Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 20 febbraio 2017, n. 7941

Professionista - Commercialista - Sospensione dall'esercizio della professione - Reati fiscali - Prestazioni fittizie in favore dei clienti

 

Ritenuto in fatto

 

Il Tribunale di Torino, Sezione del riesame, ha parzialmente rigettato l'appello proposto da S. V. avverso la ordinanza con la quale il Gip del Tribunale di Asti aveva, a sua volta, parzialmente respinto la istanza di revoca della misura interdittiva della sospensione dall'esercizio della professione imposta a carico del S. in quanto indagato per una pluralità di reati fiscali da lui in ipotesi commessi in qualità di consulente fiscale di una serie di imprenditori.

Giova premettere che a carico del S., il quale esercita la professione di commercialista, è stata provvisoriamente elevata una contestazione preliminare avente ad oggetto la commissione di illeciti riconducibili al paradigma degli artt. 2 ed 8 del dlgs n. 74 del 2000 che si ipotizzano essere stati da lui realizzati in concorso con numerosi suoi clienti nonché con soggetti terzi.

Il meccanismo criminoso consisterebbe, secondo l'accusa, nella predisposizione da parte di complici dei clienti del S., al fine di far conseguire a costoro un indebito vantaggio fiscale, di documenti attestanti la esecuzione di talune prestazioni fittizie in favore di detti clienti con la indicazione della data per la corresponsione dei relativi compensi ampiamente differita nel tempo, così che, per effetto del diverso regime di contabilizzazione delle uscite e delle entrate fra soggetti che svolgono un'attività imprenditoriale, per i quali si applica il regime della competenza, e soggetti che, invece, operano come privati, per i quali vige il principio di cassa, i primi possono immediatamente recuperare come perdite le somme portate dalla documentazione fittizia, mentre i secondi non sono tenuti ad indicare come entrate, e pertanto non sono assoggettati alla relativa esazione fiscale, i predetti corrispettivi in quanto ancora legittimamente non riscossi.

Nel corso delle indagini il S., dapprima attinto da misura custodiale in data 12 marzo 2013, è stato successivamente rimesso in libertà, previa trasformazione della detta misura, a decorrere dal 12 aprile 2013, in quella interdittiva del divieto di esercitare la professione per la durata di mesi 2.

In data 30 marzo 2013 il difensore del S. aveva, infatti, chiesto al competente Gip la revoca della misura interdittiva, sostenendo che:

ratione temporis, dato l'importo delle singole evasioni accertate, tale da far rientrare i reati contestati nell'ambito delle ipotesi attenuate di essi, la misura cautelare non poteva essere eseguita per la maggior parte di essi;

relativamente alle ipotesi in cui l'importo era superiore alle soglie previste per l'ipotesi attenuata, i documenti erano stati predisposti dopo la presentazione della dichiarazione dei redditi, sicché il fatto come contestato non sarebbe sussistito;

per talune ipotesi il reato si era oramai prescritto;

le fonti di prova costituite dalle intercettazioni telefoniche erano inutilizzabili in quanto i reati per cui si procedeva non le consentivano.

Il Gip del Tribunale di Asti ha revocato la misura relativamente a talune ipotesi di reato, mentre ha respinto la richiesta in relazione ad altre osservando che per esse si era formato il giudicato cautelare non avendo il ricorrente fatto ricorso avverso la misura interdittiva di fronte al giudice del riesame.

Avendo la difesa del S. proposto ricorso per cassazione avverso detto provvedimento, questa Corte, con sentenza del n. 25714 del 8 maggio 2014, ha convertito il ricorso in appello ai sensi dell'art. 310 cod. proc. pen., rimettendo gli atti al Tribunale di Torino.

Quest'ultimo, con ordinanza del 18 settembre 2014, preso atto della sopravvenuta cessazione della misura, ha dichiarato inammissibile il gravame.

Avendo nuovamente interposto ricorso per cassazione il S., la Corte, con sentenza n. 37083 del 5 maggio 2015, ha annullato l'ordinanza, rinviando gli atti al Tribunale, ritenuta la permanenza di un residuo interesse alla impugnazione.

Con la nuova ordinanza ora in scrutinio il Tribunale di Torino ha disposto la revoca della originaria misura in relazione a tutte le ipotesi di reato commesse anteriormente al 16 settembre 2011, data di abrogazione della normativa che prevedeva l'ipotesi attenuata ratione valoris degli artt. 2 e 8 del dlgs n. 74 del 2000, nelle quali l'importo delle somme fittiziamente dichiarate era inferiore alla soglia di rilevabilità cautelare della predetta ipotesi; ha, altresì, disposto la revoca della misura relativamente ad altra contestazione sul rilievo che il reato ivi indicato appariva oramai prescritto mentre la ha confermata relativamente alle residue ipotesi, osservando, fra l'atro, come, ai fini della integrazione del reato, fosse indifferente il momento in cui erano stati formati i documenti attestanti falsamente le operazioni fittizie utilizzate al fine di abbattere l'imponibile tributario e, pertanto, conseguire l'indebito vantaggio.

Ha interposto ulteriore ricorso per cassazione la difesa del S. deducendo quattro motivi di impugnazione.

Col primo di essi è contestata la sussistenza del fumus delicti in quanto la documentazione attestante la esistenza delle prestazioni ritenute fittizie i cui corrispettivi sono stati portati in detrazione non è assimilabile al concetto di fattura e comunque si trattava di documenti formati successivamente alla presentazione della dichiarazione dei redditi da parte delle società clienti dell'indagato; si tratterebbe, pertanto, di un post factum non punibile.

Come secondo motivo è contestato l'errore nella applicazione di norme di legge laddove è contestata la violazione degli artt. 2 e 8 del dlgs n. 74 del 2000 in relazione ad omissioni tributarie che sarebbero state commesse da due società aventi la forma giuridica della snc; come è noto, ha osservato il ricorrente, tali società non sono tenute al pagamento delle imposte sui redditi, uniche interessate dal dlgs n. 74 del 2000, gravando queste ultime direttamente sui singoli soci, in relazione ai quali, ripartendo fra i medesimo l'importo eventualmente evaso, ci si troverebbe anche per tali ipotesi al di sotto della soglia della ipotesi attenuata.

Col terzo motivo è stata dedotta la sproporzione della misura applicata rispetto alla gravità del fatto ipoteticamente commesso, nel quale la ordinanza del Tribunale ravvisa, in maniera del tutto illogica, la espressione di una particolare callidità dell'indagato, proprio perché lo stesso sarebbe stato contenuto entro il limiti della ipotesi penalmente attenuata.

Infine è ribadita la eccezione relativa alla inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, posto che queste erano state già disposte allorché erano stati formati i documenti attestanti le operazioni fittizie sulla base delle quali è stata ritenuta legittima la attività di captazione.

 

Considerato in diritto

 

Il ricorso è fondato e, pertanto, la ordinanza impugnata deve essere annullata.

Deve preliminarmente osservarsi che, in considerazione di quanto ritenuto da questa Corte con la sentenza n. 37083 del 2015, sebbene la misura interdittiva disposta nei confronti del S. abbia ampiamente cessato di spiegare i suoi effetti, essendo stata la stessa disposta per la durata di due mesi dal momento della sua emanazione, cioè il 12 aprile 2013, è rimasto in capo al ricorrente un apprezzabile interesse, giuridicamente rilevante, secondo le indicazioni contenute nella citata sentenza di questa Corte, a continuare a coltivare la impugnazione avverso il provvedimento con il quale il Tribunale di Torino aveva dichiarato inammissibile il ricorso presentato avverso la ordinanza con la quale il Gip di Asti, a sua volta, aveva rigettato la istanza di revoca della misura cautelare interdittiva a suo tempo disposta nei confronti dello stesso S..

Sempre in via preliminare ed in linea di principio deve rilevarsi che nella fattispecie non può dirsi formato alcun giudicato cautelare, come invece affermato dal Gip del Tribunale di Asti nel provvedimento parzialmente reiettivo della richiesta di revoca della misura applicata al S..

Infatti, secondo quanto emerge dagli atti, il S. non ha mai formulato istanza di riesame del provvedimento cautelare emesso nei suoi confronti di tal che torna del tutto pertinente quanto già in passato osservato dalla Corte in relazione alla incongruenza del richiamo al concetto di giudicato cautelare laddove sia del tutto mancata, anteriormente alla proposizione dell'appello cautelare, la introduzione della richiesta di riesame avverso la misura cautelare reale, non essendosi determinato in tal modo alcun giudicato cautelare "implicito" né alcuna preclusione alla richiesta di revoca della stessa misura per mancanza originaria delle condizioni per la sua applicabilità, anche in assenza di fatti sopravvenuti, sicché avverso il diniego della revoca sarà ammissibile la proposizione dell'appello e, in caso di perdurante reiezione del provvedimento richiesto, di ricorso per cassazione (Corte di cassazione, Sezione III penale, 31 maggio 2013, n 23641).

Tanto premesso rileva la Corte che, essendo stata provvisoriamente contestata al ricorrente la violazione dell'art. 2 del dPR n. 74 del 2000, la struttura del reato in questione presuppone che l'agente, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indichi in una delle dichiarazioni annuali relative alle dette imposte elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti.

Osserva a tale proposito il Collegio che il legislatore, attraverso l'utilizzo della espressione lessicale "avvalendosi", ha espressamente previsto che la falsità del contenuto della dichiarazione fiscale sia documentalmente sostenuta dall'avvalimento, realizzato evidentemente attraverso la indicazione nella dichiarazione dei rediti delle derivanti poste passive, di note contabili, cioè fatture od altri atti assimilabili, attestanti l'esistenza di costi deducibili in realtà insussistenti in quanto insussistenti sono le operazioni economiche risultanti dagli atti di cui sopra e dalla loro registrazione nelle scritture contabili o dalla loro conservazione da parte dell'agente a fini probatori.

Poco importando che la falsità dei documenti in questione sia di carattere ideologico ovvero materiale (Corte di cassazione, Sezione III penale, 19 gennaio 2012, n. 2156), distinzione questa da riconnettersi alla evenienza se la fittizietà delle operazioni sia assoluta (non essendo esse mai stata posta in essere alcuna operazione e, pertanto, rappresentando la documentazione de qua il sostegno probatorio di una situazione del tutto non rispondente al vero), ovvero sia meramente quantitativa (circostanza che si può verificare nel caso in cui la operazione sia effettivamente intervenuta e per essa sia stata rilasciata regolare fattura, il cui contenuto sia stato, però, modificato ad opera del committente, aumentandone indebitamente gli importi, di tal che la operazione, pur esistente, sarebbe stata, se correttamente ne fossero stati indicati gli relativi oneri finanziari, tale da comportare costi inferiori rispetto a quelli dichiarati), ciò che tuttavia è necessario ai fini della realizzazione del reato è che l'agente, cioè il dichiarante, si avvalga effettivamente di tale documentazione falsa, in ciò, appunto, consistendo l'avvalimento richiesto A /\ f dalla disposizione incriminatrice.

Come in altre occasioni questa Corte ha, infatti, avuto modo di chiarire, il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti di cui all'art. 2 dlgs n. 74 del 2000, è integrato dalla registrazione in contabilità delle false fatture o dalla loro conservazione ai fini di prova, nonché dall'inserimento nella dichiarazione d'imposta dei corrispondenti elementi fittizi, condotte queste ultime tutte congiuntamente necessarie ai fini della punibilità (Corte di cassazione, Sezione III penale, 18 aprile 2012, n. 14855), così come era stato già in precedenza precisato che ai fini della configurabilità del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti occorre, da un lato, che la dichiarazione fiscale contenga effettivamente l'indicazione di elementi passivi fittizi e, dall'altro, che le fatture false siano conservate nei registri contabili o nella documentazione fiscale dell'azienda, in ciò identificandosi, appunto, la condotta di "avvalersi" delle fatture, normativamente richiesta ai fini della commissione del reato (Corte di cassazione, Sezione, III penale, 9 aprile 2008, n. 14718).

Conseguenza ineludibile di tale principio è che, affinché il reato di realizzi è necessario che la documentazione fiscale falsa preesista, quanto meno, alla presentazione della dichiarazione fraudolentemente formata.

Di ciò è ulteriore indice sistematico il rilievo, più volte operato dalla Corte, secondo il quale il momento consumativo della frode in questione è ricavabile in funzione del momento in cui viene presentata ai competenti uffici tributari la dichiarazione contenente i dati mendaci (Corte di cassazione, Sezione feriale, 29 agosto 2013, n. 35729; idem Sezione III penale, 20 ottobre 2008, n. 39176).

Se, viceversa si ritenesse, come parrebbe ritenere il Tribunale di Torino, che la formazione della documentazione relativa alle operazioni inesistenti possa intervenire anche in un momento successivo alla presentazione della dichiarazione tributaria, si assisterebbe al singolare fenomeno di un reato, già perfetto, ancorché esso sia tuttora mancante di uno degli elementi di fatto essenziali per la sua realizzazione.

Sotto il profilo descritto, pertanto, risulta viziata con riferimento alla violazione di legge la ordinanza del Tribunale subalpino in cui, relativamente alla riconducibilità della condotta del ricorrente, sia pure limitatamente alla ravvisabilità del fumus commissi delieti, al paradigma normativo del reato di cui all'art. 2 del dlgs n. 74 del 2000, si legge che non inciderebbe sulla sussistenza del reato de quo il fatto che i documenti di costo sarebbero stati formati successivamente alla presentazione delle dichiarazioni dei redditi cui gli stessi si riferiscono.

Analogo ragionamento vale anche per ciò che attiene alla contestazione avente ad oggetto la violazione dell'art. 8 del citato dlgs n. 74 del 2000; invero, anche con riferimento a detta imputazione la motivazione della ordinanza del Tribunale di Torino è del tutto priva di motivazione, vizio questo ridondante quale violazione di legge, in relazione alla integrazione del reato de quo pur essendo, in ipotesi, stata formata la documentazione relativa ad operazioni inesistenti successivamente alla presentazione della dichiarazione tributaria in cui i relativi costi sarebbero stata portati in deduzione.

Quanto sopra a prescindere dalla problematica contestabilità ad uno stesso soggetto, laddove non abbia di mano propria, sia pure rivestendo qualifiche distinte, realizzato le condotte riferibili ad ambedue le tipologie di illeciti ora ascritti al S., sia della violazione dell'art. 2 che di quella dell'art. 8 del dlgs n. 74 del 2000.

La ordinanza impugnata deve, pertanto, essere annullata con rinvio al Tribunale di Torino che, in diversa composizione, riesaminerà, applicando gli esposti principi, la sussistenza, ora per allora, degli elementi giustificativi la conservazione della misura cautelare a carico dell'attuale ricorrente.

 

P.Q.M.

 

Annulla la ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Torino.