Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 27 ottobre 2016, n. 21710

Lavoro - Mansioni - Responsabile del call center - Subordinazione - Criteri - Onere della prova - Licenziamento orale - Efficacia

Svolgimento del processo

 

Con sentenza n. 9399/2013, depositata il 25/11/2013, la Corte di appello di Roma, in parziale accoglimento del gravame proposto da F. A. ed in riforma della sentenza del Tribunale di Roma, accertava la natura subordinata del rapporto intercorso fra l'appellante e le società Credit Gest s.r.l. e Gene.s.i. Tel. s.r.l. a decorrere dal luglio 2005; dichiarava inoltre l'inefficacia del licenziamento intimato oralmente allo stesso, con le pronunce conseguenti.

La Corte osservava, per quanto di interesse, che solo a partire dal luglio 2005, quando l'appellante aveva cominciato a svolgere le mansioni di responsabile del call center, in sostituzione di una dipendente licenziata, potevano dirsi presenti nel rapporto gli elementi della subordinazione, secondo le risultanze delle deposizioni testimoniali e della documentazione prodotta; né la subordinazione poteva essere esclusa, da un lato, per il solo fatto che non fosse risultato provato l'esercizio del potere disciplinare, il quale dipende dalla sussistenza di un inadempimento (nella specie neppure prospettato) idoneo a giustificarlo, e, dall'altro, perché non sarebbe emerso un controllo quotidiano e costante da parte del datore di lavoro, ben potendo questo manifestarsi attraverso indicazioni generali di carattere programmatico, allorquando - come nel caso concreto - il lavoratore assuma la responsabilità di una filiale o di una dipendenza dell'azienda.

Hanno proposto ricorso per la cassazione della sentenza le società Credit Gest s.r.l. e Gene.s.i. Tel s.r.l. in liquidazione, affidandosi a due motivi; il lavoratore ha resistito con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo le ricorrenti, deducendo violazione dell'art. 2094 c.c. e vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per avere la Corte territoriale ignorato, nella qualificazione del rapporto come di lavoro subordinato, i presupposti necessari del relativo vincolo e comunque seguito un percorso argomentativo caratterizzato da insufficiente esame di punti decisivi della controversia e da profili di manifesta illogicità e contraddittorietà.

Il motivo non può essere accolto.

Esso, infatti, nella parte in cui vi si lamentano carenze motivazionali (sotto il profilo della completezza, coerenza e logicità del ragionamento decisorio seguito dalla Corte), non si conforma allo schema normativo del nuovo art. 360 n. 5 c.p.c., quale risultante dalla modifica introdotta con il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito in I. 7 agosto 2012, n. 134, pur in presenza di sentenza di secondo grado depositata in data 25/11/2013 e, pertanto, in data posteriore all'entrata in vigore della novella legislativa (11 settembre 2012).

Come precisato da questa Corte a Sezioni Unite con le sentenze 7 aprile 2014 n. 8053 e n. 8054, l'art. 360 n. 5, così come riformulato, introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Il motivo non può essere accolto neppure nella parte in cui viene dedotto, in relazione all'art. 2094 c.c., il vizio di violazione di legge.

A proposito della subordinazione del rapporto, a decorrere dal luglio 2005, il giudice del merito ha invero posto in rilievo, sulla base di una valutazione diffusa e analitica del materiale di prova acquisito al giudizio, come l'appellante, nella posizione di nuovo responsabile del call center, fosse presente tutti i giorni in ufficio e rispettasse un orario di lavoro (più lungo rispetto a quello degli altri operatori, essendo già in servizio al momento dell'avvio dell'attività e trattenendosi anche quando i dipendenti avevano terminato la loro prestazione: cfr. sentenza impugnata, p. 9); come riferisse, anche in dettaglio, circa l'attività svolta e ricevesse direttive sulla chiusura del call center, sugli orari da rispettare, sulle strategie da seguire nell'attività di recupero; come, in sintesi, egli avesse operato quale responsabile della struttura, attenendosi alle direttive che gli venivano di volta in volta impartite, e ciò sino alla nomina del nuovo responsabile (cfr. ancora sentenza, p. 10).

Sulla base di tali premesse, la Corte ha rilevato che la natura subordinata del rapporto non poteva essere esclusa per il solo fatto che non fosse risultato provato l'esercizio del potere disciplinare, in assenza di un qualsiasi comportamento inadempiente da parte del lavoratore, e per il fatto che non sarebbe emerso un controllo quotidiano e costante da parte del datore di lavoro, dovendosi considerare che, allorquando, come nella specie, il lavoratore assuma la responsabilità di una filiale o di una dipendenza, il potere datoriale di direzione ben può manifestarsi non in ordini e controlli continui e pervasivi bensì attraverso l'emanazione di indicazioni generali e programmatiche.

Ciò posto, è da ritenere che la sentenza si sia attenuta a consolidati principi di diritto.

Come, infatti, più volte precisato da questa Corte, "in tema di differenziazione tra lavoro autonomo e subordinato, la mancata manifestazione del potere disciplinare può costituire indice sintomatico dell'autonomia del lavoro solo se significativa di una esclusione del potere stesso in linea di principio, ma non quando esso non sia stato semplicemente esercitato in concreto per l'assenza di fatti rilevanti sul piano disciplinare" (Cass. n. 5411/1999; conforme n. 13452/2000).

E', inoltre, consolidato l'orientamento, secondo il quale "in tema di distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, l’esistenza del vincolo di subordinazione va valutata dal giudice di merito - il cui accertamento è censurabile in sede di legittimità quanto all'individuazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre si sottrae al sindacato, se sorretta da motivazione adeguata e immune da vizi logici, la valutazione delle risultanze processuali - avuto riguardo alla specificità dell'incarico conferito al lavoratore ed al modo della sua attuazione, fermo restando che, ove l'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari - come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario predeterminato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell'assenza in capo al lavoratore di. una sia pur minima struttura imprenditoriale - che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione" (Cass. n. 9256/2009).

Con il secondo motivo le società ricorrenti, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 421, co. 2°, c.p.c. in relazione all'art. 360 n. 4 c.p.c., lamentano che la Corte non abbia esercitato i propri poteri istruttori d'ufficio e che, in particolare, non abbia consentito che la teste Del Grosso, citata dall'appellante, fosse interrogata anche a controprova sui capitoli dedotti dalle controparti.

Anche il motivo in esame non può trovare accoglimento.

Ed invero "nel processo del lavoro, l'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio in grado d'appello presuppone la ricorrenza di alcune circostanze: l'insussistenza di colpevole inerzia della parte interessata, con conseguente preclusione per inottemperanza ad oneri procedurali, l'opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti, l'indispensabilità dell'iniziativa ufficiosa, volta non a superare gli effetti inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria totale sui fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa. Non ricorrono, pertanto, i suddetti presupposti, allorché la parte sia incorsa in decadenze per la tardiva costituzione in giudizio in primo grado e non sussista, quindi, alcun elemento, già acquisito al processo, tale da poter offrire lo spunto per integrare il quadro probatorio già tempestivamente delineato" (Cass. n. 5878/2011; conforme n. 154/2006).

Ora, è da escludere che il giudice del merito sia incorso nel vizio denunciato, sia in quanto le società ricorrenti, con ordinanza pronunciata all'udienza del 13/2/2013, sono state dichiarate decadute dalla prova contraria; sia in quanto, essendo stata omessa la trascrizione nel ricorso dei capitoli su cui la teste avrebbe dovuto rispondere, non vi è dimostrazione della eventuale indispensabilità dell'invocata iniziativa officiosa.

Il ricorso deve, pertanto, essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna le ricorrenti in solido al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del co. 1 bis dello stesso articolo 13.