Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 03 dicembre 2019, n. 31519

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Mancata ricollocazione - Reintegrazione - Risarcimento del danno - Versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 1584/2017 la Corte di appello di Catanzaro, quale giudice del reclamo ex lege n. 92 del 2012, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato la illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato in data 24 febbraio 2012 da M. D. s.r.l. a M. M. ed ha condannato E. M. s.p.a. a reintegrare la dipendente nel posto di lavoro ed, in solido con M. D. s.r.l., al risarcimento del danno commisurato alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento alla reintegrazione, oltre accessori; ha condannato le società in solido al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal licenziamento alla effettiva reintegrazione.

1.1. Ha ritenuto la Corte di merito che dalla istruttoria espletata fosse emersa la esistenza tra le società convenute di un'organizzazione unitaria, intesa come unico centro decisionale, facente capo a E. M. s.p.a. la quale, nello specifico, risultava esercitare una concreta ingerenza nella gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti della società Master D. s.r.l., formale datrice di lavoro della M., ingerenza eccedente il ruolo di direzione e coordinamento generale che normalmente spetta ad una società capogruppo sul complesso delle attività delle società controllate; tale situazione comportava la estensione alla E. M. s.p.a. degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro formalmente instaurato dalla M. con la sola M. D. s.r.l. restando irrilevante, al fine del riferimento del rapporto ad entrambe le società, la mancanza di prova dell'intento fraudolento e della natura simulata dei rapporti tra le due società. Tanto premesso, richiamati i principi di tema di codatorialità elaborati dal giudice di legittimità, la Corte di merito ha affermato la illegittimità del licenziamento per non avere le società reclamate fornito la prova dell'impossibilità di ricollocare la M., licenziata per cessazione di attività dalla formale datrice di lavoro, in altro posto di lavoro all'interno della organizzazione produttiva di E. M. s.r.l. per il disimpegno di identiche mansioni o di altre equivalenti e, in mancanza, di mansioni inferiori.

1.2. In conseguenza, ritenuto integrato il requisito dimensionale, rilevato che il licenziamento era stato intimato in epoca antecedente alla entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, ha applicato la tutela reale prevista dall'art. 18 Legge n. 300 del 1970, nel testo antecedente alle modifiche introdotte dalla novella richiamata.

2. Per la cassazione della decisione hanno proposto un unico ricorso E. M. s.p.a. in concordato preventivo e Master D. s.r.l. in liquidazione sulla base di quattro motivi; la parte intimata non ha svolto attività difensiva.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo parte ricorrente deduce nullità della sentenza o del procedimento in relazione agli artt. 102, 331, 350 e 354 cod. proc. civ. e all'art. 24 Cost. per omessa pronunzia sulla dedotta necessità di evocazione in giudizio di tutte le società del gruppo quali litisconsorti necessarie e per omessa integrazione del contraddittorio. Sostiene, in sintesi, che, avendo la lavoratrice chiesto l'accertamento della unicità del rapporto all'interno del gruppo diretto da E. M. s.p.a., si rendeva necessaria la partecipazione al giudizio di tutte le società facenti capo al gruppo medesimo; evidenzia, inoltre, che la M. aveva chiesto l'annullamento delle dimissioni rassegnate in relazione al rapporto instaurato con la B. s.r.l. (altra società del gruppo) di talché si configurava un'ipotesi di litisconsorzio necessario ex art. 102 cod. proc. civ. con la E. M. s.p.a.

2. Con il secondo motivo deduce violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 2697, 2094, 2497, 1372 cod. civ. e all'art. 31 legge n. 276 del 2003. Premesso che la sentenza impugnata aveva affermato che l'unicità del rapporto di lavoro è configurabile non solo nell'ipotesi di simulazione o di dolosa preordinazione della molteplicità organizzativa per sottrarsi alle regole sulla tutela del lavoratore, ma anche, al di fuori di tale ipotesi, quando alla pluralità di imprese corrisponda, comunque, un unico centro di interessi cui sia riferibile il rapporto di lavoro, osserva che in relazione a tale ipotesi, frutto di elaborazione giurisprudenziale, si richiedeva il ricorrere del presupposto rappresentato dall'utilizzo promiscuo della lavoratrice da parte delle diverse aziende dovendo il datore di lavoro essere individuato nel soggetto che usufruisce delle prestazioni lavorative ed esercita il connesso potere direttivo.

2.1. Deduce, quindi, l'errore di sussunzione della Corte di merito nell'ancorare la verifica di un unico centro di imputazione a elementi di fatto i quali, anche ove sussistenti, non si configuravano quali elementi costitutivi della fattispecie. A tal fine segnala la ininfluenza, ai sensi dell'art. 31 d. Igs n. 276 /2003, della delega ad un unico ufficio della capogruppo della gestione dei rapporti di lavoro e sostiene la necessità che la verifica del rapporto con la società capogruppo debba avvenire con riferimento ai parametri che ai sensi dell'art. 2094 cod. civ. valgono a connotare la natura subordinata di un rapporto di lavoro.

2.2. Gli elementi valorizzati dalla Corte d'appello e cioè sostanziale unicità degli assetti proprietari, integrazione fra le attività economiche, unicità della struttura, compresenza delle società in un'unica sede operativa, non potevano, pertanto, assumere alcun rilievo per la configurazione della subordinazione in quanto espressione del solo collegamento economico e funzionale tra le società; ciò che rilevava, infatti, era la compresenza di due dati, vale a dire l'essere le aziende collegate espressione di un unico centro decisionale e cioè di un'unica sottostante organizzazione di impresa e l'uso promiscuo della lavoratrice licenziata. In questa prospettiva sostiene che gli indici tipici della subordinazione dovevano essere affermati in relazione al rapporto tra la M. e la E. M. s.p.a. in maniera differenziale rispetto al fisiologico rapporto di direzione e controllo propri della capogruppo nei confronti delle società collegate. Tali elementi non erano rinvenibili nelle circostanze valorizzate dalla sentenza impugnata inidonee a configurare la sostanziale unicità del datore di lavoro anche perché in parte incentrate su rapporti con dipendenti diversi dalla M..

3. Con il terzo motivo deduce nullità della sentenza per violazione degli artt. 99, 100, 112, 342 e 348 bis cod. proc. civ. e dell'art. 2103 cod. civ. . Censura, in sintesi, la sentenza impugnata sul rilievo che la lavoratrice non aveva originariamente formulato alcuna domanda intesa a far valere la esistenza di posti di lavoro per mansioni equivalenti o inferiori; la questione era stata proposta, infatti, solo nel ricorso in appello. In questa prospettiva assume, in particolare, che il punto del ricorso, <<quasi un obiter dictum>> non era in alcun modo idoneo a rappresentare contestazione della decisione impugnata difettando degli stessi requisiti di ammissibilità a tal fine richiesti. In ogni caso, anche a voler ritenere superata tale questione, la richiesta di <<repechage>> era da intendere, per espressa volontà delle parti, limitata esclusivamente alla sussistenza delle medesime mansioni svolte da altri colleghi all'interno della società capogruppo. Tale limite non poteva essere superato dal giudice di appello rimanendo coperto da giudicato il fatto che la lavoratrice non lamentasse il mancato << repechage>> in mansioni equivalenti o inferiori, ma intendesse mantenere evidentemente le proprie mansioni all'interno della capogruppo. D'altro canto, l'art. 2103 cod. civ. all'epoca vigente escludeva la possibilità di demansionamento mentre nella formulazione attuale il demansionamento era ammesso solo previo consenso del lavoratore.

4. Con il quarto motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all'art. 115 cod. proc. civ. e agli artt. 2697 e 2094 cod. civ. .

4.1. Assume essere incontroversa la impossibilità di <<repechage>> in mansioni inferiori o equivalenti, ed al contempo che le mansioni corrispondenti a quelle della lavoratrice licenziata venissero svolte da altri dipendenti della E. M. s.p.a, alla stregua delle affermazioni formulate nel ricorso in appello; né poteva pretendersi da parte del datore di lavoro, l'adozione di una modifica organizzativa onde consentire il reperimento di una posizione di lavoro nella quale collocare la lavoratrice. Sotto il profilo della distribuzione dell'onere probatorio assume, in sintonia con precedenti di questa Corte (Cass. n. 9467 del 2016), che l'onere a carico della parte datoriale non poteva prescindere dalla puntuale allegazione, della quale era onerato il lavoratore, in merito alla concreta possibilità di un suo reinserimento lavorativo nella compagine aziendale.

5. Il primo motivo di ricorso è inammissibile in relazione ad entrambi i profili oggetto di censura.

5.1. Invero, quanto alla mancata considerazione della richiesta di integrazione del contraddittorio nei confronti di tutte le società del gruppo facenti capo ad E. M. s.p.a. si rileva che venendo in rilievo una questione puramente processuale la stessa non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito, e non può assurgere quindi a causa autonoma di nullità della sentenza, potendo profilarsi al riguardo una nullità (propria o derivata) della decisione, per la violazione di norme diverse dall'art. 112 cod. proc. civ., in quanto sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata dalla parte (Cass. 28/03/2014 n. 7406; Cass. 24/06/2005 n. 13649).

5.2. Parimenti inammissibile la censura intesa a denunziare la mancata integrazione del contraddittorio in quanto non sorretta dalla esposizione in ricorso delle allegazioni della originaria ricorrente e delle società convenute alla stregua delle quali verificare i soggetti, ulteriori rispetto a E. M. s.p.a., individuati quali contitolari del rapporto di lavoro, formalmente instaurato con Master D. s.r.l., non essendo a tal fine sufficiente la mera circostanza della deduzione relativa all'esistenza di un gruppo societario. La narrativa delle ricorrenti non è idonea a contrastare la ricostruzione operata nello storico di lite della sentenza impugnata (v. sentenza, pag. 3, secondo cpv) nel quale si assume che la lavoratrice aveva prospettato la esistenza di un unico centro di imputazione tra E. M. s.p.a. e Master D. s.r.l., con implicita esclusione, quindi, di ogni coinvolgimento nel rapporto di lavoro delle altre società del gruppo.

In particolare, con riferimento alla società Baluardo s.r.l., dalla narrativa della sentenza impugnata risulta che il giudice dell'opposizione aveva rilevato la mancata evocazione in giudizio di quest'ultima società ed il fatto che nella originaria domanda non fosse stato chiesto l'accertamento di un unico centro di interessi tra la Baluardo s.r.l. e E. M. s.r.l. e tale affermazione non è stata investita da specifica censura nel reclamo proposto dalla lavoratrice ( v. sentenza, pagg. 5 e 6). Da tanto deriva che correttamente il giudice di merito ha escluso la necessità di estensione del contraddittorio anche a società non individuate quali contitolari del rapporto di lavoro, costituendo la dedotta contitolarità del rapporto presupposto indispensabile al fine della necessità, ai sensi dell'art. 102 cod. proc. civ., di estensione del contraddittorio (Cass. 07/03/2019 n. 6664).

6. Il secondo motivo di ricorso è infondato.

6.1. La sentenza impugnata, pacifico il collegamento funzionale tra le società gestite dal medesimo gruppo, ha premesso che alla stregua della giurisprudenza di legittimità ed a prescindere dalla ipotesi di simulazione o di preordinazione fraudolenta, in presenza di determinate circostanze la titolarità del rapporto medesimo può essere riferita contemporaneamente a più soggetti che sebbene formalmente distinti si pongano per il collegamento funzionale tra essi esistente come espressione di un unico centro di interessi e, quindi, di impresa sostanzialmente unitaria; con l'ulteriore puntualizzazione che nei casi in cui risulti, comunque, dimostrata l'utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte di più aziende che siano espressione di un unico centro decisionale e cioè di una sottostante organizzazione di imprese si prescinde dalla prova del carattere simulatorio e dalla pluralità dei soggetti giuridici che la compongono.

6.2. Date queste premesse la Corte di merito ha affermato che in base alle risultanze acquisite Master D. s.r.l. e E. M. s.p.a. costituivano un'impresa unitaria sicché gli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro formalmente instaurato con la prima dovevano estendersi alla seconda. In particolare ha osservato (v. sentenza, pagg. 9 e 10) che gli elementi acquisiti consentivano di affermare: a) la sostanziale unicità degli assetti proprietari, la integrazione tra le attività economiche delle diverse imprese e il correlativo interesse comune; b) l'esercizio del potere direttivo da parte di un unico soggetto, amministratore unico della società E. M., anche nei confronti di dipendenti formalmente inquadrati presso altre società ed in particolare presso la Master D. s.r.l.; c) l'unicità della struttura direttiva e della catena di comando dell'attività di impresa nonché l'unicità della struttura contabile ed amministrativa; d) l'utilizzazione indifferenziata e promiscua del personale dipendente.

6.2. In base a quanto ora osservato la sentenza impugnata si sottrae alle censure articolate con il motivo in esame posto che i parametri ai quali è stata ancorata la affermazione della esistenza di un unico centro di imputazione e la correlativa riferibilità del rapporto di lavoro della M. anche alla società capogruppo sono conformi alla consolidata elaborazione giurisprudenziale (Cass. 09/01/2019 n. 267; Cass. 31/05/2017 n. 13809; Cass. 12/02/2013 n. 3482; Cass. 14/11/2005 n. 22927, Cass. 24/03/2003 n. 4274, in motivazione) secondo la quale il collegamento economico - funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all'altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare - un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione è stata ravvisata allorquando l'esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da soggetti distinti, riveli l'esistenza di alcuni requisiti essenziali quali: a) l'unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) l'integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) il coordinamento tecnico e amministrativo - finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) l'utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori. L' esigenza di individuare con precisione un unico centro di imputazione cui ricondurre la gestione del singolo rapporto di lavoro, a di là, degli schermi societari ovvero di una pluralità di strutture organizzative non aventi una chiara distinzione di ruoli, risponde al dato normativo base dell'art. 2094 cod. civ. che impone di individuare l'interlocutore tipico del lavoratore subordinato nella persona (fisica o giuridica) del "datore di lavoro", e cioè di chi, di fatto detiene ed esercita i suoi poteri (direttivo e disciplinare) nei confronti della controparte dipendente. In particolare, tenuto conto dei plurimi parametri ai quali è stata ancorata la verifica della Corte di merito non appare configurabile alcuna violazione dell'art. 31 d. Igs n. 276 del 2003 che riconosce la possibilità di delega alla società capo gruppo dello svolgimento degli adempimenti in tema di lavoro, previdenza e assistenza sociale dei lavoratori delle società collegate e controllate.

6.3. Il concreto accertamento del ricorrere degli elementi fattuali destinati a sostanziare la valutazione del giudice di appello costituisce accertamento riservato al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio motivazionale e, quindi, nel vigore dell'attuale configurazione dell'art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. solo mediante la deduzione di omesso esame di fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, evocato nel rispetto delle prescrizioni di cui all'art. 366 comma 1 n. 6 cod. proc. civ. (Cass. Sez. Un. . 8053 del 2014) neppure formalmente prospettata dalle odierne ricorrenti. La sentenza impugnata, in particolare, ha accertato la unicità della catena di comando e l'utilizzazione indifferenziata e promiscua del personale dipendente di Master D., s.r.l. da parte di E. M. s.p.a. e tanto è sufficiente a escludere la prospettata violazione dei parametri di cui all'art. 2094 cod. civ. .

7. Il terzo motivo è da respingere.

7.1. Si premette che il motivo in esame investe la sentenza impugnata sulla base di tre profili: a) la assenza nell'originario ricorso di domanda intesa a far valere la esistenza di posti disponibili di lavoro per mansioni equivalenti o inferiori; b) la inidoneità dell'atto di appello a costituire censura delle affermazioni formulate nella sentenza di primo grado; c) la limitazione, nella prospettazione di controparte, della verifica del <<repechage>> alla sussistenza delle sole medesime mansioni svolte presso la società formale datrice di lavoro, con esclusione, quindi, delle mansioni equivalenti o inferiori - questione quest'ultima neppure giuridicamente prospettabile alla luce dell'art. 2103 cod. civ. all'epoca vigente.

7.2. Tali censure presentano un comune profilo di inammissibilità per difetto di autosufficienza nella esposizione degli atti rilevanti della fase di merito dei quali non è trascritto o riassunto il contenuto in termini idonei a consentire la verifica della fondatezza delle doglianze articolate sulla base della sola lettura del ricorso per cassazione. In particolare secondo il consolidato orientamento di questa Corte, affinché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia, ai sensi dell'art. 112 cod. proc. civ., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un'eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall'altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l'una o l'altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, "in primis", la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi. Ove, quindi, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, del citato art. 112 cod. proc. civ., riconducibile alla prospettazione di un'ipotesi di "error in procedendo" per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del "fatto processuale", detto vizio, non essendo rilevabile d'ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all'adempimento da parte del ricorrente - per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l'altro, il rinvio "per relationem" agli atti della fase di merito - dell'onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi (Cass. 04/07/2014, n. 15367; Cass. 14/10/2010, n. 21226; Cass. 19/03/2007, n. 6361).

8. Il quarto motivo di ricorso è da respingere.

8.1. Il profilo che denunzia l'omesso rilievo del carattere incontroverso della impossibilità di <<repechage>> in mansioni inferiori o equivalenti non è sorretto dalla necessaria trascrizione degli atti di causa nelle parti di pertinenza come prescritto dalla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale ove con il ricorso per cassazione si ascriva al giudice di merito di non avere tenuto conto di una circostanza di fatto che si assume essere stata "pacifica" tra le parti, il principio di autosufficienza del ricorso impone al ricorrente di indicare in quale atto sia stata allegata la suddetta circostanza, ed in quale sede e modo essa sia stata provata o ritenuta pacifica (Cass. 12/10/2017 n. 24062; Cass. 18/07/2007 n. 15961).

8.2. Parimenti priva di specificità in quanto non sorretta dalla trascrizione, o comunque, del riassunto, del pertinente brano del ricorso in appello è la deduzione secondo la quale la M. avrebbe ammesso che altri all'interno della società E. M. s.p.a. svolgevano le stesse mansioni.

8.3. Il profilo che denunzia, invece, la errata ripartizione dell'onere di allegazione e prova in tema di <<repechage>> risulta infondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte consolidatasi a partire da Cass. 22/03/2016 n. 5592 la quale, sul presupposto della contrarietà agli ordinari principi processuali di una divaricazione tra oneri di allegazione e onere probatori, pure affermata in precedenti pronunzie (ex plurimis, Cass. 16/05/2016 n. 10018), ha affermato che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sul lavoratore grava l'onere di dimostrare il fatto costitutivo dell'esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato nonché di allegare l'illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo, mentre incombono sul datore di lavoro gli p oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del cd. "repechage", ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore. (Cass. 20/10/2017 n. 24882; Cass. 05/01/2017 n. 160; Cass. 13/06/2016 n. 12101, Cass. 22/03/2016 n. 5592 cit.) 9. A tanto consegue il rigetto del ricorso .

10. Sussistono, ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, i presupposti processuali per il versamento da parte delle società ricorrenti dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13 ( Cass. Sez. Un. 23535 del 2019).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte delle ricorrenti dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.