Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 07 aprile 2015, n. 6921

Professionisti - Risarcimento del danno - Prescrizione - Decorrenza - Dalla fine del mandato - Sussiste

 

Svolgimento del processo

 

Con atto di citazione notificato il 1° febbraio 2002 G.B. evocava, dinanzi al Tribunale di Milano, F.B. esponendo che lo stesso nel periodo in cui era stato suo commercialista, dal 1990 al 1997, aveva distratto somme di denaro dai conti correnti bancari profittando del suo incarico professionale mediante l’uso improprio delle deleghe bancarie e di modulistica firmata fiduciariamente in bianco; inoltre aveva sottratto o reso indisponibile l’intera documentazione fiscale/contributiva, rimessagli per le varie incombenze legate all’incarico professionale; infine, aveva apposto la firma apocrifa delittore, dandolo presente, in qualità di segretario, in due assemblee sociali della R. s.r.l. e della W. s.r.l. Tanto premesso, chiedeva la condanna del convenuto alla restituzione delle somme illecitamente distratte, oltre accessori, nonché a risarcire tutti i danni, anche morali, derivati dal compimento delle condotte denunciate.

Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del B. il quale comunque eccepiva l’intervenuta prescrizione ex art. 2947 c.c. del diritto al risarcimento dei danni, il giudice adito respingeva tutte le domande.

In virtù di rituale appello interposto dal B. con il quale lamentava il travisamento del materiale probatorio, nonché l’illegittima inversione dell’onere probatorio fra mandante e mandatario/professionista alla scadenza del rapporto, la Corte di appello di Milano, nella resistenza dell’appellato, che proponeva anche appello incidentale per omessa liquidazione delle spese processuali in suo favore, ammesso ed espletato interrogatorio formale dell’appellato, nonché prova testimoniale, respingeva l'appello principale e in accoglimento di quello incidentale, condannava l’appellante alla rifusione delle spese del doppio grado di giudizio.

A sostegno della decisione adottata la corte distrettuale - dichiarata l’inammissibilità ex art. 345, comma 3, c.p.c. delle produzioni documentali dell'appellante (di cui all’atto di citazione in appello e ai verbali di udienza del 17.10.2006 e 27.3.2007), trattandosi di atti riguardanti soggetti estranei al giudizio e comunque formatisi in epoca anteriore alla scadenza del termine fissato dal giudice di prime cure ex art. 184 c.p.c., nel testo anteriore alla riforma della legge n. 80 del 2005 (il 30.7.2003), non dimostrata né allegata dall’appellante la indispensabilità dei documenti prodotti - evidenziava che pur gravando sul mandatario l'onere di dimostrare il concreto rispetto dell’obbligo di trasmissione al mandante di quanto ricevuto a causa e in esecuzione del mandato, da numerosi elementi indiziari (le dichiarazioni della teste G. la disponibilità da parte del B. di una postazione di lavoro all'interno dello studio del dott. B., il possesso da parte dell’ing. B. delle chiavi dello studio, la mancata elezione da parte del B. di domicilio fiscale presso il suo studio, lo svolgimento del rapporto di mandato professionale fino alla cessazione, senza alcuna contestazione da parte del mandante) lo stesso era da ritenere assolto. Del resto risultava prima di qualunque valore probatorio la scrittura privata di natura transattiva, richiamata dall'appellante, per trarne argomento della mancata restituzione, in quanto priva di data e di sottoscrizione delle parti.

Sulla illecita distrazione di somme di denaro dai conti bancari dell’ing. B. andava confermata la prescrizione ai sensi dell’art. 2947 c.c., decorrente dalla data di commissione dei singoli fatti di reato tutti collocati nel periodo tra l’ottobre 1992 ed il febbraio 1993 (l’emissione di assegni) e nel marzo 1996 (l’utilizzo delle deleghe), non essendo ipotesi di reato permanente.

Infine, quanto all’apposizione da parte del B. di firme apocrife su atti societari, pur a fronte delle dichiarazioni confessorie dello stesso, non vi era sufficienza nell’integrazione degli estremi del reato di cui all'art. 485 c.p. in mancanza di dolo specifico.

L’accoglimento dell'appello incidentale veniva argomentato dalla omessa pronuncia in ordine alle spese processuali.

Avverso la sentenza della Corte di appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione il B. sulla base di sette motivi, al quale ha replicato il B. con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 134 c.p.c., 24 e 111 Cost.per avere la corte di merito ammesso solo parzialmente le prove dedotte dall’appellante, rigettando le restanti per facta concludentia, senza però fornire alcuna motivazione al riguardo, contravvenendo all’obbligo di argomentare le decisioni previsto dalla Costituzione e con grave pregiudizio al diritto di difesa. A conclusione del mezzo viene formulato il seguente quesito di diritto: "...se la Corte di appello, provvedendo con ordinanza istruttoria del 17.10 2006 circa la parziale ammissibilità delle prove orali declinate dal B. abbia violato l'art. 134 c.p.c., nonché l'art. 24 e 111 Cost., nella parte in cui ha omesso di motivare le ragioni dell(l’implicito) rigetto delle ulteriori prove orali articolate dalla medesima parte processuale, pregiudicando perciò il diritto di quest’ultima a sindacare il criterio logico e tecnico adoperato dalla Corte territoriale per discriminare le prove ammesse da quelle di fatto respinte. ".

Il secondo motivo - con il quale il ricorrente nel riproporre le medesime circostanze di cui al primo motivo, lamenta la violazione degli artt. 134 c.p.c., 24 e 111 Cost.in relazione all'art. 159 c.p.c. - pone il seguente quesito di diritto: "...se, per effetto della ipotesi che precede di violazione dei precetti di cui agli artt. 134 c.p.c., 24 e 111 Cost. va dichiarata nulla l’ordinanza istruttoria della Corte di appello del 17.10.2006 e con essa, per effetto della forza estensiva di cui all’art. 159 c.p.c., tutti gli atti processuali conseguenti e correlati a detta ordinanza istruttoria, ivi Inclusa la sentenza n. 28/2009 oggetto del presente gravame ".

Con i primi due motivi di ricorso, che sono suscettibili di trattazione congiunta, per la loro evidente connessione, il ricorrente lamenta la erroneità delle statuizioni sulle prove. Essi sono inammissibili.

Va rilevato che l'ordinanza istruttoria impugnata è relativa all'ammissione soltanto parziale della prova articolata, che è provvedimento tipicamente ordinatorio, con funzione strumentale e preparatoria rispetto alla (futura) definizione della controversia, privo perciò come tale di qualunque efficacia decisoria, e quindi insuscettibile di impugnazione davanti al giudice superiore, e tanto meno di ricorso per cassazione (cfr. tra le tante Cass. 30 settembre 2008 n. 24321 e Cass. 4 maggio 1992 n. 5238). In altri termini, dall'ordinanza de qua nessuna preclusione, neppure implicita, può derivare a danno dell’appellante per essere essa priva di qualsiasi portata decisoria, per cui non può pregiudicare in alcun modo la decisione.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c.e 24 Cost. per avere i giudici di merito, nel loro procedere cognitivo, affidato il loro giudizio a rappresentazioni storiche della causa petendi, in primis ontologicamente scollate dal thema probandum dallo stesso offerto e, in secondo luogo, solo parcellarmente e lacunosamente acquisito, in luogo di un quadro probatorio completo ed univoco articolato dalla sua difesa. In particolare, quanto alla censurata sottrazione e/o indisponibilità dell'intera documentazione fiscale/contributiva, prodotto in principio di prova il fax contrassegnato con il n. 7) del fase, di 1° grado e riguardante la proposta transattiva, che ove sentito a testimone il dott. Z. si sarebbe avuta contezza di quanto in detto scritto rappresentato. Parimenti per l’ablazione delle prove afferenti alle somme di denaro distratte dal resistente. In altri termini, ad avviso del ricorrente, sarebbe stato violato un ben preciso "diritto alla prova" delle parti. A corollario del motivo viene formulato il seguente quesito di diritto: "...ritenuto il thema decidendum e probandum rassegnato dal B., se la Corte di appello di Milano, obliterando immotivatamente le prove orali proposte dal ricorrente a valere su un articolato istruttorio ed un contesto probatorio già sostenuto documentalmente, abbia violato l’art. 24 Cost. nonché gli artt. 115 e 116 c.p.c.".

Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.

Come questa Corte ha ripetutamente affermato, spetta al giudice di merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, fra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all’altro dei mezzi di prova (cfr., ex pluribus, Cass. n. 828 e n. 2272 del 2007). In questo potere discrezionale, come lo stesso ricorrente riconosce, rientra la facoltà di escludere la rilevanza di una prova mediante un giudizio che può essere anche implicito, cioè risultante dal tenore della motivazione, non essendo il giudice obbligato ad esplicitare per ogni mezzo istruttorie le ragioni per cui egli lo ritenga irrilevante, ovvero, più in generale, ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza l'assunzione dei mezzi di prova richiesti dalle parti oppure in base a quelli già assunti e senza necessità di ulteriori acquisizioni (cfr. Cass. n. 2404 del 2000; n. 9942 del 1998).

Nella specie, peraltro, la corte di merito - a fronte della specifica censura attinente alla mancata ammissione dei capitoli di prova testimoniale in ordine alle circostanze di una proposta transattiva predisposta tra le parti e di distrazione di denaro da parte del B. - ha affermato, quanto al primo punto, che la "scrittura privata" di assenta natura transattiva, alla quale il B. aveva fatto richiamo per trarne argomento della mancata restituzione dei documenti, era priva di valore probatorio, giacché mancante di sottoscrizione delle parti e di data; né nel ricorso veniva riportato il tenore del medesimo documento a riprova del quale era stata richiesta l’assunzione della prova testimoniale. La valutazione, pertanto, della mancata ammissione di talune prove per testi si fonda su argomenti logici correttamente motivati, come tali non censurabili in sede di legittimità.

Quanto alla seconda circostanza, la censura non coglie la ratio decidendi costituita dalla prescrizione del diritto al risarcimento dei danni per appropriazione indebita, decorrente il termine di cui all’art. 2947 c.c. dalla data di commissione dei singoli fatti di reato.

Contro detta statuizione non risulta essere stata formulata alcuna specifica critica con il motivo di ricorso, e quindi alla pronuncia che l’ha tenuta ferma, essendosi con esso genericamente affermato uno scollamento delle rappresentazioni storiche della causa petendi, solo lacunosamente acquisito il quadro probatorio.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 115, 116 c.p.c.e 111 Cost., anche in relazione all’art. 345 comma 3 c.p.c., per avere la corte territoriale dichiarato inammissibili tutte le produzioni documentali versate nel giudizio di secondo grado dall’appellante, nonostante si trattasse di documentazione relativa a fatti e soggetti che avevano animato le vicende dedotte in fatto dalle parti (quali D.S. collaboratore, socio, teste e correo del B. i coniugi M. e M. truffati dal S. Inoltre la maggior parte della documentazione prodotta (come le sentenze inter partes del Tribunale di Milano) si era formata successivamente al termine del 30.7.2003 concesso ex art. 184 c.p.c., per cui il giudice di merito dovuto ritenere giustificata la produzione di detti documenti, a prescindere dalla indispensabilità, che comunque è criterio alternativo per l'acquisizione, deferito alla discrezionalità del giudice, in relazione al contesto delle allegazioni esposte in contraddittorio da entrambe le parti. L’illustrazione del motivo è completata dalla formulazione del seguente quesito di diritto: "...se la Corte di appello di Milano ha violato gli artt. 115 e 116 c.p.c. e l'art. 111 Cost. nella parte in cui, dichiarandone l’inammissibilità ex art. 345 c.p.c., ha privato il ricorrente B del diritto di produrre in seconde cure prove documentali nuove, formate successivamente allo spirare del termine istruttorio ex art. 184 c.p.c., ovvero, ritenuta la libera prospettazione difensiva avversaria declinata - vi è più - in interpello, non ha ritenuto "indispensabili" i documenti offerti in produzione al fine di ricercare la verità sui fatti di causa e su quelli correlati ad essi, in contesto inscindibile (vds. atti di trattazione di 1° e 2° grado).".

Anche detta doglianza non può trovare ingresso.

Nei giudizi come il presente instaurati dopo il 30 aprile 1995, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l'art. 345 c.p.c., comma 3, va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova nuovi - la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza - e, quindi, anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola, con il porre in via alternativa i requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame (sempre che essi siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell'atto introduttivo del giudizio di secondo grado, a meno che la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo): requisiti consistenti nella dimostrazione che le parti non abbiano potuto proporli prima per causa ad esse non imputabile, ovvero nel convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione (Cass. SS.UU. 20 aprile 2005 n. 8203; Cass. 16 febbraio 2007 n. 3644; Cass. 8 marzo 2007 n. 5323, tra le tantissime).

La successiva giurisprudenza ha più volte ribadito che devono essere considerate indispensabili le prove che possano esplicare una "influenza causale più incisiva" rispetto alle prove in genere ammissibili in quanto "rilevanti", nel senso che si tratta di prove che appaiono idonee a fornire un contributo essenziale all'accertamento della verità materiale, per essere dotate di un grado di decisività e certezza tale che, di per sè sole, quindi anche a prescindere dal loro collegamento con altri elementi di prova e con altre indagini, conducano ad un esito "necessario" della controversia (Cass. 19 aprile 2006 n. 9120; Cass. 26 luglio 2012 n. 13353; Cass. 29 maggio 2013 n. 13432).

È stato, altresì, precisato che il giudizio di indispensabilità della prova nuova in appello non attiene al merito della decisione, ma al rito, in quanto la relativa questione rileva ai fini dell'accertamento della preclusione processuale eventualmente formatasi in ordine all'ammissibilità di una richiesta istruttoria di parte (Cass. 17 giungo 2009 n. 14098; Cass. 24 febbraio 2011 n. 4478; Cass. 15 novembre 2011 n. 23963). Ciò comporta che, nel caso in cui venga dedotta in sede di legittimità la mancata ammissione di una prova documentale indispensabile da parte del giudice di appello, la Corte di Cassazione, chiamata ad accertare un "error in procedendo", è giudice anche del fatto, ed è quindi tenuta a verificare essa stessa se si tratti o meno di prova indispensabile.

Nella specie, la corte di merito dopo l'affermazione di principio di cui sopra, ha vagliato la documentazione prodotta nella determinante prospettiva di stabilire quando una prova possa definirsi indispensabile ai fini della decisione. L'esame, giova ribadirlo, affrontato sotto il profilo di rito, rilevando ai fini dell'accertamento di una preclusione processuale all'ammissibilità di una richiesta istruttoria di parte (cfr Cass. 17 giugno 2009 n. 14098 cit.), ha comportato la decisione della medesima corte distrettuale che la formazione di alcuni dei documenti risaliva ad epoca anteriore alla concessione dei termini di cui all’art. 184 c.p.c. e riguardava soggetti estranei al giudizio; inoltre la sola produzione non forniva alcuna dimostrazione dell’indispensabilità dei documenti, neppure allegata, laddove vi era un generico riferimento alla loro importanza ed indubbia pertinenza, sottolineata alle udienze del 17.10.2006 e 27.3.2007, con la conseguenza che per la loro acquisizione occorreva che non si fosse verificata la decadenza di cui all'art. 184 c.p.c..

Sul punto il Collegio osserva che la motivazione in limine della decisione impugnata dà conto proprio ed esaustivamente di tale ritenuta inammissibilità, in conformità all'indirizzo richiamato, per cui è sufficiente che, come attesta il giudice di merito, l'assenza di un quid pluris rispetto alla mera rilevanza dei fatti comprovati dai nuovi documenti prodotti con l'atto di appello (Cass. SS.UU. nn. 8202 e 8203 del 2005), secondo un'accezione di specificità che appare compatibile, diversamente da quanto contestato dall'appellante, qui ricorrente, anche dalla correlazione dell'art. 345 c.p.c., comma 3, con l'art. 184 c.p.c..

La motivazione censurata è dunque congrua e logica in punto di mancata ammissione dei documenti, giacché connette il quadro probatorio da valutare alle originarie tesi difensive di entrambe le parti, ritenendo che la decisione di primo grado non abbia apportato l'esigenza di opportuna trattazione di nuove questioni (cfr art. 183 c.p.c., comma 3) (in particolare rispetto alla declaratoria di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni per appropriazione indebita) ovvero di una diversa circostanza storica anche riferibile in via diretta alla vicenda esposta nei rispettivi atti dalle parti, non evidenziata peraltro la decisività di detti documenti.

Con il quinto motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. sotto il profilo del vizio di motivazione per avere la corte di merito - con particolare riferimento al contesto in cui si sarebbe formato l’atto transattivo - violato le predette norme "...omettendo di motivare le ragioni di ripudio delle argomentazioni diametralmente opposte del ricorrente, in parte documentate in altra parte proposte in conferma con i mezzi istruttori declinati in 1° e 2° grado..., pervenendo perciò ad un convincimento parziale ed illogicamente strutturato."

La censura è infondata.

Ai sensi dell’art. 1967 c.c. la transazione deve essere provata per iscritto. Da tale norma consegue, a termini della costante giurisprudenza di legittimità, la necessità che tutti gli elementi costitutivi del negozio transattivo (tra i quali segnatamente quello, essenziale, della reciprocità delle concessioni), debbano risultare dal documento, non essendo possibile ricorrere, neppure a fini integrativi, alla prova per testimoni o per presunzioni (v. tra le altre, Cass. n. 1787 del 1999; Cass. n. 5344 del 2000; Cass. n. 8875 del 2005 e Cass. n. 7505 del 2014).

Correttamente, pertanto, è stata esclusa nel caso di specie l'invocabilità di una transazione i cui elementi non risultavano desumibili da alcuna scrittura, per essere quella prodotta priva di data e di sottoscrizione delle parti. Il difetto di prova scritta in ordine all'elemento essenziale dell'aliquo dato et aliquo et aliquo retento, oggettivamente caratterizzante il negozio di cui all’art. 1965 c.c., ha correttamente comportato la conferma della decisione di primo grado.

Il ricorrente propone la valorizzazione di elementi di giudizio dallo stesso dedotti ai fini non della corretta interpretazione del contenuto della scrittura in questione, bensì di un'inammissibile integrazione probatoria circa l'assunta natura transattiva della stessa.

Il sesto motivo - con il quale il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 2947 c.c e dell’art. 112 c.p.c. per avere la corte di merito ritenuto prescritta la domanda di risarcimento per responsabilità professionale di B. individuando il periodo in cinque anni con riferimento al reato di appropriazione indebita - pone il seguente quesito di diritto "...in relazione alla causa petendi e petitum rassegnato dal ricorrente, se, la Corte di appello di Milano, esaminando le domande attoree, abbia omesso di deliberare in ordine alla domanda di responsabilità professionale - contrattuale censurata dal dr. B. adducendone erroneamente la prescrizione quinquennale di tale domanda, in forza della falsa applicazione dell'art. 2947 c.c., così incorrendo nella violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, l'art. 2947 c.c., comma 3, seconda parte (il quale, in ipotesi di fatto dannoso considerato dalla legge come reato, stabilisce che se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione ovvero è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento si prescrive nei termini indicati dai primi due commi - cinque anni e due anni, con decorso dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza e divenuta irrevocabile) si riferisce, alla stregua della formulazione letterale e collocazione nel complessivo contesto di detto comma 3, nonché della finalità perseguita di tutelare l'affidamento del danneggiato circa la conservazione dell'azione civile negli stessi termini utili per l'esercizio della pretesa punitiva dello Stato, alla sola ipotesi in cui per il reato sia stabilita una prescrizione più lunga di quella del diritto al risarcimento.

A tale stregua, ove la prescrizione del reato sia viceversa uguale o più breve di quella fissata per il diritto al risarcimento, la norma in argomento resta invero inoperante, ed il diritto medesimo è soggetto alla prescrizione fissata dai primi due commi dell'art. 2947 c.c., con decorrenza dal giorno del fatto (v. Cass. 15 maggio 2013 n, 11775; Cass. 8 febbraio 2005 n. 2508; Cass. 18 aprile 2001 n. 5695).

Va pertanto ribadito che ai fini dell'applicazione dell'eccezione al riguardo posta all'art. 2947 c.c., comma 3, è necessaria la ricorrenza di entrambi i requisiti ivi posti, e cioè che si tratti di reato e che la prescrizione del reato sia più lunga a quella prevista per l'azione civile. Laddove la prescrizione prevista per il reato sia invece - come nella specie - uguale (o anche inferiore) a quella prevista per il diritto al risarcimento del danno, ai sensi dell'art. 2947 c.c., comma 1, si applica la prescrizione di 5 anni dal fatto, e non già (come erroneamente preteso dalla ricorrente) dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza e divenuta irrevocabile.

Orbene, nell'affermare che risultando la prescrizione del reato di appropriazione indebita uguale a quella fissata nel primo comma dell’art. 2947 c.c. - e cioè anni cinque dalla commissione dei singoli fatti di reato fatto, tutti collocati nel periodo tra l’ottobre 1992 ed il febbraio 1993 (l’emissione di assegni) e nel marzo 1996 (l’utilizzo delle deleghe), "senza che possa avere alcuna rilevanza l’epoca della cessazione del mandato professionale" - la prescrizione dell'azione civile alla data della proposizione della domanda (notificata il 1°.2,2002) era ormai maturata, la corte di merito non ha correttamente valutato il dies a quo di decorrenza della prescrizione alla luce dei principi che regolano il rapporto di mandato.

Occorre premettere che tra il commercialista ed il cliente intercorre un rapporto professionale che è equiparabile allo schema del mandato, in virtù del quale il primo è tenuto a fare tutto quanto è nelle sue possibilità per la realizzazione del risultato pratico che il secondo si prefigge, e di esso il codice civile tratta al capo 2A titolo 3A, libro 5A, dagli artt. 2229 e segg., disposizioni codicistiche di cui alle predette norme (artt. 2230 - 2237) che però trattano esclusivamente un modo (quello contrattuale) di attuarsi dell'attività professionale intellettuale, ma non esauriscono tutte le possibilità esplicazioni dell'attività professionale intellettuale, nei limiti delle leggi speciali che regolano ciascuna professione. Conseguenza di ciò è che accanto alla responsabilità contrattuale (con prescrizione decennale), per far valere l'inadempimento di obbligazioni tipicamente inerenti alle funzioni professionali conferite, può essere anche chiesto il risarcimento del danno provocato da atti di dissipazione del patrimonio, quali quelli cagionati dall'appropriazione di somme di cui si dispone per ragioni di servizio o comunque riferite ad operazioni inesistenti, che integra una violazione da illecito extracontrattuale (con prescrizione quinquennale). Il dies a quo del termine di prescrizione in questione - diversamente da quanto affermato dalla corte distrettuale - non può decorrere prima della cessazione del rapporto o comunque dell’adempimento da parte del professionista dell'obbligo di rendere il conto, a nulla rilevando che l'illecito rimonti ad un tempo anteriore, per il fondamentale principio che la prescrizione comincia a decorrere solo dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.). Non è conforme a diritto far decorrere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno dal fatto illecito lesivo anziché dal manifestarsi all'esterno della produzione del danno. In tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, sia per responsabilità contrattuale che per responsabilità extracontrattuale, questa Corte ha ripetutamente affermato che il termine di prescrizione ex art. 2935 c.c., inizia a decorrere non già dal momento in cui il fatto del terzo viene a ledere l’altrui diritto, bensì dal momento in cui la produzione del danno si manifesta all'esterno divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile (cfr. Cass. n. 12666 del 2003, Cass. n. 9927 del 2000, Cass. n. 8845 del 1995, Cass. n. 3206 del 1989, Cass. n. 4532 del 1987).

Con il settimo motivo, infine, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 485 c.p. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. per non avere la corte di merito ritenuto integrato il dolo specifico nonostante l’interesse personale del B. fosse intrinseco nel fatto che egli rivastiva la qualità di amministratore unico della W. s.r.l. e indirettamente nella R. s.r.l., gestita da D.S. Conclude il mezzo seguentequesito di diritto: "ritenuta la dichiarazione confessoria resa dal dr. B. - sub doc. 4 fasc. 1° gr. - circa l’apposizione della firma apocrifa del B. quale segretario nei verbali di assemblea ordinaria delle società W. srl e R. s.r.l. - doc. 17 e 18 fasc. 1° gr. - e l’interesse precipuo del dr. B. quale amministratore unico della W. s.r.l, se, la Corte di appello di Milano ha falsamente applicato l'art. 485 c.p.c., pervenendo a giudizio viziato in ordine al difetto dell'elemento soggettivo del reato, in violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.

Il motivo è infondato. La questione qui da decidere è se pure a fronte delle dichiarazioni confessorie del professionista, sia stato correttamente escluso il reato di falso fondante il diritto della parte attrice ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale. Il ricorrente concentra il principale profilo della sua censura sulla circostanza che non sarebbe stato correttamente inquadrato l’interesse del resistente a dimostrazione dell'elemento psicologico doloso che necessariamente deve sorreggere il delitto di falso ideologico in scrittura privata.

In questo solco deve essere, dunque, mosso il giudizio ed intorno a questo preliminare punto esso deve attestarsi, con il rilievo che, secondo la giurisprudenza penale di legittimità, pur essendo richiesto, sotto il profilo psicologico, per la configurabilità del reato di falso ideologico in scrittura privata, il dolo specifico, deve tuttavia escludersi che esso possa ritenersi sussistente per il solo fatto che l'atto contenga un asserto obiettivamente non veritiero, dovendosi invece verificare, anche in tal caso, che l'autore del falso abbia perseguito il fine, di qualsiasi natura (legittimo o illegittimo), di trarre un vantaggio dall’atto (Cass. pen. n. 22578 del 2012).

Ciò posto, osserva il Collegio che nella specie i verbali delle cui assemblee sociali ordinarie su cui era stata apposta la firma dal B., in qualità di segretario dell’adunanza, non possa integrare il reato ascrittogli per avere detta sottoscrizione mera funzione certificativa di dichiarazione di scienza e dunque non poteva ricorrere alcun conflitto di interessi.

Per tutte le considerazioni sopra svolte va accolto il solo sesto motivo di ricorso, respinti i restanti. Di conseguenza la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio ad altro giudice, designato in dispositivo, che si atterrà ai principi di diritto sopra enunciati e procederà a tutti gli accertamenti del caso che non risultano essere stati espletati dai giudici di merito. Provvederà il giudice dì rinvio anche alla liquidazione delle spese del giudizio di Cassazione.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il sesto motivo di ricorso, rigettate le restanti censure;

cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di Cassazione, a diversa Sezione della Corte di appello di Milano.