabile per cassazione, costituito dall'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (e cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., il ricorrente è tenuto ad indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte te risultanze probatorie. E' del tutto evidente come il mancato esame, da parte della Corte di appello, dell'istanza di riconvocazione del consulente tecnico d'ufficio a chiarimenti non dia luogo ad omesso esame di un "fatto storico", principale o secondario che sia, connotato da "decisività" ai fini del decidere, risolvendosi nell'uso dei poteri, che fanno capo al giudice del merito, di acquisizione e di valutazione del materiale di prova.

Il quarto motivo è infondato.

Il comma 7° dell'art. 18 I. n. 300/1970, così come introdotto con la I. n. 92/2012, non distingue tra inabilità assoluta e relativa alle mansioni svolte, facendo ampio e generale richiamo al "motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica" del lavoratore, così che esso ha trovato esattamente applicazione nel caso concreto.

Parimenti infondato è il quinto motivo di ricorso.

Il comma 4° dell'art. 18, alla cui disciplina fa riferimento il co. 7° del medesimo articolo, prevede, in aggiunta alla reintegrazione, il pagamento di un'indennità risarcitoria (in misura correlata all'ultima retribuzione globale di fatto) dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva riammissione in servizio, peraltro stabilendo che "in ogni caso" la misura di tale indennità "non può essere superiore a dodici mensilità".

Si tratta di disposizione palesemente volta a contenere, in talune ipotesi di licenziamento illegittimo, le conseguenze economiche a carico del datore di lavoro, predeterminandone l'ammontare mediante la fissazione di un limite alle mensilità che lo stesso è tenuto a corrispondere al lavoratore.

Nell'assenza di indicazione di espliciti criteri orientativi, è da ritenere che il potere del giudice di determinare la misura dell'indennità, mediante un numero maggiore o minore di mensilità, debba tenere conto delle circostanze del caso concreto nel loro insieme e comunque di due dati essenziali, che invece risultano normativamente espressi, sia pure ad altri fini: e cioè (a) la durata del periodo intercorrente tra il licenziamento e l'effettiva reintegrazione, quale parametro ordinario di liquidazione dell'indennità; (b) l'avere o meno il lavoratore, nella fase di estromissione dal posto di lavoro, percepito redditi derivanti dallo svolgimento di altre attività lavorative, perché essi, ove sussistenti, devono essere portati in detrazione dall'indennità.

Su tali premesse, la sentenza impugnata si sottrae alla censura che con il motivo in esame le viene rivolta.

Essa, infatti, sia pure con motivazione implicita, ha tenuto conto sia del lungo tempo trascorso tra la data del recesso (agosto 2012) e la data della pronuncia di condanna alla reintegra (settembre 2014), ben superiore ad un anno e, quindi, al limite massimo dell'indennità; sia della (pacifica) inoccupazione del C. per il medesimo prolungato periodo, non risultando in alcun momento dedotto un aliunde perceptum.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Respinge il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compenso professionale, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.