Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 23 febbraio 2021, n. 4775

Tributi - Accertamento - Mancata risposta all’avviso a comparire - Accertamento induttivo - Legittimità - Determinazione plusvalenza da cessione di licenza n.c.c. - Onere probatorio a carico dell’Ufficio - Quantificazione e collocazione temporale

 

Rilevato che

 

1. L'Agenzia delle Entrate, a seguito di segnalazione dell'Ufficio Analisi e Ricerca della Direzione Regionale del Lazio, che aveva riscontrato, da informazioni assunte presso il Comune di Roma, che M.P. aveva trasferito la propria autorizzazione N.C.C. (noleggio con conducente), ha inviato al contribuente invito a comparire, con il quale lo invitava ad esibire gli atti e i documenti relativi al trasferimento.

Successivamente l'Ufficio, sul rilievo che il contribuente non avesse dato seguito al contraddittorio, ha notificato al medesimo P. avviso di accertamento, ai fini Irpef per l'anno d'imposta 2003, con il quale ha accertato una plusvalenza da cessione di licenza per l'esercizio del servizio di noleggio con conducente, non dichiarata, quantificando le relative imposte, oltre agli interessi ed alle sanzioni.

2. Il contribuente ha impugnato l'avviso di accertamento dinnanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma, che ha accolto il ricorso sul presupposto, considerato assorbente, che l'atto fosse privo di motivazione, in ragione dell'omessa allegazione dei documenti in esso richiamati.

3. Avverso la sentenza di primo grado ha proposto appello l'Ufficio dinnanzi la Commissione tributaria regionale del Lazio che, con la sentenza n. 2801/14/13, depositata il 7 maggio 2014, lo ha accolto, riformando la sentenza di primo grado e quindi rigettando il ricorso introduttivo del contribuente.

4. Avverso la sentenza d'appello ha proposto ricorso per cassazione il contribuente, affidandolo a quattro motivi.

L'Ufficio è rimasto intimato, più atto di costituzione.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo il contribuente lamenta la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell'art. 360, comma primo, num. 3 cod. proc. civ., dell'art. 39, comma terzo, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, come modificato dall'art. 25, legge 18 febbraio 1999, n. 28.

In particolare, il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che la mancata partecipazione del contribuente al contraddittorio con l'Ufficio legittimasse il ricorso da parte di questi al metodo induttivo per la determinazione dei redditi, senza la necessità di adempiere all'onere della prova, gravante sull’Amministrazione.

Il motivo è infondato.

Va innanzitutto premesso che in questa sede di legittimità l'accertamento in fatto, effettuato del giudice a quo, che «il contribuente si è sottratto al seguito dell'instaurato contraddittorio tramite l'invito dell'Ufficio», non è sindacabile, se non nei ristretti limiti di cui all'art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ., nella versione applicabile ratione temporis, che non è stato proposto dal ricorrente. Tanto premesso, ai sensi della denunciata violazione di legge, va ricordato che, come questa Corte ha già chiarito, « Ai sensi dell’art. 7 della I. n. 21 del 1992, i titolari della licenza per l'esercizio del servizio di taxi svolgono un'attività di impresa artigiana di trasporto, sicché, nell'ipotesi di cessione a titolo oneroso di detta licenza, si realizza una plusvalenza che concorre alla formazione del reddito ex art. 86, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986: ne deriva che, ove il contribuente ometta di rispondere ai questionari previsti dall'art. 32, comma 1, nn. 3 e 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, in tal modo impedendo od ostacolando la verifica dei redditi prodotti, l'Ufficio può effettuare l'accertamento induttivo ex art. 39, comma 1, lett. a), del predetto decreto, utilizzando dati e notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di avvalersi anche di presunzioni prive di requisiti di gravità, precisione e concordanza» (Cass. 02/03/2018, n. 4944. Si noti che, a prescindere dalla massima, nella motivazione la decisione tratta espressamente dell' art. 39, comma 2, lett. a) e lett. d-bis), d.P.R. n. 600 del 1973).

Non contrasta con tali principi la sentenza impugnata, dovendosi peraltro rilevare che il giudice di merito non ha affermato che l’Amministrazione fosse sollevata dall'onere della prova in ordine al presupposto dell'imposizione, ma ha dato conto della legittimazione dell'Ufficio a procedere all'accertamento sulla base di dati e notizie comunque raccolti e pervenuti alla sua conoscenza, avvalendosi anche di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

Peraltro, proprio in ordine alla legittimità del ricorso alla prova presuntiva nella materia sub iudice, questa Corte ha già avuto modo di chiarire che «La "licenza taxi" è un bene strumentale immateriale del piccolo imprenditore tassista, la cui alienazione si presume onerosa e genera una plusvalenza patrimoniale tassabile quale reddito d'impresa» (Cass. 04/10/2017, n. 23143).

Quanto poi alla pretesa non utilizzabilità dei dati relativi alla cessione di "licenze taxi" nel caso di specie, in quanto il contribuente era titolare di autorizzazione al noleggio con conducente, questa Corte ha già affermato il principio secondo cui le conclusioni sviluppate in merito alla cessione di "licenza taxi" si possono «applicare agevolmente anche ai titolari di autorizzazione per l'esercizio del servizio di noleggio con conducente, posto che il citato art. 9 della I. n. 21 del 1992, nell'individuare il procedimento di cessione, equipara espressamente le due fattispecie» (Cass. 03/11/2020, n. 24315, in motivazione).

2. Con il secondo motivo di ricorso il contribuente lamenta, ai sensi dell'art. 360, comma primo, num. 3 cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione dell'art 7, comma primo, legge 27 luglio 2000, n. 212; dell'art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973; nonché dell'art. 2697 cod. civ. e dell'art. 115 cod. proc. civ., per avere il giudice d'appello disatteso la censura di nullità dell'avviso d'accertamento per omessa allegazione ad esso dello studio dei liberi docenti dell'Università della Tuscia, in esso richiamato.

Ha infatti argomentato la CTR che lo studio era «peraltro allegato all'avviso dell'Ufficio e riprodotto solo nel suo contenuto essenziale e non in versione integrale».

Il motivo è inammissibile.

Va invero premesso che in questa sede di legittimità l'accertamento in fatto, effettuato del giudice di merito, che il documento de quo era allegato all'atto impositivo e che in quest'ultimo ne era riprodotto il contenuto essenziale,non è sindacabile, se non nei ristretti limiti di cui all'art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ., nella versione applicabile ratione temporis, che non è stato proposto dal ricorrente.

Non attinge, in maniera ammissibile, il predetto accertamento in fatto l'inammissibile proposizione del vizio di violazione di legge con riferimento agli artt. 2697 cod. civ. e 115 cod. proc. civ.

Va infatti rammentato il principio di diritto, espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale « In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell'art. 2697 c.c. si configura soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall'art. 116 c.p.c.» (Cass. 23/10/2018, n. 26769).

Con riferimento specifico all’art. 115 cod. proc. civ. è stato poi ulteriormente ribadito che « In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.» (Cass., S. U., 30/09/2020, n. 20867).

Nel caso di specie, non è dedotto, e comunque emerge dalla decisione impugnata, che la CTR abbia accertato l'allegazione e la riproduzione essenziale del documento all'esito del mancato assolvimento di un onere probatorio in ipotesi erroneamente attribuito ad una piuttosto che all'altra delle parti; né che lo stesso accertamento sia derivato dall'esercizio di poteri istruttori officiosi del giudice che eccedano quelli attribuiti dal legislatore, pertanto il motivo è inammissibile.

Fermo quanto premesso, giova peraltro precisare che la riproduzione del contenuto essenziale del documento richiamato nella motivazione dell'avviso di accertamento, ma ad esso in ipotesi non allegato, è in diritto di per sé comunque sufficiente ad assolvere i requisiti di forma contenuto che determinano la validità dell'atto impositivo. In questo senso, infatti, in materia di accertamenti in rettifica ed accertamenti d'ufficio, dispone l'art. 42, secondo comma, ultimo periodo, d.P.R. n. 600 del 1973, come modificato dall'art. 1, comma 1, lettera c), d.lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, nella versione vigente ratione temporis : « Se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all'atto che lo richiama salvo che quest'ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale».

Pertanto, in punto di diritto, l'affermazione della CTR non è scorretta, potendo la riproduzione, nei termini indicati dal legislatore, del documento nell'accerta mento supplire la sua mancata allegazione allo stesso atto impositivo (che pure la sentenza impugnata dà comunque per avvenuta).

In punto di fatto, come anticipato, è insindacabile in questa sede che il documento sia stato riprodotto nell'avviso e che tale riproduzione abbia per oggetto il contenuto essenziale dello stesso.

A tale ragione di inammissibilità si aggiunge quella derivante dal principio espresso da questa Corte, secondo il quale «Nel giudizio tributario, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall'art. 366 cod. proc. civ., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento (nella specie, risultante "per relationem" ad un processo verbale di constatazione) è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso ne riporti testualmente i passi che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentirne la verifica esclusivamente in base al ricorso medesimo, essendo il predetto avviso non un atto processuale, bensì amministrativo, la cui legittimità è necessariamente integrata dalla motivazione dei presupposti di fatto e dalle ragioni giuridiche poste a suo fondamento» (Cass. 19/04/2013, n. 9536; conforme Cass. 28/06/2017, n. 16147).

Il motivo, infatti, non ottempera a tali requisiti di specificità ed autosufficienza.

3. Con il terzo motivo di ricorso il contribuente lamenta «omessa motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio - apoditticità nella conferma della quantificazione della presunta plusvalenza - sull'attribuzione dell'onere della prova. Violazione di norme di diritto in tema di ripartizione dell'onere della prova (artt. 38, 39 e 42 d.P.R. n. 600/1973), nonché art. 2697 cod. civ., art. 36 d.lgs. n. 546/1992 e art. 132 cod. proc. civ., nonché art. 118 disp. att. cod. proc. civ.- in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.».

4. Con il quarto motivo di ricorso il contribuente lamenta « violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. - omessa pronuncia - omessa motivazione su fatti decisivi per il giudizio (omessa considerazione dei motivi dedotti per l'imputazione della plusvalenza al 2002 e non al 2003) - in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.».

4.1. I due motivi devono essere trattati congiuntamente per la loro connessione e, nei limiti di cui si dirà, sono fondati e vanno accolti. Invero, a prescindere dalla formale rubricazione delle censure e delle plurime norme richiamate, dal corpo complessivo dei mezzi si evince che, con ciascuno di essi, il ricorrente lamenta sostanzialmente ed inequivocabilmente che la sentenza sia priva di una motivazione effettiva, ovvero non meramente grafica ed apparente, in ordine agli aspetti della controversia ulteriori rispetto a quelli della sussistenza dei presupposti di accesso all'accertamento induttivo praticato ex art. 39, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973 (con la conseguente disciplina istruttoria) ed alla validità dell'atto impositivo, sotto il profilo della sua motivazione.

In particolare, la contestata carenza di motivazione investe gli elementi relativi alla quantificazione della plusvalenza imputata al contribuente, alla sua collocazione temporale nell'anno d'imposta 2003, piuttosto che nel 2002, ed all' applicabilità o meno della tassazione separata.

Tali circostanze e questioni, come risulta dalla stessa sentenza impugnata, erano state oggetto di specifici rilievi del contribuente.

Su di essi, tuttavia, la sentenza impugnata si è limitata a pochissime battute, dal contenuto meramente apodittico ed assertivo, che rivelano un' obiettiva carenza nell' indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, senza alcuna esplicitazione sul quadro probatorio ed in difetto di ogni disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass. 14/02/2020, n. 3819), tanto da non consentire alcun controllo sull'esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, pertanto non attingendo la soglia del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, sesto comma, Cost.(Cass. 30/06/2020, n. 13248, ex plurimis).

I due motivi vanno quindi accolti, con rimessione della causa al giudice a quo.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il primo ed il secondo motivo ed accoglie il terzo ed il quarto; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.