Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 19 aprile 2018, n. 9739

Licenziamento disciplinare - Segnalazioni di taluni clienti - Controllo interno - Mansioni e consulenza

Fatti di causa

La Corte d'appello di Roma, pronunciando in sede di giudizio di rinvio ex art. 392 c.p.c., rigettava la domanda proposta da V.F. nei confronti della Banca M.P.S. s.p.a. volta a conseguire sentenza dichiarativa di illegittimità del licenziamento disciplinare intimato in data 13/9/2000 e di condanna alla reintegra nel posto di lavoro con gli effetti risarcitori sanciti dall'art. 18 L. 300/70 nella versione di testo applicabile ratione temporis.

All'esito di segnalazioni di provenienza di taluni clienti, l'istituto di credito aveva infatti attivato un controllo interno dal quale era emerso che il F. - cui erano ascritte mansioni di ufficiale di riscossione - aveva, in talune occasioni, richiesto il pagamento di somme onde evitare il versamento di importi oggetto di avviso di riscossione o il pignoramento; in altre, aveva elargito consigli per non procedere al pagamento; in altre ancora aveva concluso con esito negativo pignoramenti che, invece, a distanza di breve tempo, avevano sortito esito positivo. L'istituto aveva quindi irrogato la massima sanzione disciplinare per giusta causa ex art. 127 lett. D) c.c.nl. di settore, in ragione del grave vulnus agli obblighi gravanti sul prestatore di lavoro.

La Corte distrettuale modulava il proprio iter argomentativo, in estrema sintesi, sul rilievo che i fatti oggetto di incolpazione erano da ritenersi confermati anche all'esito delle indagini svolte in sede di giudizio penale - pur sfociato in sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste - dalle quali era emerso che il F. aveva assunto nei confronti dei clienti una veste da consulente, sicuramente non appropriata al ruolo rivestito, tale da travalicare i doveri su di lui gravanti e da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, tenuto conto delle funzioni pubbliche di cui era investito; e ciò tenuto conto anche della reiterazione delle condotte entro un ambito temporale ristretto, che denotava il carattere sistematico delle violazioni ascritte.

Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione il F. affidato a quattro motivi ai quali resiste con controricorso la Banca M.P.S. s.p.a..

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell'art. 378 c.p.c..

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 384 comma 2 c.p.c. in relazione all'art. 360 n.4 c.p.c. nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 2967 c.c. e dell'art. 2119 c.c. nonché dell'art. 5 I. n. 604/1966, ex art. 360 n.3 c.p.c.. Ci si duole che la Corte distrettuale non si sia uniformata ai dicta della pronuncia rescindente, avendo omesso di procedere all'accertamento dei comportamenti contestati al lume dell'attività istruttoria svolta in sede civile ed in sede penale, limitandosi quanto a quest'ultima, a recepirne l'esito complessivo senza sottoporlo ad un vaglio critico, così violando i principi che presidiano l'acquisizione delle prove, e della giusta causa di licenziamento.

2. Il motivo presenta evidenti profili di inammissibilità.

Occorre rilevare che i motivi di censura contengono la contemporanea deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge, sostanziale e processuale, nonché di vizi di motivazione senza alcuna specifica indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile al n. 3 o al n. 4 ovvero al n. 5 del comma 1 dell'art. 360 c.p.c., non consentendo una adeguata identificazione del devolutum.

Invero il ricorso per cassazione, in quanto ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall'art. 360 c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera chiara ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione.

Il rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione - da intendere alla luce del canone generale "della strumentalità delle forme processuali" - comporta, fra l'altro, l'esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito (Cass. n. 23675 del 2013), in quanto è solo la esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. n. 25044 del 2013; Cass. n. 17739 del 2011; Cass. n. 7891 del 2007; Cass. n. 7882 del 2006; Cass. n. 3941 del 2002).

L'osservanza del canone della chiarezza e della sinteticità espositiva rappresenta l'adempimento di un preciso dovere processuale il cui mancato rispetto, da parte del ricorrente per cassazione, lo espone al rischio di una declaratoria d'inammissibilità dell'impugnazione (Cass. n. 19100 del 2006) ed è dunque inammissibile un motivo che non consenta di individuare in che modo e come le numerose norme richiamate nella rubrica sarebbero state violate nella sentenza impugnata, quali sarebbero i principi di diritto asseritannente trasgrediti nonché i punti della motivazione specificamente viziati (Cass. n.17178 del 2014 e giurisprudenza ivi richiamata).

In particolare, poi, ancora di recente questa Corte, a Sezioni Unite, al cospetto di un motivo che conteneva censure astrattamente riconducibili ad una pluralità dì vizi tra quelli indicati nell'art. 360 c.p.c., ha avuto modo di ribadire la propria giurisprudenza che stigmatizza tale tecnica di redazione del ricorso per cassazione, evidenziando "la impossibilità di convivenza, in seno al medesimo motivo dì ricorso, di censure caratterizzate da ... "irredimibile eterogeneità" (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf., Cass. n. 14317 del 2016).

3. Peraltro, non può tralasciarsi di considerare che la pronuncia impugnata si sottrae ad ogni critica, essendosi uniformata al dictum della sentenza rescindente, per aver proceduto ad una argomentata valutazione del quadro probatorio acquisito, elaborando anche un autonomo apprezzamento degli approdi ai quali erano pervenute le indagini penali, onde calibrare il giudizio sulla gravità della condotta posta in essere dal lavoratore. Premesso che "l'unico episodio ad essere integralmente confermato avanti agli inquirenti è quello relativo ai coniugi P./T." la Corte distrettuale osserva "che questo e tutti gli altri episodi rivelano un modus operandi del F. che, pur non integrando gli estremi della concussione o della truffa...non risponde ai canoni di correttezza e ai doveri d'ufficio che dovrebbero contraddistinguere la condotta del pubblico ufficiale. Le dichiarazioni dei clienti, pure rilette nel cascame derivatone dal filtro istruttorio delle indagini penali, e che costituiscono il nucleo del fatto accertato posto dalla Suprema Corte a fondamento dell'esame di questo giudice di rinvio, evidenziano infatti un comune denominatore di tutte le condotte tenute dal F., ossia un comportamento equivoco ed esageratamente teso a suggerire ai contribuenti i rimedi per sottrarsi al pagamento ovvero ritardarlo, e ciò contro gli interessi dell'ente che il F. rappresenta e contro i suoi doveri d'ufficio che altro non sono se non quelli di riscuotere il credito o, in mancanza, procedere al pignoramento".

La censura, sotto tutti gli evidenziati profili, deve essere, pertanto, disattesa.

4. Con il secondo ed il terzo motivo si prospetta omesso esame di fatti decisivi e controversi in relazione all'art. 360 comma primo n.5 c.p.c. nonché violazione e falsa applicazione dell'art. 2700 c.c..

Si stigmatizza l'impugnata sentenza per non aver proceduto ad una analitica e congrua disamina del materiale probatorio raccolto in sede penale, omettendo di valutare l'attendibilità delle dichiarazioni rese in particolare dai contribuenti P. e T., ribadendosi che questi ultimi non avevano versato alcuna somma di denaro e che il pignoramento mobiliare eseguito era del tutto congruo rispetto alla loro esposizione debitoria.

Del pari, con riferimento alla vicenda F., si deduce la mancanza di prova della dazione di denaro in proprio favore ed il giudice del rinvio non aveva adeguatamente valutato la contraddittorietà fra le dichiarazioni rese da M. e R.F..

Si osserva poi, quanto alla posizione P., caratterizzata dal rifiuto di procedere al pagamento, che il proprio agire si era risolto nella mera indicazione circa le maggiorazioni di costi conseguenti ad un pignoramento, erronea essendo poi la motivazione relativa al contribuente T. il quale si era rifiutato di adempiere al pagamento.

5. Anche siffatti motivi, da trattarsi congiuntamente per la connessione che li connota, vanno disattesi, giacchè presuppongono una rivalutazione dei dati istruttori interpretati dalla Corte di merito, anche mediante la prospettazione di violazione di legge, secondo modalità inammissibili nella presente sede.

L'accertamento in fatto della ricorrenza delle condizioni che concorrevano a definire la gravità del comportamento ascritto al ricorrente, mediante la rivalutazione e l'apprezzamento del complessivo materiale probatorio acquisito al giudizio, non è scrutinabile, in quanto tende a stigmatizzare l'impugnata sentenza per il malgoverno dei dati istruttori acquisiti, così pervenendo ad una revisione delle valutazioni e del convincimento della Corte di merito per il conseguimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (vedi ex aliis, Cass. 4/4/2014 n. 8008, Cass. SS.UU. 25/10/2013 n. 24148), secondo modalità non rispettose dei dettami sanciti dall'art. 360 c.1 n.5 c.p.c., come novellato dal dl. 22/6/12 n. 83 conv. in L .7/8/12 n. 134.

Deve al riguardo considerarsi che il nuovo testo dell'art. 360 cod. proc. civ. n.5 applicabile alla fattispecie ratione temporis, introduce nell'ordinamento un vizio specifico che concerne l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

La parte ricorrente deve dunque indicare - nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e all'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), - il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui ne risulti l'esistenza, il "come" e il "quando" (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la "decisività" del fatto stesso" (Cass. sez. un. 22/9/2014 n. 19881, Cass. sez. un. 7/4/2014 n. 8053). Nella riformulazione dell'art. 360 c.p.c., n.5 è dunque scomparso ogni riferimento letterale alla "motivazione" della sentenza impugnata e, accanto al vizio di omissione (seppur cambiato d'ambito e di spessore), non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà. Ciò a supporto della generale funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.

In questa prospettiva, proseguono le Sezioni Unite, la scelta operata dal legislatore è quella di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare la nullità della sentenza per "mancanza della motivazione".

Pertanto, l'anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità quale violazione di legge costituzionalmente rilevante attiene solo all'esistenza della motivazione in sè, e si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili", nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile. Peraltro la pronuncia impugnata non risponde ai requisiti della motivazione apparente ovvero della illogicità manifesta che avrebbero giustificato il sindacato in questa sede di legittimità onde, alla stregua dei consolidati e condivisi principi esposti, i motivi di doglianza vanno disattesi.

6. Con il quarto motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c.. Ribadisce che alla luce dei fatti emersi dalle indagini svolte in sede penale, le conclusioni alle quali era addivenuto il giudice di rinvio non si palesavano coerenti con il materiale istruttorio acquisito. Le dichiarazioni rese dagli informatori erano infatti intese a confermare la circostanza che il F. si limitava ad avvertire i clienti dell'aumento dei costi in caso di ritardo nel pagamento, diversamente da quanto argomentato dalla Corte. Il ricorrente stigmatizza altresì la pronuncia sotto il profilo della mancanza di prova della circostanza - accertata dai giudici di merito - relativa alla comunicazione ai clienti di notizie riguardanti la prescrizione del diritto azionato dall'istituto di credito o la possibilità di proporre opposizione, e prospetta una diversa valenza del comportamento adottato, riconducibile al mero esercizio di un dovere di collaborazione con la parte debitrice.

7. Anche questo motivo si risolve in una critica che sfocia in un giudizio di merito avendo ad oggetto la mera ricostruzione delle circostanze fattuali che definivano la condotta del dipendente, elaborata dalla Corte territoriale, ed alla quale ne viene contrapposta sul piano probatorio, una difforme, muovendosi la censura nel mero ambito della ricostruzione del fatto.

In linea generale, va considerato che questa Corte ha ammesso la sindacabilità, in sede di legittimità, dell'attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito, a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in quella sede non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 26/4/2012, n. 6498; Cass. 2/3/2011, n. 5095, cui adde, da ultimo, Cass. 17/1/2017 n.985).E ciò tanto più quando il giudice del merito sia chiamato ad applicare concetti giuridici indeterminati (come nel caso di specie, trattandosi di una c.d. "clausola elastica", quale la nozione di giusta causa), sotto il profilo di verifica di ragionevolezza della sussunzione del fatto e quindi ad un sindacato su vizio di violazione di norma di diritto ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., ben lontano da quello dell'art. 360, primo comma, n 5. c.p.c. (Cass. S.U.18/11/2010, n. 23287).

Il processo di sussunzione, nell'ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone infatti la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell'art. 360, primo comma n. 5 c.p.c. (oggetto della recente riformulazione interpretata quale riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione: Cass. S.U. 7/4/ 2014 n. 8053), che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti.

8. Peraltro, nello specifico, non può sottacersi che la individuazione degli standards valutativi da adottare per la concretizzazione della nozione di giusta causa di recesso, era già contenuta nella sentenza rescindente, che aveva individuato in relazione all'esercizio della funzione propria dell'ufficiale di riscossione, esplicantesi in contatto diretto con soggetti tenuti all'adempimento di obbligazioni connesse ad un pubblico interesse, la necessità di adozione di condotte improntate a "particolare correttezza e trasparenza", da scrutinare in base ad "un parametro di valutazione particolarmente rigoroso".

Al lume delle superiori argomentazioni deve, quindi, ritenersi che la mera rivisitazione del quadro istruttorio delineato nel giudizio di merito - correttamente elaborata dal giudice del rinvio in ottemperanza ai canoni esegetici tracciati dalla pronuncia rescindente, in un'ottica di peculiare rigore nella valutazione dei comportamenti adottati dai lavoratori nel settore della riscossione tributi - non sia suscettibile di sindacato nella presente sede di legittimità.

9. Il ricorso va pertanto respinto.

Consegue, per il principio della soccombenza, la condanna di V.F. al pagamento delle spese inerenti al presente giudizio di legittimità nella misura in dispositivo liquidata.

Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell'art.1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all'art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell'obbligo di versamento, da parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.