Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 17 luglio 2018, n. 18904

Tributi - Reddito d'impresa - Accertamento - Fabbricati - Cessione di un contratto di leasing - Registrazioni contabili

 

Fatti di causa

 

X. Spa impugnava l'avviso di accertamento per l'anno d'imposta 2006, per Iva ed Ires, oltre sanzioni, emesso dall'Agenzia delle entrate a rettifica del reddito d'impresa, attesa l'indebita deduzione di costi non di competenza relativi alla cessione di un contratto di leasing, non inerenti per premio riconosciuto alla società M.M. Spa, nonché per aver determinato la quota indeducibile per il terreno su cui insiste un fabbricato oggetto di leasing nel 20% anziché nel 30%, e, infine, per errata svalutazione delle rimanenze di magazzino.

L'impugnazione, accolta dalla Commissione tributaria provinciale di Varese limitatamente alla ripresa per il premio clienti, era respinta, salvo che per la ripresa relativa alla svalutazione delle rimanenze di magazzino, dal giudice d'appello.

X. Spa ricorre per cassazione con cinque motivi; resiste l'Agenzia delle entrate con controricorso. La contribuente deposita memoria ex art. 378 c.p.c. deducendo l'intervenuto giudicato esterno.

 

Ragioni della decisione

 

1. Va disattesa, preliminarmente, l'eccezione di giudicato esterno formulata dal ricorrente con la memoria ex art. 378 c.p.c. attesa la mancanza della prova del passaggio in giudicato della sentenza invocata, prova che deve essere fornita non soltanto producendo l'atto, ma anche corredandolo della idonea certificazione ex art. 124 disp. att. c.p.c., dalla quale risulti che la pronuncia non è soggetta ad impugnazione, irrilevante, invece, l'attestazione di esecutività ex art. 67 bis d.lgs. n. 546 del 1992 (v. da ultimo Cass. n. 9746 del 18/04/2017; Cass. n. 28515 del 29/11/2017).

2. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 109, comma 5, tuir, in relazione ai rilievi n. 4 (relativo alla ripresa a tassazione del premio a cliente dell'importo di € 460.000,00) e 5 (relativo al disconoscimento della detrazione dell'Iva "relativa" per l'importo di € 70.000,00).

2.1. Il secondo motivo denuncia, in relazione al medesimo profilo, omessa od insufficiente motivazione.

3. I motivi, da esaminare unitariamente in quanto logicamente connessi, sono infondati: la contribuente, infatti, si duole che la CTR abbia ritenuto indeducibile il costo sol perché sproporzionato e incongruo rispetto ai ricavi correlati: a fronte di una commessa complessiva per € 862.204,00 (oltre Iva) è stato riconosciuto un "premio" di € 460.000,00, oltre ad un ulteriore sconto sulla fattura del 27%, così da portare lo sconto effettivo ad una misura superiore all'80% dell'importo; così facendo, peraltro, avrebbe violato il principio di inerenza del costo all'attività d'impresa, la cui concreta inesistenza, trattandosi di premio strettamente connesso all'oggetto dell'impresa, avrebbe dovuto essere provata dall'Ufficio, realizzando una non consentita ingerenza sulle scelte gestionali dell'impresa, neppure considerando la documentazione prodotta, né la prassi diretta a riconoscere analoghi sconti anche alla restante clientela.

Va rilevato, inoltre, che, con riguardo all'Iva di cui è stata negata la detraibilità, essa, ancorché la parte si riferisca a quella "relativa" al premio per il 2006, è conferente - come emerge dal ricorso stesso, nonché dall'avviso di accertamento riprodotto in parte qua - al premio, omologo a quello discusso in giudizio, riconosciuto dalla contribuente alla M.M. Spa per il 2005 e maturato nel 2006.

I profili, peraltro, sono stati unitariamente valutati dalla stessa CTR e le stesse doglianze sono state svolte in termini indifferenziati.

4. Ha carattere preliminare precisare, alla luce dei recenti arresti della Corte, i contenuti del principio di inerenza (e il rapporto con il giudizio di congruità ed antieconomicità) avuto riguardo sia alla disciplina delle imposte dirette che dell'Iva.

4.1. L'inerenza costituisce un requisito fondamentale per la determinazione del reddito d'impresa e riguarda, in termini generali, l'esistenza di una relazione tra i costi e l'attività d'impresa: i costi sono inerenti in quanto siano collegati all'attività d'impresa produttiva del reddito, soggetto a tassazione.

Tale nozione, invero, per un diffuso orientamento, non trova una esplicita definizione positiva ancorché, secondo parte della dottrina e della giurisprudenza, possa essere fatta discendere dal vigente art. 109, comma 5 (già 74, comma 5), tuir.

La norma, peraltro, si riferisce, in senso stretto, alla deducibilità dei componenti negativi in quanto riferiti a beni o attività produttive di reddito, con una declinazione proporzionale per i redditi esenti (pro-rata), ovvero affermandone la piena deducibilità se riferibili a redditi esclusi.

La disposizione disciplina, dunque, un profilo ulteriore e successivo - le regole di deducibilità dei costi - rispetto all'inerenza, che, anzi, è presupposta (i costi per essere deducibili debbono anche, e necessariamente, essere inerenti) ma non definita dalla norma.

Anche in tema di Iva è possibile individuare indicazioni di analoga portata.

L'art. 19, primo comma, d.P.R. n. 633 del 1972 prevede che il soggetto passivo ha diritto di detrarre «l'imposta assolta o dovuta [...] o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell'esercizio dell'impresa, arte o professione», principio che evoca le previsioni contenute nella Direttiva 2006/112/CE: la nozione di inerenza non è definita ma postulata in relazione ai costi effettuati nell'esercizio dell'attività d'impresa.

Si è osservato, del resto, che tale nozione trae il suo fondamento dallo stesso concetto economico-aziendalistico di reddito che è quello al netto dei costi collegati all'esercizio dell'impresa.

Ne deriva che l'inerenza integra, in realtà, un giudizio sulla riferibilità del costo all'attività d'impresa, giudizio che, come tale, ha natura qualitativa ancorché possa essere inteso in accezioni di maggiore o minore latitudine (ad esempio limitandone la rilevanza alle spese sostenute solo per la realizzazione dei prodotti od anche per la produzione complessivamente considerata) ovvero con derivazioni oggettive o soggettive, anche, in quest'ultimo caso, ancorandola a parametri quali l'utilità (suscettibile a sua volta di valorizzazione come effettiva, potenziale o meramente attesa) o la congruità.

4.2. Il percorso evolutivo di questo concetto ha condotto la Corte a far riferimento - negli ultimi anni - ad una nozione di inerenza che, pur collegando il costo all'attività d'impresa, risultava limitativa rispetto alla realtà economica cui si rapportava, richiedendo la suscettibilità, anche solo potenziale, di arrecare, direttamente o indirettamente, una utilità all'attività d'impresa (v. Cass. n. 10914 del 27/05/2015; in tempi recenti v. Cass. n. 13300 del 26/05/2017, nonché, con riguardo al concetto di utilità, Cass. n. 20049 dell'11/08/2017; v., in relazione a svariate fattispecie concrete, Cass. n. 9818 del 13/05/2016; Cass. n. 5160 del 28/02/2017; Cass. n. 6185 del 10/03/2017).

Ha pure assunto spesso rilievo una considerazione "quantitativa" dei costi, sicché l'utilità può essere apprezzata tenuto conto del quantum della spesa, con conseguente inclusione nella nozione di inerenza anche dei profili di congruità od (anti)economicità della scelta imprenditoriale.

Da ultimo, peraltro, la Corte, con la recente ordinanza n. 450 del 11/01/2018, ha riallineato la nozione fiscale di inerenza al fenomeno economico peculiare all'esercizio dell'attività d'impresa, affermando che «il principio dell'inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d'impresa ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all'esercizio dell'attività imprenditoriale», esclusa ogni valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta) o congruità «perché il giudizio sull'inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo».

L'indirizzo è stato riconfermato con l'ordinanza n. 3170 del 09/02/2018, che, più specificamente, ha precisato che esula ai fini del giudizio qualitativo di inerenza un "apprezzamento del costo in termini di congruità o antieconomicità", parametri che non sono espressione dell'inerenza ma "costituiscono meri indici sintomatici dell'inesistenza di tale requisito, ossia dell'esclusione del costo dall'ambito dell'attività d'impresa".

4.3. Gli arresti da ultimo evidenziati, attestanti una evoluzione delle posizioni della Corte in senso oggettivo, appaiono condivisibili ma necessitano di alcune precisazioni.

In termini generali, infatti, l'introduzione di un concetto, quale quello di utilità, nel principio di inerenza non appare necessario, posto che evoca un rapporto di causalità diretta tra il costo e il vantaggio per l'impresa (vantaggio che non è detto debba esservi), non trova un riscontro in dati normativi positivi e, comunque, non sempre bene si attaglia ad una varietà di sopravvenienze negative (si pensi alle perdite oppure alla penale per inadempimento contrattuale, la cui utilità è stata valutata in considerazione del rafforzamento del vincolo negoziale: Cass. n. 19702 del 27/09/2011; Cass. n. 16561 del 05/07/2017) sì da determinarne una espansione teorica, dai confini non sempre chiari.

Oltre a ciò, la prospettiva da ultimo affermata dalla Corte porta ad affermare, con chiarezza, l'unicità del principio di inerenza tanto per le imposte dirette quanto per l'iva, riferendosi le peculiarità che ne caratterizzano il regime, in coerenza con la disciplina unionale e le decisioni della Corte di Giustizia, a profili ulteriori (v. infra).

Le medesime considerazioni valgono per quanto concerne il profilo quantitativo o di congruità: il costo attiene o non attiene all'attività d'impresa a prescindere dalla sua entità.

Va quindi ribadito che il principio di inerenza esprime una correlazione tra costi ed attività d'impresa in concreto esercitata e si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo.

4.4. Il giudizio quantitativo o di congruità non è, però, del tutto irrilevante, collocandosi, invece, su un diverso piano logico e strutturale.

4.5. La questione, invero, si intreccia con il profilo dell'onere della prova dell'inerenza del costo, che, secondo la costante giurisprudenza, incombe sul contribuente, mentre spetta all'Amministrazione la prova della maggiore pretesa tributaria (Cass. n. 10269 del 26/04/2017; Cass. n. 21184 del 08/10/2014; Cass. n. 13300 del 26/05/2017).

L'inerenza è, come evidenziato, un giudizio; la prova dunque deve investire i fatti costitutivi del costo, sicché, per quanto riguarda il contribuente, il suo onere è, per così dire, "originario", poiché si articola ancor prima dell'esigenza di contrastare la maggiore pretesa erariale essendo egli tenuto a provare (e documentare) l'imponibile maturato e, dunque, l'esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, ovvero che esso è in realtà un atto d'impresa perché in correlazione con l'attività d'impresa.

Nella sua esplicazione effettiva tale onere si atteggia diversamente a seconda dello specifico oggetto della componente negativa. In molti casi, infatti, le caratteristiche documentate del costo o dell'operazione sono tali da far ritenere semplicemente evidente la correlazione tra la spesa e l'attività d'impresa.

In tal senso si spiega la giurisprudenza che distingue tra beni «normalmente necessari e strumentali» e beni «non necessari e strumentali», concludendo «nel ritenere a carico del contribuente l'onere della prova dell'inerenza solo in questa seconda evenienza» (v. Cass. n. 6548 del 27/04/2012); in realtà, nella prima ipotesi si assiste, più che una modifica dei criteri di ripartizione, ad una semplificazione dell'onere del contribuente.

Per contro, quando l'operazione posta in essere risulti complessa o anche atipica od originale rispetto alle usuali modalità di mercato, tale onere si atteggia in termini parimenti complessi: la qualificazione dell'operazione come atto d'impresa (che, per scelta o ventura, ha un coefficiente negativo) deve tradursi in elementi oggettivi suscettibili di apprezzamento in funzione del giudizio di inerenza.

4.6. L'Amministrazione finanziaria, ove ritenga gli elementi dedotti dal contribuente mancanti, insufficienti od inadeguati ovvero riscontri ulteriori circostanze di fatto tali da inficiare la validità e/o la rilevanza di quelli allegati a fondamento dell'imputazione del costo alla determinazione del reddito, può contestare la valutazione di inerenza.

Semplificando, si può dire che due (ferma la possibile variegata articolazione dei casi concreti) sono le possibili ipotesi: nel primo caso la contestazione si risolve, sostanzialmente, sulla carenza degli elementi di fatto portati dal contribuente e, dunque, sulla loro insufficienza a giustificare una positiva valutazione di inerenza. All'altro estremo, invece, l'Amministrazione adduce l'esistenza di ulteriori elementi tali da far ritenere - di per sé od in combinazione con quelli portati dal contribuente - che il costo non sia, in realtà, correlato all'attività d'impresa.

In questa prospettiva appare suscettibile di assumere rilievo anche un giudizio sulla congruità (e antieconomicità) della spesa.

4.7. L'oggetto del giudizio di congruità, a differenza di quello sull'inerenza, indica il rapporto tra lo specifico atto d'acquisto (i.e. l'atto d'impresa) di un diritto o di una utilità con la decurtazione: è un giudizio sulla proporzionalità tra il quantum corrisposto ed il vantaggio conseguito.

Nell'ambito delle imposte sui redditi, la valutazione di antieconomicità - ossia dell'evidente incongruità dell'operazione - legittima e fonda il potere dell'Amministrazione finanziaria di accertamento ex art. 39, primo comma, lett. d, d.P.R. n. 600 del 1973 (v. Cass. n. 9084 del 07/04/2017; Cass. n. 26036 del 30/12/2015), in base al principio secondo cui chiunque svolga un'attività economica dovrebbe, secondo l'id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti, sicché le condotte improntate all'eccessività di componenti negativi o all'immotivata compressione di componenti positivi di reddito sono rivelatrici di un occultamento di capacità contributiva e la spesa, in realtà, non trova giustificazione nell'esercizio dell'attività d'impresa.

Ne deriva che è configurabile un nesso tra i due giudizi su un piano strettamente probatorio: la dimostrata sproporzione assume valore sintomatico, di indice rivelatore, in ordine al fatto che il rapporto in cui il costo si inserisce è diverso ed estraneo all'attività d'impresa, ossia che l'atto, in realtà, non è correlato alla produzione ma assolve ad altre finalità e, pertanto, il requisito dell'inerenza è inesistente.

4.8. Occorre puntualizzare, invero, che, in specie per le operazioni imprenditoriali di maggiore complessità od inserite in una più lata strategia aziendale, il cui articolarsi in concreto può comportare, anche per scelta, il compimento di atti non onerosi o costi settoriali elevati, la contestazione dell'Ufficio non può tradursi in una mera "non condivisibilità della scelta" perché apparentemente lontana dai canoni di normalità del mercato, che equivarrebbe ad un sindacato sulle scelte imprenditoriali, ma deve consistere nella positiva affermazione che l'operazione, sulla base di elementi oggettivi, non si inseriva nell'attività produttiva, sì da determinare un giudizio di inerenza negativo.

L'antieconomicità del comportamento imprenditoriale, del resto, richiede da parte dell'Amministrazione finanziaria la dimostrazione dell'inattendibilità della condotta, inattendibilità che va considerata in chiave diacronica tenuto conto dei diversi indici che presiedono la stima della redditività dell'impresa (v. Cass. n. 13468 del 01/07/2015; Cass. n. 21869 del 28/10/2016), a fronte della quale spetta poi al contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate (Cass. n. 25257 del 25/10/2017).

4.9. La definizione di inerenza sopra individuata è coerente anche con la disciplina dell'Iva e, anzi, appare del tutto rispondente ai parametri desumibili dall'art. 9 della Direttiva 2006/112/CE, secondo il quale «si considera «soggetto passivo» chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un'attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività» e «si considera, in particolare, attività economica lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità».

Ben diversa, peraltro, è l'incidenza, sulla valutazione di inerenza, del giudizio di congruità, che, con affermazione consolidata da parte della Corte di Giustizia (tra le tante, Corte di Giustizia, 20 gennaio 2005, C-412/03, Hotel Scandic Gàsaback, per cui «la circostanza che un'operazione economica sia effettuata ad un prezzo superiore o inferiore al prezzo di costo, e dunque a un prezzo superiore o inferiore al prezzo normale di mercato, è irrilevante»; Corte di Giustizia, 26 aprile 2012, C-621/10 e C-129/11, Balkan; v. anche Corte di Giustizia, 9 giugno 2011, C-285/10, Campsa Estaciones de Servicio, Corte di Giustizia, 2 giugno 2016, in C-263/15, Lajvér), e ripetutamente ribadita dalla Suprema Corte (Cass. n. 22130 del 27/09/2013; Cass. n. 12502 del 04/06/2014; Cass. n. 26036 del 30/12/2015; Cass. n. 2875 del 03/02/2017; da ultimo v. Cass. n. 2240 del 30/01/2018), non condiziona, né esclude il diritto a detrazione, salvo che l'antieconomicità manifesta e macroscopica dell'operazione, e dunque esulante dal normale margine di errore di valutazione economica, sia «tale da assumere rilievo indiziario di non verità della fattura o di non inerenza della destinazione del bene o servizio all'utilizzo per operazioni assoggettate ad Iva».

Si tratta di conclusione in diretta conseguenza del carattere neutrale dell'imposta poiché anche nell'ipotesi in cui «beni e servizi siano forniti a un prezzo artificialmente basso o elevato fra parti che godono entrambe interamente del diritto a detrazione dell'Iva, non può sussistere, in tale fase, alcuna elusione o evasione fiscale. È solo a livello del consumatore finale o nel caso di un soggetto passivo misto che beneficia unicamente del diritto al prorata di detrazione, che un prezzo artificialmente basso o elevato può comportare una perdita di gettito fiscale» (Corte di Giustizia, Balkafl cit., par. 47).

La possibilità - regolata dall'art. 80, par. 1, della direttiva n. 2006/112/CEE - di considerare la base imponibile pari al valore normale dell'operazione costituisce, infatti, una eccezione alla regola generale, che va, dunque, interpretata restrittivamente (v. recentemente per un'ipotesi particolare di deroga, su espressa autorizzazione trattandosi di cessione di beni all'ultimo stadio della commercializzazione tramite persone non soggetti passivi, Corte di Giustizia, 14 dicembre 2017, C-305/16, Avon).

4.10. Anche con riguardo all'Iva, dunque, il giudizio di congruità non investe il giudizio di inerenza ma la contestazione dell'Ufficio e, specificamente, i contenuti della prova posta a suo carico, che non può essere soddisfatta adducendo la mera antieconomicità dell'operazione, di per sé priva di rilievo.

Si può dunque concludere che in materia di Iva l'onere probatorio dell'Amministrazione finanziaria, che intenda contestare la mancanza di inerenza delle operazioni compiute e fatturate dal contribuente, è, per questo profilo, aggravato, non assumendo di per sé rilievo la mera sproporzione o l'incongruenza tra costo e valore del bene o del servizio se non quando tale fantieconomicità risulti, alla luce di una complessiva valutazione, macroscopica, ossia del tutto evidente (accertamento questo che compete al giudice di merito), sì da far ritenere, in termini rivelatori e indiziari, l'operazione - al di là delle ipotesi di frode od inesistenza - non correlata all'attività d'impresa.

5. Vanno, dunque, affermati i seguenti principi di diritto:

«il principio di inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d'impresa ed esprime una correlazione tra costi ed attività d'impresa in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo» «la prova dell'inerenza di un costo quale atto d'impresa, ossia dell'esistenza e natura della spesa, dei relativi fatti giustificativi e della sua concreta destinazione alla produzione quali fatti costitutivi su cui va articolato il giudizio di inerenza, incombe sul contribuente in quanto tenuto a provare l'imponibile maturato»

«in tema di imposte dirette, l'Amministrazione finanziaria, nel negare l'inerenza di un costo per mancanza, insufficienza od inadeguatezza degli elementi dedotti dal contribuente ovvero a fronte di circostanze di fatto tali da inficiarne la validità o la rilevanza, può contestare l'incongruità e l'antieconomicità della spesa, che assumono rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi in essa; in tal caso è onere del contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell'attività d'impresa e alle scelte imprenditoriali»

«in tema di Iva, l'inerenza del costo non può essere esclusa in base ad un giudizio di congruità della spesa, salvo che l'Amministrazione finanziaria ne dimostri la macroscopica antieconomicità ed essa rilevi quale indizio dell'assenza di connessione tra costo ed l'attività d'impresa».

6. Orbene, nella vicenda in esame, la CTR ha precisato che la circostanza che il premio trovasse il suo riferimento in un accordo del 26 gennaio 2006, con cui si era «convenuto un "premio consumo" al raggiungimento di determinati scaglioni di acquisti» - ossia «inferiori a 900.000,00» - «e che la M.M. mettesse a disposizione i dati vendita degli articoli acquistati e si impegnasse a commercializzare qualsiasi articolo proposto dalla X.», lungi dal confortare la sussistenza del requisito di inerenza, evidenziava «è mancanza di certezza, congruità e giustificazione necessari ai fini della deducibilità» atteso che:

- «le asserite informazioni sui punti vendita ben potevano essere desunte dalla X. analizzando la tipologia degli acquisti effettuati, i tempi e la loro quantità al fine di verificare gli umori del mercato», così sottolineando l'oggettivo squilibrio, anche a livello sinallagmatico, tra le prestazioni;

- l'obbiettivo effettivamente perseguito dalla società era quello di evitare che la M.M., che aveva la stessa compagine sociale della X., non fallisse («appare rilevante la circostanza ammessa dalla X. che la M.M., senza la nota di credito per 460.000,00 "avrebbe subito una perdita tale da fallire" "tale interessamento ... trova il suo fondamento nel fatto che i soci di entrambe le società sono gli stessi»);

- l'operazione generava una rilevante e inspiegabile perdita («nel calcolo della marginalità Full Cost... tecnicamente corretto e che questa Commissione condivide e non contestato dalla società ... nell'ipotesi della mancanza del cliente ... a fronte del venir meno di ricavi per € 402.204,00 ci sarebbe stata una diminuzione di costi di produzione per € 704.674,23»).

6.1. Il giudizio espresso dal giudice d'appello sulla carenza di inerenza della citata componente negativa, dunque, pur ancorato agli orientamenti pregressi della Corte, non è stato tanto o solo di tipo quantitativo ma ha avuto carattere concretamente qualitativo poiché - in piena corrispondenza ai principi sopra affermati - ha posto in evidenza la sostanziale alterità della spesa, non correlata all'attività d'impresa ma a finalità ulteriori, di cui l'evidente antieconomicità (rilevata in termini obbiettivi) costituiva ulteriore e significativo indice rivelatore della mancanza di inerenza.

Tale giudizio, inoltre, è stato articolato con motivazione logica, lineare ed onnicomprensiva del complesso degli elementi in giudizio, che ha portato al conseguente apprezzamento che il riconoscimento del premio nella misura e alle condizioni accertate integrasse una anomalia priva di giustificazione economica, esclusa ogni asserita interferenza «nel merito delle scelte imprenditoriali».

6.2. Quanto al contestato mancato esame da parte della CTR della documentazione asseritamente prodotta dalla contribuente, la doglianza è inammissibile sia per totale carenza di autosufficienza (avendone omesso integralmente la riproduzione), sia per carenza di decisività, non essendo rilevante né l'effettività delle vendite, né l'esistenza di premi anche a favore di altri clienti (riconosciuti, comunque, in misura notevolmente inferiore).

7. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 108, comma 3, tuir, in relazione al rilievo n. 3, relativo alla ripresa a tassazione della deduzione, per quota annuale, del prezzo di cessione del contratto di leasing immobiliare.

7.1. La doglianza è infondata.

7.2. Occorre osservare, infatti, che, in caso di cessione anticipata di un contratto di leasing, l'acquisto, proprio per la natura del rapporto ceduto, è caratterizzato da una doppia causa: da un lato viene in rilievo l'acquisizione del diritto di godimento del bene per il periodo di durata residua del rapporto di leasing (ossia, il diritto di utilizzare il bene); dall'altro, invece, ha ad oggetto l'opzione di acquisto della proprietà del bene alla scadenza naturale (ossia il diritto di riscatto).

Il prezzo costituisce, dunque, il corrispettivo di questa duplice componente e ciascuna delle parti che lo compongono fruisce di un diverso regime fiscale: la porzione che afferisce all'acquisizione del diritto di godimento si correla ai canoni futuri e, quindi, va ripartita, con la tecnica dei risconti sulla residua durata del contratto; la porzione che afferisce, invece, all'opzione di acquisto si riferisce all'esercizio del diritto di riscatto (solo eventuale) e, quindi, potrà essere ammortizzata, unitamente al prezzo di riscatto, se e da quando verrà esercitato il suddetto diritto.

Ne deriva, in particolare, che questa seconda componente non è né certa, né riferibile agli esercizi di competenza anteriori al riscatto.

7.3. La determinazione delle singole componenti del prezzo non è espressamente disciplinata.

Il legislatore, invero, si è espressamente occupato della cessione del contratto di leasing solo con riguardo al versante del cedente: l'art. 88, ultimo comma, tuir, infatti, prevede «In caso di cessione del contratto di locazione finanziaria il valore normale del bene costituisce sopravvenienza attiva».

Inoltre, quanto al valore "normale", occorre riferirsi a quello determinabile ai sensi dell'art. 9, comma 3, tuir, ossia «il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati» e, dunque, quando sono in questione immobili, assume rilievo, in linea di massima, il prezzo di mercato.

Le posizioni del cedente e del cessionario, peraltro, rappresentano i due lati della medesima vicenda: l'esistenza di una sopravvenienza attiva condiziona necessariamente l'esistenza e l'ammontare delle quote riferibili al cessionario.

Sotto un profilo strettamente economico, infatti, il corrispettivo della cessione in questione corrisponde al valore del bene detratto l'ammontare (attualizzato) dei canoni ancora dovuti e, in ipotesi, del prezzo di riscatto.

Ne deriva, quindi, che a fronte dell'incremento di imponibile (sopravvenienza attiva) per il cedente, il cessionario, per determinare se e quale sia la quota imputabile a ciascun esercizio, non potrà che fare riferimento alla differenza tra costo da lui sostenuto (i.e. prezzo della cessione) e sopravvenienza attiva tassabile, ossia al valore "normale" netto del bene.

7.4. La CTR, nel valutare la deducibilità delle quote in oggetto, non ha violato i criteri previsti dall'art. 108 tuir ma, semplicemente, ha considerato - con accertamento in fatto in alcun modo censurato dalla contribuente - che il prezzo di cessione era notevolmente inferiore a quello normale, sicché non avrebbe potuto essere dedotto anteriormente al riscatto (eventuale).

7.5. Né, in ogni caso, il giudice d'appello ha dato preminenza, facendone diretta applicazione, alla "norma di comportamento n. 141/2000" del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, che è stata richiamata solo in via argomentativa a ulteriore suffragio, tecnico, della validità del ragionamento («in armonia con la norma di...»).

7.6. È inammissibile, infine, la richiesta di non applicazione delle sanzioni, solo irritualmente formulata nel corpo del motivo, neppure essendo censurata l'espressa statuizione, sul punto, della CTR («vanno confermate le sanzioni ...le norme di comportamento emanate dal Consiglio nazionale dei Dottori Commercialisti debbono essere applicate, caso avverso non avrebbero motivo di esistere tenuto conto che il loro scopo è di impartire corrette disposizioni per la contabilizzazione di particolari e complessi accadimenti aziendali. Non sussiste, pertanto, alcuna valida motivazione per escludere le sanzioni connesse a tale ripresa»).

8. Il quarto motivo denuncia omessa pronuncia in ordine all'errore di calcolo sulla determinazione dell'importo di € 36.500,00 (quota del corrispettivo di subentro nel contratto di leasing) di cui al rilievo n. 2.

8.1. Il motivo è inammissibile.

Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, infatti, «è inammissibile, per violazione del criterio dell'autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano "nuove" e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all'esame dei fascicoli di ufficio o di parte» (Cass. n. 17049 del 2015, rv. 636133; Cass. n. 14561 del 2012, rv. 623618).

Il ricorrente, del resto, pur affermando di aver proposto l'eccezione in entrambi i gradi di giudizio si limita, ferma la mancata riproduzione della censura, ad indicare le pagine del ricorso introduttivo quale sede ove è stata proposta l'eccezione.

8.2. Giova sottolineare, per completezza, che la CTR ha comunque escludo che «i costanti riferimenti svolti, quali motivi di appello dalla Società a quanto dedotto in primo grado, non possono trovare accoglimento per la loro genericità», statuizione in alcun modo censurata, sicché la censura è inammissibile pure per tale profilo.

9. Il quinto motivo denuncia nuovamente omessa pronuncia in ordine all'errore di calcolo sulla determinazione dell'importo ripreso a tassazione di € 16.953,73 (scorporo della quota capitale del terreno dal totale dei canoni di leasing) di cui al rilievo 2.

9.1. Il motivo presenta le medesime insufficiente e mancanze esaminate al quarto motivo, sicché è parimenti inammissibile.

10. Il ricorso, pertanto, va rigettato e le spese liquidate per soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese a favore dell'Agenzia delle entrate che liquida in complessive euro 10.500,00, oltre spese prenotate a debito.