Intento ritorsivo del licenziamento: necessaria l'efficacia determinativa esclusiva della volontà di reced

Nel caso di domanda di accertamento della nullità del provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, per accordare la tutela che l'ordinamento riconosce a fronte di tale violazione, occorre che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Corte di Cassazione, sentenza 04 aprile 2019, n. 9468).

Una Corte di appello territoriale, confermando la sentenza del Tribunale di prime cure, aveva dichiarato la nullità del licenziamento intimato ad un lavoratore, ritenendo che il recesso adottato dalla società datrice di lavoro fosse avvenuto per ritorsione. Quanto ai tratti storici della vicenda, il lavoratore ricorrente, assunto con un periodo di prova di quattro settimane, era stato licenziato una prima volta per mancato superamento della prova, a distanza di otto settimane dall'assunzione. A seguito della contestazione del lavoratore, la società, avvedutasi dell'errore, aveva revocato il licenziamento invitandolo a rientrare in servizio. Di fatto, però, il ricorrente non aveva ripreso a lavorare e, in seguito alle rimostranze del medesimo circa la mancata ripresa, la società aveva replicato, prima rappresentando la possibilità di inserimento in cassa integrazione guadagni e poi collocandolo in ferie per due giorni. Infine, era intervenuto un nuovo licenziamento, motivato da una riorganizzazione aziendale con soppressione della figura di addetto alle relazioni commerciali con l'estero. Da tale sequenza dei fatti, la Corte territoriale aveva argomentato il carattere ritorsivo del licenziamento, desumendolo in particolare dai seguenti elementi: la contiguità temporale tra la lettera rivendicativa della reintegra del 4 dicembre e il licenziamento del 6 dicembre; l'insussistenza della prospettata collocazione in cassa integrazione per tutti i dipendenti; la solo teorica ripresa del servizio che, fissata per il 3 dicembre, non era mai avvenuta, fino al licenziamento, intervenuto a distanza di soli tre giorni. Peraltro, l'originaria causale, consistente nella prospettata "soppressione della figura di addetto alle relazioni commerciali", era stata modificata in giudizio dalla società nella diversa fattispecie di "riduzione del personale addetto alle relazioni commerciali con l'estero", che da due unità era stato portato ad una sola unità. Altresì, la situazione economico-organizzativa della società, nel lasso temporale fra assunzione e secondo recesso, non aveva subito uno stravolgimento di tipo economico-finanziario, se si eccettuano alcune dichiarazioni, peraltro generiche, di testi che avevano riferito di risultati non apprezzabili nel segmento estero del mercato.
Ricorre così in Cassazione la società, lamentando che la soppressione del posto di lavoro del ricorrente, con assegnazione delle relative mansioni ad altra unità già addetta al medesimo settore, avente maggiore anzianità di servizio e superiore livello contrattuale, costituisce scelta aziendale, insindacabile e garantita costituzionalmente (art. 41, Costituzione), restando invece rimessa al controllo giudiziale la verifica dell'effettività del ridimensionamento e del nesso causale tra la ragione addotta a fondamento della soppressione del posto di lavoro e il dipendente licenziato e quindi sostanzialmente la non pretestuosità della scelta organizzativa.
Per la Suprema Corte il ricorso merita accoglimento. In via generale, ai fini del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, consistente nella soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto, è richiesto che:
a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo stesso;
b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali, insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati, diretti ad incidere sulla struttura e sull'organizzazione dell'impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività;
c) l'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore.
L'onere probatorio in ordine alla sussistenza di questi presupposti è a carico del datore di lavoro, che può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (ex multis, Corte di Cassazione, sentenza n. 24882/2018).
In ogni caso, nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, è sufficiente, ai fini della legittimità del recesso, che tali motivazioni causalmente determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, salvo tuttavia l’accertamento giudiziale circa l'inesistenza della ragione organizzativa o produttiva, nel qual caso il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità o la pretestuosità della causale addotta (Corte di Cassazione, sentenza n. 10699/2017).
Quanto poi all'eventuale allegazione del lavoratore riguardo al carattere ritorsivo del licenziamento, e quindi alla domanda di accertamento della nullità del provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, per accordare la tutela che l'ordinamento riconosce a fronte di tale violazione, occorre che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Corte di Cassazione, sentenza n. 14816/2005). Va esclusa dunque la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Corte di Cassazione, sentenza n. 5555/2011). L'onere della prova del carattere ritorsivo nel provvedimento adottato dal datore di lavoro grava sul lavoratore e può essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l'intento di rappresaglia (Corte di Cassazione, sentenza n. 18283/2010). Il principio, peraltro, è stato anche di recente ribadito ai fini della nullità del licenziamento determinato da un motivo illecito (art. 18, L. n. 300/1970), per cui il cui carattere determinante del motivo illecito (art. 1345 c.c.) può restare escluso dall'esistenza di un giustificato motivo oggettivo solo ove quest'ultimo risulti non solo allegato dal datore di lavoro, ma anche comprovato e, quindi, tale da poter da solo sorreggere il licenziamento, malgrado il concorrente motivo illecito (Corte di Cassazione, sentenza n. 30429/2019).