Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 14 ottobre 2020, n. 28493

Reati tributari - Dichiarazione fiscale infedele realizzata attraverso comportamenti fraudolenti - Omessa dichiarazione di pusvalenza tassabile - Sequestro preventivo per la confisca sia diretta che per equivalente - Legittimità - Esistenza del fumus del reato in provvisoria contestazione

 

Ritenuto in fatto

 

Il Tribunale di Trento, agendo quale giudice del riesame delle misure cautelari reali, ha, con ordinanza del 31 ottobre 2019, i cui motivi sono stati depositati il successivo 29 novembre 2019, rigettato il ricorso con il quale R.R. aveva impugnato il provvedimento con il quale, in data 7 ottobre 2019, il Gip del Tribunale di Trento aveva convalidato il sequestro preventivo dei beni mobili ed immobili a lui riferiti, finalizzato alla confisca, sia diretta che per equivalente, sino alla concorrenza della somma di euro 16.862.167,09, dei beni staggiti, emesso in via di urgenza il precedente 27 settembre 2019 dal locale Pm, nel corso dello svolgimento di indagini a carico del predetto R., cui è stato provvisoriamente contestata la violazione dell'art. 4 del dlgs n. 74 del 2000 per avere lo stesso, in qualità di socio unico delle E. 9 Sa (in seguito E. 9), con sede in Lussemburgo, al fine di evadere le imposte sui redditi, indicato nella propria dichiarazione dei redditi relativa all'anno di imposta 2013 redditi per soli euro 61.348, omettendo di dichiarare i redditi da plusvalenza, pari alla somma di euro 39.324.760,57, a lui derivanti dalla avvenuta cessione della partecipazione di detta E. 9 nella società L. Sa (in seguito L.) in favore della neocostituita società A. Sa (in seguito A.).

Il Tribunale, nel rigettare il ricorso del R., ha in primo luogo rilevato che era infondata le eccezione formulata in sede di ricorso dall'indagato avente ad oggetto la nullità della ordinanza di convalida per non avere il Gip vagliato criticamente, alla luce anche delle argomentazioni svolte dalla difesa dell'indagato nella fase delle indagini, la richiesta di sequestro formulata dal Pm; in particolare, il Tribunale, rilevato che la autonomia della valutazione operata dal Gip non deve risolversi in una sorta di contraddittorio cartolare con le tesi dell'organo inquirente, ben potendo il giudice motivare attraverso una sorta di incorporazione redazionale delle argomentazioni svolte dalla pubblica accusa, ha, quanto al caso di specie, osservato che il Gip ha dimostrato di conoscere gli atti del procedimento, anche quelli della difesa, avendo in tal modo correttamente ed esaurientemente esaminato gli atti posti a base della domanda cautelare, rielaborandoli criticamente anche in funzione degli argomenti svolti dalla difesa del ricorrente.

Quanto al merito della vicenda il Tribunale, riepilogate le fasi salienti di essa, ha ritenuto che, a seguito della avvenuta cessione da parte del R. della sua partecipazione, tramite la società di diritto lussemburghese E. 9, nella società L. e del contestuale conferimento del ricavato di tale cessione nel patrimonio di altra società all'uopo costituita, la A., quello ha conseguito una elevatissima plusvalenza che avrebbe dovuto costituire oggetto di dichiarazione dei redditi; ciò in ragione del fatto che ad avviso del Tribunale non sarebbe stato applicabile al caso il regime di detassazione previsto dall'art. 87 del TUIR.

Il Tribunale aggiunge che quanto al caso di specie neppure può ritenersi operante la clausola di retrodatazione della avvenuta scissione della L., fenomeno che ha determinato il presupposto per la creazione della plusvalenza in favore del R., posto che, affinché siffatta retrodatazione si verifichi è necessario che il soggetto nei cui confronti si verificano gli effetti della scissione, cioè il beneficiario del conferimento della porzione scissa del patrimonio della società originaria, già sia stato costituito al momento in cui si vorrebbero imputare siffatti effetti.

Infine il Tribunale di Trento ha esaminato il tema della effettività della società E. 9, concludendo nel senso che la stessa era una "costruzione di puro artificio", posto che essa non aveva di fatto mai svolto alcuna attività commerciale ed essendo l'unico scopo della liquidazione della sua partecipazione nella L. quello di sottrarre, in previsione di un ritorno delle attività di gestione finanziaria del R. in Italia, la plusvalenza in tal modo realizzata alla tassazione nazionale.

Onde dimostrare la mera fittizietà della E. 9 il Tribunale ha segnalato il fatto che la stessa, pur titolare di un "enorme patrimonio finanziario", mai abbia distribuito dividendi ai soci, limitando i propri costi annui a solo

36.000,00 euro versati per il pagamento degli amministratori, tanto che, pur risultando dei dipendenti della società, non risultavano somme versate a titolo di loro stipendio o compenso; ciò ha fatto concludere il Tribunale nel senso che la E. 9 fosse un mero percettore di redditi da partecipazione, per lo più prodotti in Italia, in uno stato,- il Granducato del Lussemburgo, a bassa imposizione fiscale.

Ha, a tale proposito, il Tribunale introdotto il concetto di esterovestizione, rilevando, conclusivamente, che la E. 9 altro non fosse che un collettore di capitali originati da attività produttive gestite in Italia, la cui esistenza nel Granducato lussemburghese era giustificata esclusivamente, senza che li fosse svolta alcuna attività d'impresa, dal privilegiato regime fiscale ivi esistente.

Avverso la ordinanza emessa dal Tribunale tridentino ha interposto ricorso per cassazione il R., a ministero dei suoi difensori fiduciari, affidando le sue lagnanze a 6 motivi di ricorso.

L'illustrazione del primo di tali motivi, afferente alla violazione degli artt. 324, comma 7, 309, comma 9, 292 e 321 cod. proc. pen., necessita di una brevissima premessa, svolta dal ricorrente nella parte introduttiva del suo atto impugnatorio.

Infatti, rievoca il ricorrente, il sequestro del quale ora si discute è stato preceduto da una altro provvedimento cautelare reale emesso a carico del R. nell'ambito della medesima attuale vicenda; questo, emesso in data 31 dicembre 2018, era stato impugnato dalla difesa dell'indagato di fronte al Tribunale di Trento in sede di riesame; con ordinanza del 22 gennaio 2019 il detto Tribunale aveva rigettato il ricorso; essendo stata impugnata la ordinanza in questione di fronte a questa Corte, con sentenza n. 36331 del 2019, la Cassazione aveva annullato con rinvio la predetta ordinanza, rilevando che il Tribunale non aveva dato conto del fatto che il Gip di Trento, prima di accogliere la richiesta di sequestro formulata dal locale Pm, avesse valutato le argomentazioni difensive articolate dalla difesa dell'indagato in sede di indagini preliminari; a questo punto, provvedendo quale giudice del rinvio, il Tribunale di Trento aveva accolto il ricorso in sede di riesame e, con ordinanza del 24 settembre 2019, aveva disposto l'annullamento dell'originario sequestro.

Essendo stato, a questo punto, reiterato il sequestro ed avendo il Tribunale del riesame nuovamente rigettato la impugnazione avverso di esso, la difesa del ricorrente, di fronte a questa Corte, ha rilevato che ancora una volta il Gip del Tribunale di Trento avrebbe aderito pedissequamente alla ricostruzione dell'accusa, senza esercitare alcuna funzione di controllo in ordine alla attitudine delle considerazioni svolte dal Pm a giustificare l'adozione della misura cautelare, né tale carenza sarebbe stata rilevata, sebbene dedotta in sede di riesame, dal Tribunale il quale ha, immotivatamente, affermato che il Gip avrebbe dimostrato di avere preso conoscenza di tutti gli atti del procedimento e di avere operato una rielaborazione critica di quanto prospettato dalla pubblica accusa.

Con il secondo motivo di ricorso la difesa del R. ha censurato la ordinanza per mancanza di motivazione e per violazione di legge in relazione, oltre che all'art. 4 del dlgs n. 74 del 2000, anche con riferimento agli artt. 86, 87 e 167 del TUIR, rilevando che, in realtà, a seguito del meccanismo di conferimento nel patrimonio netto della A. del valore della cessata partecipazione di E. 9 in L., E. 9, e per essa in ipotesi il R., non avrebbe conseguito alcuna plusvalenza a seguito della cessione ad A. della ricordata partecipazione di E. 9 in L.. Avendo, infatti, E. 9 rinunziato al suo credito in favore di A., il cui importo è stato portato quale valore di partecipazione di quella in questa, la operazione era da considerare non a titolo oneroso per A. e, pertanto, estranea al campo di applicazione dell'art. 86 del TUIR, in base al quale sono plusvalenza tassabili quelle che derivano alle imprese da operazioni onerose; posto che, osserva il ricorrente, l'operazione non sarebbe stata tassabile in Italia, in quanto non produttiva di plusvalenza tassabile, sarebbe venuto meno il presupposto, fissato dall'art. 167, comma 8-bis, del Tuir per la sua tassazione ove l'operazione fosse stata compiuta, come ne caso, all'estero.

Ancora il ricorrente ha osservato che il Tribunale di Trento ha richiamato, onde giustificare la sussistenza della plusvalenza tassabile e, pertanto, il fumus delicti, una versione dell'art. 87 del TUIR non applicabile ratione temporis alla fattispecie, in quanto entrata in vigore successivamente alla realizzazione della operazione in questione.

Il terzo motivo di impugnazione ha ad oggetto la ritenuta violazione di legge riguardante gli artt. 67 e 68 del TUIR nonché la mancanza di motivazione al riguardo. Con il motivo in rassegna il ricorrente lamenta, in sostanza, il fraintendimento di una delle ragioni che egli aveva introdotto in sede di riesame, il cui significato era volto a dimostrare che, per effetto del trasferimento ad A. della pregressa partecipazione di E. 9 in L. non si era determinata alcuna plusvalenza patrimoniale e, quanto meno, non diversa da quella che si sarebbe verificata ove la partecipazione di E. 9 in L. fosse direttamente rientrata in quella società, nel quale caso, come ritenuto dallo stesso Tribunale, non vi sarebbe stata alcuna plusvalenza tanto meno tassabile.

Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente ha lamentato la erronea applicazione degli artt. 2506 e seg. cod. civ. nonché dell'art. 173, comma 11, del TUIR, oltre al vizio di mancata motivazione sul punto, in relazione alla ritenuta inapplicabilità alla fattispecie della normativa che consente di retrodatare gli effetti della scissione societaria.

In sostanza il ricorrente, il quale ha al riguardo anche prodotto un conforme parere prò ventate redatto da un eminente studioso del diritto commerciale, ha contestato l'affermazione contenuta nella ordinanza impugnata, secondo la quale nel caso in esame gli effetti della scissione di L., materialmente deliberata in data 5 dicembre 2013, non potevano rimontare alla data del 1 luglio 2013, posto che a tale ultima data la A., conferitaria delle quote di L. già di spettanza di E. 9, ancora non era stata costituita, risalendo tale evento, cioè la costituzione di A., al 22 ottobre 2013.

Il quinto motivo di impugnazione ha ad oggetto la erronea applicazione dell'art. 4 del dlgs n. 74 del 2000, dell'art. 167 del dPR n. 917 del 1986, dell'art. 49 del TFUE nonché dell'art. 2506 cod. civ., oltre alla mancanza di motivazione sui relativi punti.

In particolare il ricorrente ha, in estrema sintesi, contestato l'attribuzione della qualifica di costruzione artificiosa che il Tribunale ha attribuito alla E. 9, sostenendo che, invece, la predetta società sia una società il cui compito effettivo è quello di gestire partecipazione finanziarie e che, pertanto, non essendo una struttura meramente formale, è legittimamente insediata all'estero e legittimamente gode dei benefici fiscali che le derivano dall'essere sottoposta alla normativa vigente nel Granducato del Lussemburgo. Ha peraltro osservato il ricorrente che la E. 9 è stata costituita fin dal 1996 e, sino al 2012, la stessa, seppure fosse stata considerata espressione di un caso di esterovestizione, era stata comunque ritenuta perfettamente operante dalla Amministrazione finanziaria.

D'altra parte la ritenuta esterovestizione si pone in contrasto logico con l'attribuzione della qualifica di artificiosità, posto che i due concetti presuppongono, quanto alla Società interessata l'uno la sua operatività, sebbene diretta dall'Italia, l'altro la mera apparenza di essa, in assenza di qualsivoglia sostanza imprenditoriale.

Infine, con l'ultimo motivo di impugnazione la difesa del ricorrente ha lamentato la omessa considerazione del motivo di impugnazione avente ad oggetto l'applicazione al caso di specie dell'art. 10-bis della legge n. 212 del 2000, cioè il cosiddetto Statuto del contribuente. Il ricorrente ha, infatti, osservato, richiamando sul punto copiosa giurisprudenza, che - sebbene egli nella memoria del 29 ottobre 2019 avesse rilevato che, a seguito della introduzione dell'art. 10-bis della legge n. 212 del 2000 non è più configurabile il reato in caso di dichiarazioni fiscali meramente elusive in quanto la disposizione in questione esclude che operazioni esistenti e volute, pur se prive di sostanza economica, possano integrare condotte penalmente rilevanti - al riguardo la ordinanza del Tribunale tridentino non conteneva alcuna riflessione volta ad escludere la rilevanza nel caso in esame della questione; né il Tribunale si è dato carico di rilevare che, per espressa indicazione del legislatore eurounitario, la contestazione riguardante le operazioni di una società straniera controllata riguardano ipotesi di elusione fiscale, come tali non suscettibili di dare luogo ad imputazioni penali.

 

Considerato in diritto

 

Il ricorso è inammissibile, essendo risultati i motivi di impugnazione in essa dedotti ora direttamente inammissibili ora tali stante la loro manifesta infondatezza.

Deve, al riguardo, preliminarmente considerarsi che, in relazione alla possibilità di impugnare di fronte alla Corte di cassazione i provvedimenti con i quali, ai sensi degli artt. 322-bis ovvero 324 cod. proc. pen., il giudice del riesame o dell'appello ha provveduto in ordine ad un preesistente provvedimento, di carattere cautelare, il margine operativo delle parti interessate ha uno spazio piuttosto ridotto, potendo esso riguardare, stante l'espressa precisazione normativa contenuta nella parte finale del comma 1 dell'art. 325 cod. proc. pen., esclusivamente l'eventuale impugnazione per violazione di legge.

Tale limitazione, peraltro, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte deve intendersi riferita, oltre che, ovviamente, a tutte le ipotesi di errores in iudicando ovvero in procedendo, anche alle fattispecie in cui la ordinanza impugnata presenti un vizio della motivazione che, al di là delle ipotesi di vera e propria mancanza grafica di essa, sia tale da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice, consentendo, pertanto, la affermazione della mera apparenza della motivazione in questione (in questo senso, ex plurimis: Corte di cassazione, Sezione II penale, 20 aprile 2017, n. 18951), ponendosi un tale modus agendi in contrasto con l'art. 125, comma 3, cod. proc. pen. a tenore del quale i provvedimenti giurisdizionali a contenuto decisorio debbono essere, a pena di nullità, dotati di motivazione.

Ciò posto sotto il profilo metodologico, ritiene il Collegio che, quanto al primo motivo di impugnazione formulato dalla difesa dell'indagato, lo stesso, che riprende in buona parte i temi che avevano costituito le ragioni per le quali, con sentenza n. 36331 del 2019, questa stessa Sezione della Corte di cassazione aveva annullato una precedente, analoga quanto ai temi in essa discussi ma non quanto a contenuto, ordinanza emessa, in sede di riesame, dal Tribunale di Trento, sia manifestamente infondato.

Si osserva, infatti, che, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, e cioè da una parte che il Gip del Tribunale di Trento avesse aderito pedissequamente alla ricostruzione dei fatti proposta dall'accusa, senza operare alcuna disamina critica degli elementi da questo sottoposti alla sua attenzione, e da altra parte che il Tribunale in sede di riesame cautelare non avesse colto siffatto vizio della ordinanza genetica con la quale era stata applicata la misura ora in questione, con la ordinanza ora impugnata il Tribunale di Trento ha, questa volta, esaurientemente fornito gli opportuni elementi dimostrativi del fatto che il Gip, onde emettere il provvedimento cautelare a lui richiesto dal rappresentante della pubblica accusa, avesse preventivamente preso visione di tutti gli elementi rilevanti posti a sua disposizione, come è evidenziato dalla indicazione, presente nel provvedimento impugnato, dei "luoghi" della ordinanza di convalida del sequestro disposto in via di urgenza in cui il Gip ha palesato la sua autonoma conoscenza degli atti e la valutazione critica degli stessi da lui operata.

Irrilevante è, ovviamente, ai fini della legittimità dei provvedimenti cautelari emessi che le valutazioni operate, prima, dal Gip e, poi, dal Tribunale del riesame coincidano con quella già formulata dal Pm in sede di richiesta di emissione della misura, posto che, per un verso, la autonomia della valutazione degli atti di indagine non comporta che essa debba portare ad un approdo ricostruttivo dei fatti diverso da quello formulato da altri, essendo, per altro verso, sufficiente che dal contenuto complessivo del provvedimento emerga la conoscenza degli atti del procedimento, e, ove necessaria, la rielaborazione critica degli elementi sottoposti al vaglio del giudice (Corte di cassazione, Sezione V penale, 11 gennaio 2019, n. 1304).

Riguardo al secondo motivo di impugnazione, ritiene il Collegio che lo stesso sia inammissibile a cagione della sua manifesta infondatezza; in sintesi, infatti, parte ricorrente, nel formularlo, ha addotto la circostanza che - in occasione della complessa operazione che ha condotto alla cessione/trasferimento (per usare la espressione contenuta nella ordinanza impugnata) della partecipazione della società E. 9 nella L. in favore della società di nuova costituzione A. non si sarebbe realizzata alcuna plusvalenza, sebbene il valore di cessione della suddetta partecipazione fosse stato pari ad euro 46.442.239,30, mentre tale partecipazione era iscritta nel bilancio della L. solo per euro 5.578.866,73, essendo, pertanto, la plusvalenza secondo la tesi di chi indaga pari alla differenza algebrica fra i due importi - un tale effetto, incidente a livello fiscale, comportando la tassabilità di tale plusvalenza, non si sarebbe verificato in quanto lo stesso giorno in cui E. 9 ha deliberato di trasferire la sua partecipazione in L. alla neocostituita A., per l'importo sopraindicato, la stessa E. 9 ha trasformato il suo credito, pari al prezzo di cessione, verso A. in un versamento in conto capitale di tal che il valore della sua partecipazione in L. trasferito ad A. non è mai stato riscosso, non determinando, pertanto, esso alcuna plusvalenza tassabile.

Il ragionamento svolto dalla parte ricorrente, secondo il quale l'affare intercorso sarebbe stato non a titolo oneroso e, pertanto, non suscettibile di generare plusvalenze non è, tuttavia, condivisibile posto che la non onerosità, postulata dal ricorrente, non costituisce una caratteristica propria dell'affare posto in essere, ma risulta essere solamente il frutto dell'avvenuta rinunzia, con atto a contenuto dispositivo, da parte di E. 9 del proprio credito verso A., e del contestuale trasferimento di un pari importo da parte di quest'ultima nella riserva contabile per versamenti in conto capitale; si tratta in sostanza, solo della diversa allocazione della plusvalenza in tal modo realizzatasi e non anche della sua inesistenza; sotto il descritto profilo, ritenuta la realizzazione di questa, sussiste la riconducibilità della condotta del R., il quale non ha indicato detta assai consistente plusvalenza nella dichiarazione reddituale della E. 9, società della quale egli è il socio unico, quanto meno la apparenza, già di per sé rilevante in questa sede cautelare, di una condotta penalmente rilevante.

Venendo all'esame del terzo motivo di ricorso, ritiene il Collegio che per lo stesso valgano, in buona parte, i medesimi argomenti svolti onde affermare la manifesta infondatezza della precedente doglianza; con esso, infatti, il ricorrente si lagna del fatto che il Tribunale abbia ritenuto che, attraverso il descritto complesso meccanismo commerciale, egli abbia conseguito una plusvalenza tassabile, laddove siffatto effetto non si sarebbe determinato.

Già si è osservato che, a tutto voler concedere, la mancata realizzazione della plusvalenza sarebbe frutto non della sua originaria inesistenza ma del fatto che E. 9, cioè il R. suo socio unico, non abbia preteso il pagamento da A. del valore del trasferimento della sua partecipazione in L.; ma, come accennato, una tale decisione, proprio perché in sostanza comportante la avvenuta disposizione da parte di E. 9 del prezzo del trasferimento, non esclude che la differenza fra il valore iscritto a bilancio del bene ceduto e quello di cessione, essendo maggiore il secondo, costituisca una plusvalenza, sebbene di essa l'avente diritto abbia inteso, è ragionevolmente lecito ritenere che ciò abbia fatto onde perseguire un proprio interesse, disporne senza riscuoterla.

Con riferimento al quarto motivo di ricorso, riguardante la retrodatazione al 1 luglio 2013 agli effetti contabili e fiscali dell'avvenuta scissione della L., con il conferimento della partecipazione di E. 9 in questa in A., rileva il Collegio che la valutazione operata dal Tribunale di Trento nel senso della inoperatività della clausola convenzionale che la prevedeva è pienamente condivisibile.

Invero, deve osservarsi che la disciplina nazionale in tema di scissione delle società prevede, all'art. 2506-quater cod. civ., che per gli effetti della scissione - cioè del fenomeno descritto dal precedente art. 2506 cod. civ. come l'assegnazione da parte di una società dell'intero suo patrimonio, ovvero di parte di esso, a più società preesistenti o di nuova costituzione, in caso di scissione totalitaria, ovvero, se ricorra una ipotesi di scissione solamente parziale, anche ad una sola società, con la assegnazione delle relative azioni o quote ai suoi soci - limitatamente a quelli cui si riferisce l'art. 2501-ter, nn. 5) e 6), cod. civ., possono essere stabilite, dalle parti, date anche anteriori a quelle ordinariamente indicate nel primo periodo dello stesso art. 2506-quater cod. civ.

E' pertanto, possibile, in linea di principio, stabilire negozialmente la retrodatazione degli effetti della scissione societaria.

Tale possibilità, tuttavia, proprio in funzione della natura stessa degli effetti suscettibili di retrodatazione, cioè quelli elencati dall'art. 2501-ter, nn. 5) e 6), cod. civ., il quale si occupa specificamente del fenomeno della fusione fra società, incontra un ineludibile limite logico, cioè la data in cui è stata costituita, nel caso in cui si tratti di ente di nuova costituzione, la società beneficiaria del patrimonio, ovvero di parte del patrimonio, della società che ha patito la scissione.

Infatti, poiché l'art. 2501-ter, n. 6), in combinato disposto con l'art. 2506-quater, primo comma, cod. civ., prevede che possa essere retrodatata la decorrenza dalla quale le operazioni compiute dalle società partecipanti alla scissione sono imputate al bilancio della società che beneficia di essa, è improrogabilmente necessario che alla data in cui sia stata ancorata la retrodatazione del predetto effetto la società beneficiaria già doveva essere stata costituita, posto che solo la di già avvenuta esistenza di un ente societario consente che siano fatte, ancorché ora per allora, le annotazioni contabili che saranno poi trasferite nella redazione del suo bilancio; diversamente ragionando dette annotazioni, ed in ultima analisi il bilancio stesso, sarebbero riferite ad un soggetto in sostanza ancora inesistente.

Quanto al caso in esame, visto che la società A., beneficiaria della partecipazione di E. 9 nella scissa L., è stata costituita solo in data 22 ottobre 2013, è indubitabile che gli effetti della scissione della L. non potessero essere retrodatati al 1 luglio di quello stesso anno, non potendo tali effetti ricadere su un soggetto giuridico allo stato inesistente.

Passando al quinto motivo di ricorso, avente ad oggetto la presunta violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla attribuzione alla E. 9 operata da parte del Tribunale di Trento della qualifica di "costruzione artificiosa", rileva questa Corte che la censura risulta, per le ragioni indicate nella parte introduttiva della presente sentenza, inammissibile.

Infatti, osserva questa Corte, con la censura in questione il ricorrente si è, in realtà, doluto della affermazione, contenuta nella ordinanza impugnata, secondo la quale la E. 9, società per il cui tramite ha operato il R., avente sede in Lussemburgo, costituirebbe, secondo l'avviso del Tribunale di Trento, una mera "costruzione artificiosa" volta al conseguimento di un indebito vantaggio fiscale consistente nella possibilità di sottrarre alla imposizione fiscale la plusvalenza realizzata attraverso la cessione ad A. della partecipazione di E. 9 in L.

Si tratta, in effetti, della censura avente ad oggetto un giudizio valutativo espresso dal Tribunale tridentino e, pertanto, essa, per essere in questa sede ammissibile, avrebbe dovuto avere ad oggetto non la plausibilità della valutazione operata nel senso sopra indicato dal giudice del riesame cautelare né la sua logicità (si veda infatti, nel senso secondo il quale in tema di misure cautelari reali, costituisce violazione di legge deducibile mediante ricorso per cassazione soltanto l’inesistenza o la mera apparenza della motivazione, ma non anche la sua illogicità manifesta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., Corte di cassazione, Sezione II penale 8 febbraio 2017, n. 5807), ma la stessa esistenza, sia pure nel dianzi descritto senso sostanziale e non meramente formale del termine, della motivazione cui è sottesa la decisione assunta.

Nel caso in esame, si osserva, il Tribunale di Trento ha giustificato la decisione in questione sulla base di una serie di indici ritenuti rivelatori della artificiosità della E. 9 quali: la totale assenza di attività commerciale da parte di questa, pur in presenza di un "enorme patrimonio finanziario"; la mancata distribuzione di alcun dividendo fra i soci; la assoluta esiguità dei costi sostenuti per i compensi liquidati agli amministratori; ed ancora la assenza di altre spese, neppure quelle relative ai compensi, inesistenti, relativi ai dipendenti che pur risulterebbero essere in carico alla società.

Ulteriore elemento che ha indotto il Tribunale a concludere nel senso della mera artificiosità della E. 9, considerata un mero collettore ubicato in un paese a fiscalità agevolata di redditi da partecipazione, è il fatto che le casse della stessa fossero esclusivamente alimentate dagli utili conseguiti dalla L. - società come detto partecipata per il 50% dalla E. 9 - attraverso le partecipazioni finanziare di quella in numerose ulteriori società operanti in Italia.

Gli argomenti sviluppati dal Tribunale del riesame di Trento, senza che in questa sede si debba, né tantomeno si possa, entrare nel merito di essi, appaiono chiaramente espressi e tali da permettere al lettore di seguire passo passo il ragionamento da quello svolto in sede di merito; deve, pertanto, concludersi nel senso della non mancanza, né comunque apparenza, della motivazione della ordinanza impugnata in relazione alla affermata artificiosità della predetta società e, conseguentemente, per la inammissibilità sul punto della doglianza introdotta dal R.

Parimenti inammissibile, stante la sua manifesta infondatezza, è il sesto, ed ultimo, motivo di ricorso formulato dal R.

Con esso il ricorrente ha lamentato, sotto il profilo della omessa motivazione, il fatto che il Tribunale abbia trascurato di valutare il motivo di riesame formulato dalla sua difesa con memoria del 29 ottobre 2019, con il quale lo stesso aveva dedotto la irrilevanza penale della sua condotta in quanto, a prescindere dalla altre considerazioni da lui svolte in sede di ricorso principale, in ogni caso, anche a voler aderire alla tesi accusatoria, ci si troverebbe di fronte ad una ipotesi di dichiarazione fiscale infedele in presenza di condotte elusive/abusive, dovendosi rilevare che la realizzazione di operazioni esistenti e volute, anche se prive di sostanza economica e tali da realizzare vantaggi fiscali indebiti sono comunque escluse dal fuoco della rilevanza penale per effetto dell'art. 10-bis della legge n. 2012 del 2000.

Osserva, al riguardo il Collegio, in primo luogo, che, come questa Corte ha in diverse occasioni rilevato, è inammissibile, per carenza d'interesse, il ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado (e tale, ai fini che qui interessano, deve ritenersi, al di là della forma, anche la ordinanza con la quale il Tribunale del riesame decide sulla impugnazione avente ad oggetto un provvedimento di carattere cautelare) che non abbia preso in considerazione un motivo di appello inammissibile ab origine per manifesta infondatezza, in quanto l'eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio (Corte di cassazione, Sezione III penale, 18 novembre 2019, n. 46588; idem Sezione II penale, 13 agosto 2019, n. 35949; idem Sezione VI penale, 2 dicembre 2015, n. 47722).

Il tema da scandagliare è, pertanto, legato alla possibilità o meno di ritenere la manifesta infondatezza del motivo di riesame dedotto dalla difesa del ricorrente con la memoria del 29 ottobre 2019.

Tale indagine conduce ad affermare la inammissibilità, per la ragione sopra illustrata del motivo di attuale impugnazione.

Invero, questa Corte ha chiarito che l'operatività dell'art. 10-bis della legge n. 212 del 2000, introdotto a seguito della entrata in vigore del dlgs n. 128 del 2015, è solamente residuale, atteso che esso ha la valenza di escludere la rilevanza penale dei soli comportamenti che non siano stati caratterizzati da profili di tipo fraudolento o simulatorio (così, fra le altre, a partire da Corte di cassazione, Sezione III penale, 7 ottobre 2015, n. 40272, anche: Corte di cassazione, Sezione III penale, 31 luglio 2017, n. 38016; idem 29 agosto 2016, n. 35575).

Nel caso in esame, per come chiaramente delineato nella imputazione provvisoria contestata al R., è stato a questo ascritto in comportamento di tipo chiaramente fraudolento, essendogli imputato il mendacio nella compilazione della dichiarazione dei redditi relativa all'anno 2013, avendo egli indicato in essa elementi attivi per soli 61.348,00 euro, laddove, secondo la ipotesi accusatoria, egli avrebbe, attraverso il complesso meccanismo relativo all'avvenuta cessione della sua partecipazione, attraverso la società unipersonale E. 9, in L. ad A., occultato redditi per quasi 40.000.000,00 di euro.

Ritiene il Collegio - tanto più in questa sede cautelare, nella quale non è necessario, ai fini della legittima adozione del provvedimento provvisorio, né la prova della responsabilità penale, né, trattandosi di misura reale e non personale, la esistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ma esclusivamente la astratta riconducibilità della condotta posta in essere ad una fattispecie penalmente rilevante (cfr. Corte di cassazione, Sezione I penale, 27 aprile 2018, n. 18491) - che non possano, sotto il profilo ora in esame, ritenersi non sussistenti i requisiti per la conservazione della misura in atto, atteso che non può assolutamente escludersi la esistenza del fumus del reato in provvisoria contestazione al R., si tratta, come detto, della violazione dell'art. 4 del dlgs n. 74 del 2000, avendo questi, quanto meno attraverso la illegittima retrodatazione degli effetti della scissione della L. e del conferimento nel patrimonio di A. della partecipazione di E. 9 in quella, posto in essere condotte finalizzate ad occultare, omettendoli dalla propria dichiarazione dei redditi, elementi di reddito costituenti, invece, plusvalenze soggette a tassazione (in ordine alla estraneità degli effetti scriminanti dell'art. 10-bis della legge n. 212 del 2000 alle ipotesi di dichiarazione fiscale infedele realizzata attraverso comportamenti fraudolenti, si veda la già citata: Corte di cassazione, Sezione III penale, 31 luglio 2017, n. 38016).

Alla inammissibilità del ricorso fa seguito la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.