Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 19 marzo 2024, n. 7274

Lavoro - Licenziamento disciplinare - Ingiustificata assenza dal servizio - Inammissibilità

 

Fatti di causa

 

Il Comune di Brescia ricorre avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano, in sede di rinvio dopo la cassazione della sentenza n. 357/2018 della Corte d’Appello di Brescia, ha accolto l’impugnazione di V.T., agente di polizia municipale, contro il licenziamento disciplinare inflittole per un’asserita ingiustificata assenza dal servizio prolungatasi per oltre due anni.

La lavoratrice aveva in origine impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, che aveva respinto la domanda, con decisione successivamente confermata dalla citata sentenza della Corte d’Appello di quella città, che venne però cassata con rinvio dalla sentenza n. 5813/2022 di questa Corte.

Il ricorso del Comune di Brescia per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Milano è articolato in tre motivi. La lavoratrice è rimasta intimata. Il ricorrente ha anche depositato memoria illustrativa. Il Pubblico Ministero ha rassegnato conclusioni scritte per il rigetto del ricorso. Alla pubblica udienza sono intervenuti il rappresentante del Pubblico Ministero e il difensore del ricorrente.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».

1.1. Per comprendere la doglianza è necessario ripercorrere brevemente la vicenda per cui è causa.

L’attuale intimata venne sospesa cautelativamente dal servizio e dallo stipendio (sostituito dall’assegno alimentare) il 24.5.2013, a seguito di una condanna in primo grado per peculato. In data 10.4.2016 il difensore della lavoratrice comunicò al Comune di Brescia che la sua cliente era stata assolta in appello dal reato di peculato, e condannata soltanto per molestie, con sentenza passata in giudicato il 27.6.2014. A quel punto il Comune di Brescia applicò alla sua dipendente la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per un mese, in rapporto alla definitiva condanna penale per molestie (sanzione originariamente anch’essa impugnata in questo processo, ma non più in discussione nella fase attuale), e avviò un nuovo procedimento disciplinare contestando alla dipendente l’assenza ingiustificata dal servizio dal momento della assoluzione penale in appello fino alla riammissione in servizio a seguito della tardiva comunicazione al datore di lavoro di tale esito processuale.

Questo procedimento disciplinare si concluse con la sanzione del licenziamento che è stata impugnata dalla lavoratrice e per due volte confermata dai giudici di Brescia, ma che poi, con la sentenza attualmente impugnata, è stata annullata dalla Corte d’Appello di Milano, in sede di rinvio, in applicazione del principio enunciato dalla Corte di cassazione nella sentenza rescindente, secondo cui: «In mancanza di una disposizione di riammissione del dipendente in servizio, non può configurarsi a carico di quest’ultimo un addebito di assenza ingiustificata».

1.2. Il primo motivo di ricorso contesta alla Corte d’Appello milanese di non avere considerato che la contestazione disciplinare non aveva ad oggetto soltanto la prolungata assenza ingiustificata dal servizio della lavoratrice dopo l’assoluzione in sede penale (aspetto sul quale la sentenza rescindente n. 5813/2022 non lascia spazio ad ulteriori considerazioni), ma anche la violazione dei doveri di comportamento gravanti sul pubblico impiegato insita nella ritardata comunicazione al datore di lavoro di essere stata assolta dal delitto di peculato.

1.3. Il motivo è inammissibile, perché quello che si contesta non è l’omesso esame del contenuto della contestazione disciplinare, bensì l’esito, non condiviso, di quell’esame, che la Corte d’Appello ha sicuramente effettuato.

1.3.1. La sentenza impugnata ha infatti espresso il giudizio che «Dalla lettura della lettera di contestazione del 4.5.2016 … emerge che l’unica condotta contestata a T. sia stata l’assenza ingiustificata … È vero infatti che nella lettera di contestazione si legge “il comportamento da Lei tenuto integra gravi violazioni dei doveri del dipendente …”, ma il comportamento menzionato nella lettera, individuato quale contrario ai doveri del dipendente, è solo ed esclusivamente quello di assenza che il Comune qualifica come ingiustificata».

Ciò dimostra che la contraria opinione di parte ricorrente è stata esaminata e disattesa dal giudice del merito ed esclude in radice che sussista l’ipotesi dell’omesso esame.

1.3.2. Si aggiunga che la Corte d’Appello, declinando in tal modo una seconda, autonoma ratio decidendi, ha tuttavia preso in considerazione anche il prospettato illecito consistente nel non avere la lavoratrice comunicato, per lungo tempo, la propria assoluzione e, quindi, la sopravvenuta condizione per la riammissione in servizio. E ha concluso «ad abundantiam» per la non configurabilità di un illecito disciplinare omissivo, non essendo previsto a carico del dipendente un dovere di comunicare le sentenze penali pronunciate nei suoi confronti, ma soltanto la facoltà di attivarsi per far cessare lo stato di sospensione, come statuito dalla giurisprudenza di legittimità ivi citata (Cass. n. 7657/2019)

2. Il secondo motivo è rubricato «violazione e falsa applicazione degli artt. 2118 [recte 1218], 1175, 1366, 1375 e 2104 c.c., dell’art. 23, comma 1, 2, 3, lett. A, del CCNL 6.7.1995, come modificato dal CCNL 22.1.2004, dell’art. 3 Codice comportamento del Comune e dell’art. 3, commi 1 e 7, lett. i), del CCNL 11.4.2008», in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.

2.1. Con questo motivo il ricorrente censura proprio il giudizio espresso dalla Corte d’Appello sulla irrilevanza disciplinare della ritardata comunicazione dell’intervenuta assoluzione in sede penale, di cui si prospetta, invece, non solo la rilevanza disciplinare, ma anche la gravità tale da rendere comunque proporzionata la sanzione massima del licenziamento.

2.2. Il motivo è inammissibile, perché inidoneo ad ottenere la cassazione della sentenza impugnata, posto che è volto a censurare una sola (oltretutto, quella espressa «ad abundantiam») delle autonome rationes decidendi con cui la Corte d’Appello ha motivato l’annullamento della sanzione disciplinare.

Una volta constatata l’inefficacia del primo motivo, volto a censurare la principale ratio decidendi per cui la contestazione disciplinare riguardava solo l’assenza ingiustificata, risulta inutile prospettare la sussistenza e la gravità di altri potenziali illeciti disciplinari, non contestati.

3. Il terzo motivo denuncia, «violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, comma 3, 1217, comma 1, 1227, comma 2, e 2099 c.c.», in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.

3.1. Con questo motivo il ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia riconosciuto all’attuale intimata, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, le differenze tra retribuzione e assegno alimentare maturate nel periodo intercorso tra l’assoluzione in sede penale dal delitto di peculato e la riammissione in servizio seguita alla comunicazione dell’assoluzione da parte della lavoratrice.

In sostanza, il ricorrente rileva che la dipendente avrebbe dovuto e potuto evitare il danno semplicemente comunicando al datore di lavoro il fatto della sua assoluzione, ignorato dal Comune per una carenza della cancelleria del giudice penale d’appello, che avrebbe dovuto comunicarglielo.

3.2. Tra i riferimenti normativi indicati nella rubrica del motivo, l’unico pertinente è quello all’art. 1227 c.c., che disciplina il «Concorso del fatto colposo del creditore».

Sennonché, una volta escluso che la lavoratrice avesse l’obbligo di comunicare al datore di lavoro l’esito del processo penale, non può trovare applicazione nel caso di specie l’art. 1227, comma 1, c.c., non potendosi configurare un concorso di colpa tra le parti del rapporto contrattuale.

Astrattamente fondato sarebbe, invece, il richiamo alla violazione dell’art. 1227, comma 2, c.c., perché – a prescindere dall’inquadramento del suo contegno come inadempimento ai doveri contrattuali – rimane il fatto che la lavoratrice avrebbe potuto evitare facilmente il danno di cui ha chiesto e ottenuto il risarcimento «usando l’ordinaria diligenza», ovverosia esercitando la facoltà di chiedere la revoca della sospensione cautelare dal servizio.

Ma la questione non può essere presa in esame – e il ricorso è, anche sotto questo profilo, inammissibile – perché il ricorrente non allega (e men che meno dimostra) di avere sollevato la specifica eccezione di cui all’art. 1227, comma 2, c.c. nel corso del giudizio di merito. È infatti insegnamento consolidato di questa Corte che, a differenza del concorso di colpa di cui al comma 1 (da ultimo Cass. n. 4770/2023), il rilievo della possibilità, per il creditore, di evitare il danno con l’ordinaria diligenza esige un’eccezione di parte in senso stretto e, quindi, da sollevare tempestivamente nel giudizio di merito (Cass. nn. 14853/2007; 15750/2015).

4. Dichiarato inammissibile il ricorso, non occorre provvedere sulle spese relative al presente giudizio di legittimità, essendo rimasta intimata la lavoratrice.

5. Si dà atto che sussistono i presupposti, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello eventualmente dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.