Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 27 febbraio 2018, n. 8995

Reati tributari - Omesso versamento di ritenute dovute e certificate - Sequestro preventivo diretto finalizzato alla confisca su somme presenti sul conto corrente intestato al concordato preventivo - Esclusione

 

Ritenuto in fatto

 

1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha proposto ricorso avverso la ordinanza del Tribunale medesimo in data 13/04/2017 che, in accoglimento della relativa richiesta di riesame, ha disposto l'annullamento del decreto di sequestro preventivo diretto finalizzato alla confisca della somma di denaro di euro 365.274,24 del G.i.p. dello stesso Tribunale per i reati di cui agli artt. 10 bis del d.lgs. n. 74 del 2000 in relazione al mancato versamento, da parte di B.G., quale legale rappresentante per l'anno 2013, e M.G. quale liquidatore per l'anno 2014, della "E.P. s.r.l.", delle ritenute dovute o risultanti dalla certificazione rilasciate ai sostituiti, sequestro eseguito sulle somme presenti sul conto corrente intestato al concordato preventivo.

2. Con un unico complessivo motivo lamenta la violazione degli artt. 321 cod. proc. pen.e 322 ter cod. pen. in relazione all'art. 10 bis del d.lgs. n. 74 del 2000 e 1, comma 143, della I. n. 244 del 2007 nonché 168 legge fall.

In particolare deduce, a fronte della ritenuta, dal Tribunale, impossibilità per il liquidatore di versare le ritenute stante il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive ex art. 168 legge fall., che mentre il liquidatore rientra per legge tra i sostituti d'imposta obbligati al versamento, il divieto di cui all'art. 168 cit. è rivolto ai soli creditori. Con riferimento poi al mancato versamento da parte del legale rappresentante e alla ritenuta non sequestrabilità delle somme in realtà nella esclusiva disponibilità della procedura concordataria e non della società, deduce che le somme oggetto di profitto rappresentate dal risparmio di spesa, in quanto assoggettabili a confisca diretta senza necessità di una derivazione dal reato, pur giacenti su un conto corrente intestato alla procedura concordataria, sono entrate nella piena disponibilità della società; inoltre il Tribunale non avrebbe considerato che, a differenza del fallimento, il concordato preventivo omologato non spossessa il debitore, ammesso alla procedura, della titolarità e gestione del suo patrimonio, con conseguente ulteriore titolarità delle somme in capo alla società. Aggiunge, anche richiamando la sentenza n. 11170 del 2015 di questa Corte, come la procedura concordataria abbia natura privatistica e come su di essa prevalga il sequestro preventivo anche a fronte del rilievo pubblicistico dell'obbligo di versamento. Successivamente, la Difesa degli indagati ha presentato memoria con cui si chiede dichiararsi inammissibile o comunque manifestamente infondato il ricorso del P.M. o in subordine sollevarsi questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 bis cit. in relazione all'art. 3 Cost.

1. Il ricorso è infondato.

Quanto anzitutto alla contrastata, in ricorso, ritenuta inconfigurabilità di addebito nei confronti del liquidatore della società M., il ricorrente muove dalla generale disposizione dell'art. 64, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973 che individua il sostituto d'imposta (soggetto attivo del reato di cui all'art. 10 bis cit.) in colui che, in forza di disposizioni di legge, è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri, per fatti o situazioni a questi riferibili ed anche a titolo di acconto".

Ora, se la generale dizione di tale norma non può certamente escludere che anche il liquidatore possa rivestire, in forza delle incombenze di legge a lui facenti carico, tra cui l'obbligo di pagamento delle imposte, la "qualifica" di sostituto d'imposta, devono d'altra parte considerarsi le delimitazioni desumibili dall'art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973 che hanno già portato questa Corte a stabilire che il liquidatore di società risponde del delitto di omesso versamento delle ritenute certificate, previsto dall'art. 10-bis del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non per il mero fatto del mancato pagamento, con le attività di liquidazione, delle imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori, ma solo qualora distragga l'attivo della società in liquidazione dal fine di pagamento delle imposte e lo destini a scopi differenti (Sez. 3, n. 21987 del 28/04/2016, dep. 26/05/2016, Bareato, Rv. 267337).

In tale pronuncia, citata anche in ricorso ma conducente, in realtà, come esattamente osservato in memoria dai difensori degli indagati, ad esiti opposti a quelli invocati, si é infatti affermato che, proprio considerando le limitazioni dall'art. 36 del d.P.R. 602 del 1973, la responsabilità in proprio del liquidatore sussiste, da un lato, con il solo riguardo alle imposte dovute per il periodo della liquidazione e per quelle anteriori, e, dall'altro, solo qualora egli non provi di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all'assegnazione di beni ai soci e creditori ovvero di aver soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari; sicché, in definitiva, la responsabilità per il suddetto reato si configura se i soggetti preposti alla liquidazione distraggano l'attivo della società finalizzato al pagamento delle imposte e lo destinino a scopi differenti, ma non deriva, invece, dal mero inadempimento fiscale; si è posta inoltre in evidenza l'irragionevolezza di una diversa lettura della norma che porterebbe alla illogica conseguenza della imposizione al liquidatore, da un lato, dell’obbligo di osservare un ordine gerarchico nell'assolvimento delle posizioni debitorie - tra le quali rientrano anche quelle fiscali - e, dall'altro, della previsione di responsabilità nel caso in cui l'osservanza di tale criterio di riparto abbia comportato la non volontaria omissione del versamento delle ritenute. Né la norma citata, come ugualmente già precisato, può essere ricondotta in un ambito esclusivamente civilistico, avendo invece una diretta incidenza in ordine alla configurabilità del reato in caso di insussistenza dei presupposti limitativi della responsabilità dei liquidatori individuati dal più volte ricordato art. 36.

Ed allora, deve ritenersi corretta, sulla base di detto principio, la conclusione della inconfigurabilità del reato, anche solo a livello di fumus, cui è comunque giunta l'ordinanza impugnata; e ciò, non tanto perché la mera domanda di ammissione al concordato poteva in sé porre al liquidatore il divieto di effettuare il versamento delle ritenute per effetto di quanto previsto dall'art. 168 legge fall., giacché, come già specificato da questa Sezione, l'elemento discriminante dovrebbe essere individuato, semmai, in quello di ammissione al concordato (Sez. 3, n. 3541 del 16/12/2015, dep. 27/01/2016, Faranda, Rv. 265937; Sez. 3, n. 15853 del 12/03/2015, dep. 16/04/2015, Fantini, Rv. 263436) o, addirittura, in quello della omologazione dello stesso (Sez. 3, n. 6591 del 26/10/2016, dep. 13/02/2017, P.M. in proc. Taccone, Rv. 269146), momenti, nella specie, entrambi successivi alla scadenza del 21/09/2015 stabilita per il versamento, quanto perché, a fronte di disponibilità liquide della società sussistenti al momento della presentazione della domanda di ammissione al concordato e all'intervento del liquidatore ed ammontanti, come risultante dall'ordinanza impugnata, a soli euro 5.141,74, nonché a fronte della esistenza di crediti di grado anteriore superiori a tale importo come partitamente elencati a pag. 7 dell'ordinanza impugnata, il mancato versamento / dell'imposta non sarebbe stato comunque addebitabile al liquidatore, responsabile appunto nei soli limiti già indicati sopra.

Va peraltro aggiunto che, anche ove l'impostazione qui ribadita non fosse condivisibile, e dunque fossero ravvisabili elementi indicativi del fumus dell'addebito contestato, il ricorso sarebbe comunque infondato, posto che, come subito oltre si dirà, alle somme di denaro oggetto dell'intervenuto sequestro non potrebbe comunque riconoscersi la natura di profitto del reato.

2. Ed infatti, venendo al ricorso proposto con riferimento all'annullamento del sequestro per quanto riguardante l'addebito mosso al legale rappresentante della società, che in tesi accusatoria si sarebbe perfezionato in data 19/09/2014 (e dunque ancor prima che vi fosse la presentazione di domanda di ammissione al concordato), è incontroverso che la misura abbia attinto somme presenti sul conto corrente intestato al concordato preventivo e, più in particolare, la somma di euro 365.274,00 non sussistente al momento della scadenza del 19/09/2014 già indicata sopra, bensì ivi solo successivamente (e più precisamente in data 27/01/2017 come ricavabile dagli atti) riversata da terzi (si veda sul punto pag.7 dell'ordinanza impugnata) in esecuzione del concordato preventivo.

Ora, è esatto, come ricordato dal P.M. ricorrente, che questa Corte a Sezioni Unite ha affermato che ove il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (Sez. Un., n. 10561 del 30/01/2014, dep. 05/03/2014, Gubert, Rv. 258647 nonché Sez. Un., n. 31617 del 26/06/2015, dep. 21/07/2015, Lucci, Rv. 264437); e ciò, implicitamente, proprio perché la natura fungibile del bene, che, come sottolineato dalle Sezioni Unite Lucci, si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell'autore del fatto, ed è tale da perdere - per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo - qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica, rende superfluo accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell'illecito sia stata spesa, occultata o investita; "ciò che rileva", proseguono le Sezioni Unite, è che "le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo".

Ma, proprio in ragione di ciò, ed in senso esattamente corrispondente, seppure a contrario, al principio enunciato dalle Sezioni Unite, ove si abbia invece la prova che tali somme non possano proprio in alcun modo derivare dal reato (come appunto nel caso in cui le stesse, come nella specie, siano corrispondenti a rimesse effettuate da terzi successivamente alla scadenza del termine per il versamento delle ritenute in esecuzione del concordato preventivo), di talché le stesse neppure possono, evidentemente, rappresentare il risultato della mancata decurtazione del patrimonio quale conseguenza del mancato versamento delle imposte (ovvero, in altri termini del "risparmio di imposta" nel quale la giurisprudenza ha costantemente identificato il profitto dei reati tributari), le stesse non sono sottoponibili a sequestro difettando in esse la caratteristica di profitto, pur sempre necessaria per potere procedere, in base alle definizioni e ai principi di carattere generale, ad un sequestro, come quello di specie, in via diretta.

E ciò, a maggior ragione ove le somme siano rinvenute, in connessione con la stessa ragione della loro corresponsione, in un conto corrente intestato non già alla Società, bensì al concordato preventivo.

3. Il ricorso va dunque rigettato.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso del P.M.