Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 29 maggio 2023, n. 15060

Tributi - Fondo d'investimento mobiliare residente in USA - Convenzione bilaterale tra Governo italiano e Governo USA - Istanze di rimborso - Libera circolazione dei capitali - Principio di non discriminazione - Doppia imposizione - Vizio di motivazione - Art. 63 TFUE - Ritenute sui dividendi distribuiti - Concorso tra normativa convenzionale e diritto Euro-unitario - Interpretazione adeguatrice - Accoglimento

 

Fatti di causa

 

1. T.N.E.F. - F. (nel prosieguo il "(...)") fondo d'investimento mobiliare di diritto statunitense residente in (...) (USA), ha detenuto, nei periodi di imposta compresi tra il 2007 ed il 2010, partecipazioni in diverse società italiane quotate in borsa, ricavandone dividendi sui quali le società partecipate hanno operato una ritenuta nella misura interna del 27 per cento o nella misura del 15 per cento, conformemente a quanto prescritto dall'art. 10, comma 2, lett. b), di ambedue le Convenzioni stipulate tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo degli Stati Uniti d'America il 17 aprile 1984 (ratificata e resa esecutiva in Italia con la l. 11 dicembre 1985, n. 763) e, successivamente, il 25 agosto 1999, con scambio di note effettuato il 10 aprile 2006 e il 27 febbraio 2007 (ratificata e resa esecutiva in Italia con la l. 3 marzo 2009, n. 20).

Il (...) ha presentato all'Amministrazione finanziaria, per i periodi di imposta dal 2007 al 2010, istanze di rimborso della maggiore tassazione indebitamente pagata attraverso la ritenuta del 15 per cento, che assumeva illegittima in quanto determinante, a danno dei percettori di dividendi non residenti, un trattamento irragionevolmente deteriore, e quindi discriminatorio ai sensi dell'art. 63 TFUE, rispetto a quello riservato, nello stesso periodo, ai dividendi percepiti da un fondo d'investimento mobiliare residente nel territorio dello Stato italiano, che avrebbero subito un'imposizione sostitutiva pari al 12,5 per cento (oppure al 5 per cento qualora il regolamento del fondo prevedesse che non meno dei due terzi del relativo attivo fossero investiti in azioni ammesse alla quotazione nei mercati regolamentati degli Stati membri dell'Unione Europea di società di piccola o media capitalizzazione), così come previsto dalla L. 23 marzo 1983, n. 77, art. 9 (nella versione vigente ratione temporis).

A fronte del silenzio serbato dall'Ufficio sulle istanze di rimborso, il (...) ha proposto ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale di Pescara, che lo ha rigettato.

Il (...) ha allora impugnato la sentenza di primo grado e l'adita Commissione tributaria regionale dell'Abruzzo, con la sentenza di cui all'epigrafe, ha rigettato l'appello.

Il (...) ha quindi proposto ricorso, affidato a quattro motivi, per la cassazione della predetta sentenza d'appello.

Ha resistito l'Amministrazione con controricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., dell'art. 118 disp. att. c.p.c., nonché del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36 in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto "il capo della sentenza dedicato alla questione della discriminazione tra regimi fiscali in violazione del principio di libera circolazione dei capitali ex art. 63 TFUE, ed agli effetti connessi all'operare di una convenzione bilaterale per evitare le doppie imposizioni, è caratterizzato da una motivazione apparente, essendo le statuizioni dei giudici della CTR decontestualizzate rispetto al tenore delle eccezioni formulate in appello".

2. Con il secondo motivo si lamenta la violazione dell'art. 63 del TFUE e della Cost., art. 117, comma 1, in relazione all' art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Assume il ricorrente che la CTR, nel ritenere applicabile la normativa nazionale che ha recepito il trattato tra Italia e Stati Uniti contro le doppie imposizioni, avrebbe violato il principio comunitario di libera circolazione dei capitali, per come interpretato dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea.

In subordine all'eventuale rigetto della censura, lo stesso ricorrente chiede poi che la questione sia rimessa, tramite rinvio pregiudiziale, alla Corte di giustizia.

3. Con il terzo motivo il contribuente denuncia la violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., dell'art. 118 disp. att. c.p.c., nonché del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36 in relazione all' art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la CTR reso una motivazione apparente in ordine alla negata sussistenza della discriminazione eccepita, omettendo totalmente la disamina degli elementi, esposti dal (...) nell'atto di appello, relativi alla rappresentazione del carico fiscale effettivo gravante sui fondi nei diversi sistemi nazionali, non consentendo di comprendere le ragioni che hanno portato a confermare la pronuncia del giudice di prime cure.

4. Con il quarto motivo il (...) lamenta la violazione dell'art. 63 del Trattamento sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27 comma 3, dell'art. 9 della l. n. 77/1983 (nelle versioni vigenti ratione temporis), in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., deducendo che le conclusioni dei Giudici di appello sarebbero, in ogni caso, la risultante di un'erronea interpretazione del diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte UE, e della disciplina interna relativa alla tassazione dei fondi residenti, dalla quale non è possibile inferire alcuno svantaggio in termini di regime fiscale applicabile ai fondi residenti.

5. Il primo e terzo motivo, sostenendo entrambi la natura meramente apparente, e quindi la sostanziale insussistenza, della motivazione resa dal giudice a quo, possono essere trattati congiuntamente e sono infondati.

Il ricorrente censura in primo luogo "Il capo della sentenza dedicato alla questione della discriminazione tra regimi fiscali in violazione del principio di libera circolazione dei capitali ex art. 63 TFUE, ed agli effetti connessi all'operare di una convenzione bilaterale per evitare le doppie imposizioni" in quanto "caratterizzato da una motivazione apparente, essendo le statuizioni dei Giudici della CTR del tutto insufficiente per dare conto delle ragioni che informano la pronuncia" e apparendo la sentenza della CTR "priva di un percorso argomentativo articolato in funzione dei motivi esposti dal (...) in sede di gravame".

Tale vizio risulterebbe, in particolare, dal rinvio operato dalla CTR alla giurisprudenza comunitaria in materia di principio di non discriminazione, argomento che sarebbe stato impropriamente ed insufficientemente trattato nella sentenza impugnata, nonostante fosse stato oggetto di ampia argomentazione nell'appello del (...). Da tale carenza, secondo il contribuente, deriverebbe l'impossibilità di percepire l'iter logico seguito dal giudice a quo.

5.1. La conclusione, tuttavia, non è condivisibile, in quanto la censura attiene piuttosto alla fondatezza delle considerazioni espresse dalla CTR, lamentando invero il ricorrente che la giurisprudenza Eurounitaria ed i principi di diritto applicabili condurrebbero "ad un esito diametralmente opposto a quello che emerge dalla sentenza della CTR".

Anche per quanto attiene agli ulteriori passaggi motivazionali denunciati - relativi alla compatibilità della Convenzione contro le doppie imposizioni con l'art. 63 TFUE ed al correlato onere probatorio, nonché alla rappresentazione del carico fiscale effettivo gravante sui fondi nei diversi sistemi nazionali - il percorso argomentativo seguito dalla CTR è comprensibile nei suoi elementi essenziali, laddove perviene ad escludere la natura discriminatoria della disciplina convenzionale ad esito i) dell'esame del trattamento - anzi ritenuto di favore - che sarebbe assicurato dalla diversa modalità di tassazione prevista per le ritenute operate in relazione a soggetti non residenti; ii) al mancato adempimento da parte del (...) dell'onere di provare "l'esistenza, anche parziale di una disparità di trattamento in concreto".

Ed infatti è tale errata interpretazione ed applicazione di tutto il contesto normativo, di livello internazionale, comunitario e nazionale, sia costituzionale sia ordinario - che censura il (...) ricorrente.

5.2. Va allora rammentato che "La riformulazione dell' art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione." (Cass., sez. un., 7/04/2014, n. 8053; Cass. sez. I, 3 /03/2022, n. 7090).

Nessuna di tali fattispecie ricorre nel caso in esame, nel quale anche le aporie che emergono dalla motivazione della CTR trovano causa immediata nell'erronea impostazione delle questioni di diritto.

6. Il secondo e quarto motivo, da esaminare congiuntamente per la loro intima connessione, sono, nei termini che seguono, fondati.

6.1. La società contribuente, con sede in U.S.A., lamenta di aver ricevuto un ingiustificato trattamento discriminatorio in materia di tassazione dei dividendi corrisposti da società italiane. Assume che, in ragione dell'art. 10 del Trattato sulle doppie imposizioni tra Italia e U.S.A, i dividendi percepiti in ragione di una partecipazione in una società di capitali italiana erano stati assoggettati a ritenuta alla fonte in misura pari al 15 per cento. Se, invece, i dividendi fossero stati percepiti da un (...) di investimento mobiliare residente nel territorio dello Stato avrebbero subito un'imposta sostitutiva pari al 12,5 per, a norma della l. 23 marzo 1983, n. 77, art. 9 comma 2, vigente ratione temporis (o al 5 per cento, qualora il regolamento del fondo prevedesse che non meno dei due terzi del relativo attivo fossero investiti in azioni ammesse alla quotazione nei mercati regolamentati degli Stati membri dell'Unione Europea) con evidente disparità di trattamento con i fondi pensione italiani.

Per l'effetto, chiama in causa l'art. 63 TFUE il quale vieta tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi, e tutte le restrizioni sui pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi.

6.2. La Corte, in precedenti analoghi a quello in esame a cui il Collegio intende dare continuità ha affermato il seguente principio di diritto: " In tema di ritenute applicabili sui dividendi distribuiti, negli anni dal 2008 al 2010, da società residenti in Italia a fondi d'investimento mobiliare residenti negli Stati Uniti, l'art. 10, par. 2, lett. b) della Convenzione Italia U.S.A., per il quale l'imposta applicata dallo Stato di residenza della società che paga i dividendi "non può eccedere il 15 per cento dell'ammontare lordo", va interpretato - secondo il canone di buona fede ex art. 31 del Trattato di Vienna ed i principi della fiscalità comunitaria ed internazionale, per evitare la violazione dell'art. 63 TFUE in tema di libera circolazione dei capitali tra Stati membri e paesi terzi - nel senso che nanche ai dividendi pagati da società residenti ai fondi d'investimento mobiliare aperti statunitensi si applica l'aliquota del 12,5 per cento, cui erano assoggettati ratione temporis, sul risultato della gestione, i fondi comuni mobiliari aperti residenti ai sensi della l. n. 77 del 1983, art. 9 comma 2." (Cass. 6/07/2022, n. 21481).

6.3. L'art. 10 Convenzione tra Italia e Stati Uniti d'America (rimasto, in parte qua, invariato nelle due versioni del trattato ratificate dalle leggi n. 763 del 1985 e n. 20 del 2009) determina il limite massimo dell'aliquota applicabile alla ritenuta sui dividendi distribuiti da una società partecipata, residente in Italia, ad un soggetto partecipante, residente negli Stati Uniti. La disposizione si innestava pertanto sulla norma nazionale - il d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27 - che disciplinava la ritenuta sui dividendi pagati da società residenti in Italia a soggetti non residenti nel territorio dello Stato.

Nel medesimo periodo, con riferimento ai fondi comuni di investimento in valori mobiliari aperti residenti, la l. 23 marzo 1983, n. 77, art. 9 primo e comma 2, applicabile ratione temporis (prima della sua soppressione, dall'1 luglio 2011, per effetto del d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, art. 2 convertito, con modificazioni, dalla l. 26 febbraio 2011, n. 10, che ha abrogato l'imposta sostitutiva sul risultato maturato dalla gestione del fondo, sostituendola con la ritenuta in capo al partecipante al momento della percezione dei dividendi) disponeva, per quanto qui rileva, che: " 1. I fondi comuni di cui all'art. 1 non sono soggetti alle imposte sui redditi. Le ritenute operate sui redditi di capitale si applicano a titolo d'imposta. Non si applicano la ritenuta prevista dal comma 2 dell'art. 26 del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, sugli interessi ed altri proventi dei conti correnti bancari, a condizione che la giacenza media annua non sia superiore al 5 per cento dell'attivo medio gestito, nonché le ritenute del 12,50 per cento e del 5 per cento previste dai commi 3 e 3-bis dell'art. 26 del predetto decreto e dal comma 1 dell'art. 10-ter della presente legge. 2. Sul risultato della gestione del (...) maturato in ciascun anno la società di gestione preleva un ammontare pari al 12,50 per cento del risultato medesimo a titolo di imposta sostitutiva. La predetta aliquota è ridotta al 5 per cento, qualora il regolamento del fondo preveda che non meno dei due terzi del relativo attivo siano investiti in azioni ammesse alla quotazione nei mercati regolamentati degli Stati membri dell'Unione Europea (...)".

6.4. I dubbi sulla compatibilità con il diritto Europeo del regime fiscale applicato ai dividendi distribuiti in Italia ad organismi di investimento collettivo del risparmio (O.I.C.R.) esteri, stabiliti però in altri Stati membri dell'U.E. e nello S.E.E., per la possibile discriminazione rispetto al trattamento riservato a quelli nazionali, sono stati portati all'attenzione della Commissione Europea, anche se con riferimento ad una disciplina normativa nazionale in parte successiva e diversa (il d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 73 comma 5-quinquies, introdotto dal d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, art. 73 comma 6, convertito, con modificazioni dalla l. 26 febbraio 2011, n. 10 e successivamente modificato dal d.l. n. 1 del 2012, art. 96 comma 1, lettera a), in tema di soggetti passivi dell'imposta sul reddito delle società) rispetto a quella in vigore nei periodi qui sub iudice, e con riferimento diretto al d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27 comma 3, a proposito di ritenuta, con l'aliquota del 27 per cento sugli utili corrisposti a soggetti non residenti nel territorio dello Stato. La Commissione ha avviato un'attività investigativa (cfr. EU PILOT 8105/15/TAXU), presso le autorità fiscali italiane, diretta a verificare la disponibilità delle stesse a conformare quella disciplina italiana ai principi comunitari, sfociata infine nelle modifiche operate dalla L. 30 dicembre 2020, n. 178, commi da 631 a 633, che, con riferimento ai dividendi percepiti dall'1 gennaio 2021, equipara il trattamento fiscale dei dividendi e delle plusvalenze conseguiti da organismi di investimento collettivo di diritto estero, sempre istituiti in Stati membri UE o in Stati aderenti all'Accordo sullo spazio economico Europeo (S.E.E.) che consentono un adeguato scambio di informazioni, al trattamento fiscale dei dividendi e delle plusvalenze realizzati da analoghi organismi istituiti e residenti in Italia.

6.5. Come evidenziato dalla ricorrente, società con sede in uno Stato terzo, nel caso in esame viene in rilievo l'art. 63 TFUE, in materia di libera circolazione dei capitali, il quale così dispone "1. Nell'ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi. 2. Nell'ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni sui pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi".

Pertanto, secondo il disposto di cui alla norma citata, tra le libertà fondamentali del Trattato, la libera circolazione dei capitali, si estende anche agli Stati terzi.

6.6. Venendo a quanto oggetto dei motivi in esame, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia emerge che le misure vietate dall'art. 63 cit. in quanto restrizioni dei movimenti di capitali, comprendono quelle che sono idonee a dissuadere i non residenti dal compiere investimenti in uno Stato membro o a dissuadere i residenti di detto Stato membro dal compierne in altri Stati (Corte giustizia 10/04/2014, E.M.S.I.T.C., C-190/12; Corte giustizia 22/11/2018, S. e a., C-575/17; Corte giustizia, 13/11/2019, C.P.P.B.C. C-641/17; nello stesso senso, ex multis, Corte giustizia 18/12/2007, S., C-101/05; Corte giustizia 10/02/2011, H.L.H.R.O.S., C-436/08 e C-437/08; Corte giustizia 10/05/2012, S., da C-338/11 a C-347/11; Corte giustizia, 30/01/2020, K.A.D., C-156/17).

Nel solco tracciato dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea questa Corte ha ribadito che la circostanza che il contribuente non sia residente in uno Stato membro non preclude a priori la rilevanza dell'art. 63 cit. (Cass. 6/07/2022, nn. 21454, 21475, 21479, 21480, 21481 seguita da Cass. 7/07/2022, n. 21598).

6.7. La libertà di circolazione dei capitali subisce eccezioni, che possono essere legittimamente applicate dagli Stati membri, solo nei casi disciplinati dall'art. 65 TFUE.

A norma dell'art. 65, paragrafo 1, lett. a), TFUE la disposizione di cui al precedente 63 TFUE non pregiudica il diritto degli Stati membri di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale.

La Corte di giustizia ha chiarito che tale disposizione, costituendo una deroga al principio fondamentale della libera circolazione dei capitali, deve essere oggetto di interpretazione restrittiva. Pertanto, essa non può essere interpretata nel senso che qualsiasi legislazione tributaria che operi una distinzione tra i contribuenti in base al luogo in cui essi risiedono o allo Stato in cui investono i loro capitali sia automaticamente compatibile con il Trattato. Infatti, la deroga prevista dall' art. 65, paragrafo 1, lett. a), TFUE subisce essa stessa una limitazione per effetto dell' art. 65, paragrafo 3, TFUE, il quale stabilisce che le disposizioni nazionali di cui al paragrafo 1 non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali e dei pagamenti di cui all'art. 63 (Corte giustizia 24/11/2016, S.-C.G.C. SA, Causa C-464/14 Cass. 10/04/2014, E.M.S.D.I.T.C., C-190/12).

Le differenze di trattamento autorizzate dall' art. 65, paragrafo 1, lett. a), TFUE devono, pertanto, essere mantenute distinte dalle discriminazioni vietate dal paragrafo 65, paragrafo 3, TFUE,.

La Corte di giustizia dell'Unione Europea ha chiarito che le diversità di trattamento, per potersi considerare legittime, devono essere giustificate: 1) da ragioni di interesse generale, oppure 2) devono riguardare situazioni che non siano comparabili (Corte giustizia 24/11/2016, S.-C.G.C.C. SA, C-464/14 Corte giustizia 10/05/2012, S.A.M.S.e a., da C-338/11 a C-347/11 Corte giustizia 10/02/2011, H.L.H.R.O.S., C-436/08 e C-437/08).

6.8. Uniformandosi alla giurisprudenza della Corte di giustizia, questa Corte, poi, con riferimento ad un fondo pensionistico con sede in un paese terzo (U.S.A.), in un caso in cui veniva ugualmente in rilievo l'art. 10 della Convenzione tra i due Paesi, ha già escluso la sussistenza di valide ragioni discriminatorie (Cfr. Cass. 1/09/2022, n. 25691). A diversa conclusione, invece, la Corte è giunta con riferimento a paese terzo che sia incluso nella c.d. black list (Cass. 4/05/2023, n. 11719).

6.9. Neppure preclusiva, ai fini della rilevanza dell'art. 63, comma 1, TFUE, è la circostanza che il contrasto con il principio di libera circolazione dei capitali, e comunque la denunciata discriminazione, sarebbero effetto dell'applicazione di una norma pattizia, ovvero dell'art. 10 della Convenzione tra Italia e Stati Uniti in materia di doppia imposizione.

La Corte, in tema di concorso tra normativa convenzionale e diritto Euro-unitario, proprio relativamente all'art. 10 della Convenzione tra Italia e Stati Uniti sulla doppia imposizione, ha già affermato che "occorre considerare il ruolo del diritto comunitario, il quale entra in gioco come terza dimensione nella geometria dell'ordinamento giuridico e svolge la sua influenza, pur con differente intensità, anche nell'interpretazione ed applicazione di trattati internazionali conclusi da Paesi membri della Comunità Europea, tra loro e con Paesi terzi. Riguardo a tale specie di trattati il regime comunitario è differente, a seconda che la disciplina convenzionale applicabile sia anteriore o posteriore all'entrata in vigore del Trattato di Roma (1 gennaio 1958). L'art. 234 (307 nella versione consolidata a seguito del Trattato di Amsterdam), comma 1, del Trattato CE, fa salve le convenzioni internazionali concluse dagli Stati membri prima di tale data, per cui i diritti e gli obblighi sorti da tali convenzioni restano immodificabili e non subiscono l'influenza del diritto comunitario. Tale regola viene comunemente ricondotta al principio pacta sunt servanda ed è stata ribadita dalla Corte di Giustizia CE nelle sentenze 14 ottobre 1980, 812/79, procedimento penale c. J.C.B.; 11 marzo 1986, C-121/85, C.L. c. H.C.&E.. Il comma 2 dell'art. 234 prevede che gli Stati membri devono assumere le necessarie misure per rimuovere le divergenze col diritto comunitario che possano derivare dall'applicazione di tali trattati. Dalle predette disposizioni si ricava, a contrario, che i trattati internazionali conclusi dagli Stati membri con Paesi terzi successivamente all'entrata in vigore del Trattato di Roma (quale è la Convenzione applicabile nella specie) devono conformarsi al diritto comunitario, primario e secondario. (...) anche per i trattati coi Paesi terzi, pertanto, l'applicazione delle norme convenzionali nell'ambito intra - comunitario e dell'ordinamento dello Stato membro contraente incontra i limiti del principio di non discriminazione e del rispetto delle libertà fondamentali garantite dal Trattato. La soggezione al diritto comunitario - nell'ambito della Comunità Europea - del contenuto dei trattati coi Paesi terzi comporta, quindi, l'obbligo del giudice nazionale e della pubblica amministrazione a interpretare le disposizioni convenzionali in modo conforme al diritto comunitario e, nei casi in cui tale interpretazione conforme non sia possibile, a trarre tutte le conseguenze che derivano dal contrasto tra le norme dei due ordini, prima fra tutte l'obbligo di disapplicare le norme (interne o di diritto internazionale pattizio) contrastanti con le disposizioni e principi di diritto comunitario, primario o secondario, che abbiano diretta applicabilità, quale è certamente l'art. 6 del Trattato CE." (Cass 17/03/2000, n. 3119, in motivazione).

Con altre pronunce, questa Corte ha ribadito che l'interpretazione sistematica delle disposizioni convenzionali si traduce, negli ordinamenti degli Stati aderenti all'Unione Europea, ove necessario, in una loro interpretazione adeguatrice al diritto comunitario, al fine di rispettare il principio di non discriminazione e, in genere, di tutte le libertà di stabilimento e di circolazione del capitale, ivi tutelate. In questo senso si è detto ad esempio che " Come più` volte riconosciuto dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee (si vedano, in particolare, le sentenze 14 febbraio 1995, C - 279/93, F.K.C.R.S. e 12 maggio 1998, C - 336/96, C.G.C.D. - R.), il fatto che l'imposizione fiscale diretta non sia materia attribuita alla competenza comunitaria non esclude che le convenzioni bilaterali in materia di doppia imposizione e i diritti nazionali debbano rispettare il diritto comunitario, e in particolare il principio di non discriminazione e il diritto di stabilimento (artt. 6 e 52 del Trattato)" (Cass. 12/03/2011, n. 3588, in motivazione).

La stessa Corte di giustizia, che in linea di principio non si è ritenuta competente ad interpretare, nell'ambito di un procedimento pregiudiziale, accordi internazionali conclusi tra Stati membri e Stati terzi (Corte giustizia 4/05/2010, C-533/08, TNT E.N., punto 61), ha del resto affermato che gli Stati membri hanno l'obbligo di ricorrere a tutti i mezzi atti ad eliminare le incompatibilità` esistenti fra una convenzione conclusa anteriormente all'adesione di uno Stato membro e il Trattato e pertanto il giudice nazionale ha l'obbligo di verificare se un'eventuale incompatibilità fra il Trattato ed una convenzione bilaterale possa essere evitata fornendo a quest'ultima un'interpretazione conforme al diritto comunitario, ove possibile e nel rispetto del diritto internazionale (Corte giustizia 18/11/2003, C-216/01, B., punti 168-169).

Muovendo quindi dal presupposto che "Nonostante la materia delle imposte dirette rientri nella competenza degli Stati Membri, questi ultimi devono tuttavia esercitarla nel rispetto del diritto comunitario" (Corte giustizia 14 febbraio 1995, causa C-279/93, S.), deve ritenersi che diritto comunitario e convenzionale in tema di imposizione diretta non operino in settori completamente separati, cosicché le convenzioni rappresentano essenzialmente uno strumento funzionale a realizzare un' equilibrata ripartizione dei poteri impositivi, che può anche contribuire a rendere più efficace l'applicazione del diritto comunitario. Ove tuttavia lo strumento convenzionale si ponga in contrasto con norme comunitarie direttamente applicabili (come le liberà fondamentali) (cfr. Corte giustizia 12/05/1998, C-336/96,G.; Corte giustizia, 14/02/1995, S.; Corte giustizia 28/01/1986, C-270/83, Commissione v. Repubblica francese), eventuali clausole convenzionali incompatibili, che carichino di un maggiore onere fiscale i contribuenti che operano a livello transnazionale, devono essere oggetto, da parte del giudice nazionale, di un tentativo di interpretazione adeguatrice, agendo il diritto comunitario quale fonte integrativa che colma le lacune della disciplina convenzionale, in una sorta di interpretazione comunitariamente orientata del testo convenzionale, ma nell'ovvio rispetto del limite di non poter stravolgere il senso e il significato della norma internazionale.

Nella sostanza, pertanto, l'interpretazione adeguatrice ha per oggetto non tanto la disposizione pattizia, quanto la norma di legge nazionale, che dalla disposizione convenzionale è mitigata (ed anzi mitigabile, lasciando peraltro spazio al legislatore interno per determinare, nel caso di specie, l'imposta sino al "15 per cento dell'ammontare lordo dei dividendi"). In concreto, poi, ove venisse accertata la sussistenza di una non giustificata restrizione del principio di libera circolazione dei capitali, derivante dalla previsione convenzionale in esame, l'interpretazione adeguatrice sollecitata dal contribuente non si porrebbe in contrasto con l'impianto pattizio della disposizione, che pone l'imposta nella misura del 15 per cento come limite massino ("non può eccedere"), non essendo inconciliabile pertanto con un'aliquota inferiore, se giustificata dalle esigenze di evitare la discriminazione eccepita.

6.10. Si è, altresì, chiarito che, al fine di evidenziare l'eventuale differenza di trattamento fiscale in questione, e di apprezzarne o meno la natura discriminatoria, la comparazione deve essere condotta con riferimento alla disciplina nazionale dell'imposizione sui dividendi, applicabile nel caso concreto e sospetta di violazione dell'art. 63, paragrafo 1, TFUE, ovvero a quella dettata dalla legislazione italiana, nella parte in cui, poiché non è residente il Fondo tedesco, non consente a quest'ultimo, ricorrendo le medesime condizioni di cui al d.lgs. n. 461 del 1997, art. 9 comma 4, primo periodo, di beneficiare dell'esenzione fiscale.

Non deve estendersi invece la comparazione anche al quadro normativo dell'imposizione nel Paese non residente, ed in particolare alla tassazione che in Germania dovrebbe gravare sui redditi delle società che investano nell'organismo d'investimento collettivo, in quanto si tratta di disciplina che non ricade nella normativa di cui trattasi nella specie. (Cass. 8/09/2022, n. 26536)

Come ha infatti rilevato la giurisprudenza comunitaria, " ai fini della valutazione della comparabilità oggettiva di fattispecie soggette ad un trattamento differenziato, occorre tener conto unicamente dei criteri di distinzione previsti dalla normativa tributaria nazionale ai fini della tassazione dei dividendi distribuiti" (Corte giustizia 10/04/2014, C-190/2012, E.M., cit., paragrafo 61 ss.);

quindi " solo i criteri distintivi pertinenti fissati dalla normativa di cui trattasi devono essere presi in considerazione al fine di valutare se la differenza di trattamento risultante da siffatta normativa rispecchi una differenza oggettiva di situazioni. Pertanto, allorché uno Stato membro sceglie di esercitare la propria potestà impositiva sui dividendi versati da società residenti in funzione unicamente del luogo di residenza degli OICVM beneficiari, la situazione fiscale dei titolari di quote di detti organismi sarà priva di pertinenza al fine di valutare il carattere discriminatorio o meno di tale normativa" (Corte giustizia, 10/05/2012, da C-338/11 a C-347/11, Santander, cit., paragrafo 28).

6.11. Tutto ciò premesso, la C.t.r. non ha fatto buon governo di tali principi ritenendo legittima l'applicazione dell'aliquota del 15 per cento in quanto oggetto di disposizione pattizia.

Ha errato, altresì, laddove ha attribuito al contribuente l'onere di fornire la prova di un trattamento effettivamente discriminatorio a prescindere dall'aliquota applicata e comparando le due posizioni contrapposte nella loro integralità. Così motivando, infatti, ha dato rilevanza al trattamento fiscale riservato nello Stato di residenza che, invece, è elemento neutrale ai fini dell'applicazione dell'art. 6 TFUE che, come sopra riportato, subisce le sole limitazioni espressamente contemplate. Rileva, invece, che lo spread tra l'aliquota massima del 15 per cento, applicabile, per effetto dell'art. 10, paragrafo 2, della Convenzione tra Italia e U.S.A. per evitare le doppie imposizioni, sui dividendi distribuiti da società domestiche al fondo di investimento non residente, e l'aliquota del 12.5 per cento, (ovvero quella posta a fondamento della domanda di ripetizione) a favore dell'omologo fondo di investimento residente discostandosi dal principio comunitario di libera circolazione dei capitali (art. 63, paragrafo 1, TFUE), e in assenza di cause di giustificazioni (che nella specie non sono state dedotte) - penalizza il fondo di investimento non residente.

7. In conclusione, in accoglimento del ricorso, la sentenza deve essere cassata e la causa deve essere rinviata alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado dell'Abruzzo, che dovrà decidere le ulteriori questioni dibattute rimaste assorbite, come indicate nel controricorso alle pagg. 8 e seguenti.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, rinvia alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado dell'Abruzzo, in diversa composizione, cui demanda anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.