Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 28 luglio 2017, n. 37851

Reati tributari - Omessa dichiarazione - Occultamento e/o distruzione di documenti contabili - Verifica della Guardia di Finanza - Accertamento presuntivo - Onere di prova contraria a carico del contribuente

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza emessa in data 23/05/2016, depositata in data 7/06/2016, la Corte d'appello di Genova, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di La Spezia in data 3/11/2015, assolveva il B. dai reati al medesimo ascritti in relazione alle sole dichiarazioni relative all'anno 2009 per insussistenza del fatto, confermando nel resto la sentenza appellata che lo aveva riconosciuto colpevole del reato di omessa dichiarazione anche per l'anno di imposta 2008 (art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000) e del reato di occultamento e/o distruzione di documenti contabili (art. 10, d. Igs. n. 74 del 2000) commesso fino al 18/11/2010, secondo le modalità esecutive e spazio - temporali meglio descritte nei capi di imputazione.

2. Ha proposto ricorso per cassazione il B., a mezzo del difensore fiduciario cassazionista, deducendo un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce il ricorrente, con tale motivo, il vizio di cui all'art. 606, lett. b) c.p.p. in relazione all'art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000. In sintesi, la censura investe l'impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente, i giudici di appello avrebbero erroneamente considerato l'accertamento presuntivo svolto dalla Guardia di Finanza in sede di indagine, quale prova idonea e sufficiente a ritenere l'imputato colpevole del reato di omessa dichiarazione; erroneamente dunque i giudici non avrebbero correttamente verificato l'esatto ammontare dell'imposta evasa e l'eventuale superamento della soglia di punibilità, arrivando a quantificare l'evasione in maniera del tutto presuntiva od ipotetica; i giudici di appello si sarebbero limitati a fare proprie le risultanze dell'accertamento tributario compiuto dalla Guardia di Finanza, dunque esclusivamente sulla base di presunzioni se non di ipotesi prive del necessario riscontro probatorio; l'errore commesso sarebbe duplice: da un lato, per aver attribuito valore dirimente all'accertamento della Guardia di Finanza nonostante fondato su presunzioni; dall'altro, ritenendo l'imputato come soggetto tenuto a fornire la prova della sua innocenza, ciò comportando una ingiustificata inversione dell'onere probatorio; tale approdo argomentativo contrasterebbe con la giurisprudenza ormai consolidata di questa Corte che esclude la vincolatività per il giudice penale dell'accertamento tributario e fissa il principio della non utilizzabilità delle presunzioni tributarie in sede penale ai fini della determinazione dell'imposta evasa, donde la richiesta di annullamento.

 

Considerato in diritto

 

3. Il ricorso è manifestamente infondato.

4. Ed invero, il giudice di appello circa l'eccezione di utilizzabilità dell'accertamento presuntivo svolto dalla Guardia di Finanza, correttamente evidenzia come effettivamente l'accertamento non possa valere sic et simpliciter in sede penale, ma aggiunge/in maniera assolutamente logica e giuridicamente corretta, come la Guardia di Finanza avesse effettuato controlli incrociati da cui era emerso che la società avesse emesso fatture per un valore di oltre 2 milioni di euro (con Iva superiore ad euro 112.000) per l'anno 2008 e di oltre € 431.000 (con Iva pari ad euro 48.000) per l'anno 2009; è la stessa corte territoriale a chiarire come in relazione periodo d'imposta 2008 l'IVA evasa fosse superiore alla soglia di punibilità prevista ex lege e che, in relazione a tale somma, non si trattasse di un accertamento induttivo donde il reato era da ritenersi provato non sulla base di un ragionamento presuntivo, ma sulla base di specifici dati documentali non contestati in appello; a ciò i giudici di appello aggiungono come, sempre in relazione al periodo d'imposta 2008, all'effettuazione di operazioni imponibili per oltre 2 milioni di euro dovevano essere aggiunte anche operazioni bancarie su conti correnti riconducibili alla società che, in questo caso presuntivamente (come affermato dalla stessa Corte d'appello), avevano portato ad ipotizzare elementi positivi di reddito non dichiarati pari ad oltre € 4.800.000, con un'imposta evasa pari ad oltre € 1.330.000; è la stessa Corte d'appello a chiarire come, pur trattandosi di valutazioni presuntive, esse si fondano su base certa pari alle fatture rinvenute con i controlli incrociati, donde, considerato l'enorme divario rispetto alla soglia di punibilità prevista all'epoca del fatto e anche l'assenza di una qualunque spiegazione alternativa, il reato dovesse ritenersi provato in relazione anche all'IRES del 2008.

5. Trattasi di motivazione, come detto, giuridicamente corretta che mostra di fare buon governo del principio, più vote affermato da questa Corte, secondo cui le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione dell'illecito, assumendo il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell'esistenza della condotta criminosa (da ultimo: Sez. 3, n. 30890 del 23/06/2015 - dep. 16/07/2015, Cappellini e altro, Rv. 264251, che in motivazione, ha precisato che il riscontro può essere fornito o da distinti elementi di prova, o anche da altre presunzioni, purchè gravi, precise e concordanti). Orbene, nel caso in esame, i giudici di appello hanno dato atto che l'accertamento presuntivo era stato corroborato proprio dall'esito dei controlli incrociati eseguiti dalla Guardia di Finanza, da cui era emerso che la società avesse emesso fatture, per quanto di interesse in questa sede, per un valore di oltre 2 milioni di euro (con Iva superiore ad euro 112.000) per l'anno 2008 e che, ancora, sempre in relazione al periodo d'imposta 2008, all'effettuazione di operazioni imponibili per oltre 2 milioni di euro dovevano essere aggiunte anche operazioni bancarie su conti correnti riconducibili alla società che, in questo caso presuntivamente (come affermato dalla stessa Corte d'appello), avevano portato ad ipotizzare elementi positivi di reddito non dichiarati pari ad oltre € 4.800.000, con un'imposta evasa pari ad oltre € 1.330.000; tuttavia, è la stessa Corte d'appello a chiarire come pur trattandosi di valutazioni presuntive, esse si fondano su base certa pari alle fatture rinvenute con i controlli incrociati.

Ne discende, pertanto, l'infondatezza manifesta del motivo di ricorso.

6. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al  versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

7. In applicazione del decreto del Primo Presidente della S.C. di Cassazione n. 84 del 2016, la presente motivazione è redatta in forma semplificata, trattandosi di ricorso che riveste le caratteristiche indicate nel predetto provvedimento Presidenziale, ossia ricorso che, ad avviso del Collegio, non richiede l'esercizio della funzione di nomofilachia o che solleva questioni giuridiche la cui soluzione comporta l'applicazione di principi giuridici già affermati dalla Corte e condivisi da questo Collegio, o attiene alla soluzione di questioni semplici o prospetta motivi manifestamente fondati, infondati o non consentiti.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di duemila euro alla Cassa delle ammende.

Motivazione semplificata.