Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 08 novembre 2017, n. 26469

Pubblico impiego - Dirigente statale - Revoca dell'incarico ex art. 19, co. 8, D.Lgs. n. 165/2001 - Diritto del dirigente al ripristino dell'incarico - Sopravvenuta pronuncia di illegittimità costituzionale delle norme disciplinatrici del cd. spoil system - Reintegra nell'incarico per il tempo residuo di durata - Indisponibilità del posto a seguito della riforma organizzativa dell'amministrazione sopravvenuta - Irrilevante - Situazione esaurita come limite all'efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità - Non sussiste

 

Rilevato

 

che il dott. F.L.C., dirigente statale di seconda fascia, già destinatario di un incarico triennale per lo svolgimento di funzioni di dirigente generale, in data 30.4.2001 otteneva la proroga dell'incarico fino al 31 agosto 2005; tuttavia, a seguito dell'entrata in vigore della legge 15 luglio 2002 n. 145, con nota del 12 agosto 2002 veniva dichiarato decaduto dall'incarico, che veniva conferito in via temporanea al dott. C.C.; in data 11 ottobre 2002 gli veniva conferito un incarico di studio relativo alla gestione della Biblioteca centrale di documentazione ambientale, ma il relativo contratto non veniva sottoscritto; rientrato a tutti gli effetti nella posizione di dirigente di seconda fascia, in data 23 giugno 2003 chiedeva ed otteneva la trasformazione del proprio rapporto lavoro da tempo pieno a tempo parziale verticale a decorrere dal 1° ottobre 2003; dal settembre 2005 richiedeva ed otteneva di essere collocato in aspettativa non retribuita; che il L.C. adiva il Giudice del lavoro per chiedere la reintegra nelle funzioni, nella posizione giuridica e nel trattamento economico propri dell'incarico illegittimamente revocato o in altro equivalente e la condanna del Ministero a corrispondergli le differenze retributive a partire dal 12.8.2002 fino al reintegro nella misura di € 303.963,48 oltre accessori, nonché a risarcirgli i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per l'illegittima rimozione dall'incarico;

che con sentenza del 26.1.2005 il Tribunale di Roma riteneva legittima la revoca dell'incarico ai sensi dell'art. 19, comma 8, d.lgs. n. 165/2001, come modificato dall'art. 3, comma 1, lett. I), L. n. 145/2002, ma illegittima la condotta posta in essere dall'Amministrazione per non avere dimostrato l'impossibilità della riassegnazione dell'incarico ad esso ricorrente ovvero l'impossibilità dell'assegnazione di altro incarico equivalente e, per tale titolo, riconosceva in favore del L.C. il risarcimento dei danni nella misura di € 89.531,33, pari alle differenze retributive tra il trattamento economico di dirigente di prima fascia e quello percepito di seconda fascia, ulteriormente ridotte del 50% a decorrere dal 1° ottobre 2003, data del richiesto part-time, per il periodo complessivo di due anni corrispondente alla durata minima - e dunque certa - dell'incarico dirigenziale, ai sensi dell'art. 10, comma 2, d.lgs. n. 165/01;

che, pronunciando sulle opposte impugnazioni, la Corte di appello di Roma, con sentenza non definitiva n. 9228/08, in parziale riforma della sentenza impugnata: a) dichiarava il diritto del L.C. a svolgere l'incarico di Direttore del Servizio per lo Sviluppo Sostenibile presso il predetto Ministero, o altro incarico equivalente, per la durata corrispondente a quella che residuava sino alla scadenza naturale dell'incarico medesimo; b) condannava altresì il Ministero al risarcimento dei danni in misura corrispondente alle differenze tra i compensi previsti per l'incarico illegittimamente interrotto il 12 agosto 2002 e quelli di fatto percepiti, limitatamente al periodo che residuava sino alla scadenza naturale dell'incarico dirigenziale;

che la Corte territoriale così motivava, in estrema sintesi, tale decisione:

- con la sentenza impugnata il primo Giudice aveva ritenuto legittima la revoca dell'incarico dirigenziale, ma successivamente era intervenuta la sentenza n. 103 del 2007 della Corte costituzionale che aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, L. n. 145/2002; tale pronuncia, avente effetto retroattivo, aveva inficiato sin dall'origine la validità e l'efficacia della predetta norma, con conseguente sopravvenuta illegittimità della automatica cessazione del ricorrente dall'incarico e la reviviscenza dell'originario rapporto contrattuale con l'Amministrazione;

- inoltre, anche successivamente alla cessazione ex lege dell'incarico, il Ministero non aveva agito secondo correttezza e buona fede, in quanto non aveva dimostrato l'impossibilità del ripristino dell'incarico dirigenziale al momento della risoluzione ex lege dello stesso, non avendo spiegato le ragioni per le quali aveva ritenuto di riassegnare solo cinque dei sei incarichi dirigenziali disponibili e le ragioni per le quali il medesimo incarico era stato assegnato ad interim ad altro dirigente; non aveva neppure spiegato perché aveva ritenuto di non attribuire al L.C. un incarico di livello equivalente (art. 3, comma 7, I. n. 145/02), stante la genericità delle allegazioni circa tale impossibilità asseritamente derivante dall'entrata in vigore del regolamento di riorganizzazione degli uffici di livello dirigenziale; in conclusione, l'Amministrazione non aveva allegato né dimostrato fatti idonei a provare la non imputabilità delle conseguenze dannose provocate dalla propria condotta;

- alla stregua di tali premesse, il L.C. aveva diritto: a) all'adempimento in forma specifica (art. 2058 c.c.) del contratto di lavoro illegittimamente cessato il 12 agosto 2002 mediante reintegra nelle funzioni, nella posizione giuridica e nel trattamento economico propri dell'incarico revocato ovvero all'attribuzione di un incarico equivalente, per il tempo residuo fino alla pattuita scadenza, precisandosi tuttavia che tale condanna all'adempimento in forma specifica non è equiparabile all'ordine di reintegrazione di cui all'art. 18 L. n. 300/70; b) a percepire, a titolo risarcitorio, una somma corrispondente alle differenze tra i compensi previsti per l'incarico illegittimamente interrotto e quelli di fatto percepiti limitatamente al periodo che residuava fino a scadenza naturale dell'incarico dirigenziale, occorrendo la prosecuzione del giudizio per la determinazione del quantum e per la pronuncia in ordine alle restanti pretese risarcitorie formulate dal ricorrente;

che con sentenza definitiva n. 10464/2010 la Corte di appello di Roma: a) condannava il Ministero dell'Ambiente a pagare al dirigente la complessiva somma di € 233.004,30 per il titolo di cui la sentenza non definitiva, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalle singole scadenze al saldo, da determinarsi tenendo conto dei pagamenti parziali eseguiti dal Ministero in esecuzione della sentenza di primo grado e della citata sentenza non definitiva; b) condannava altresì il Ministero al pagamento, a titolo di risarcimento del danno professionale, di una somma di importo pari all'indennità di posizione dir. gen. (colonna 4 della tabella 1 della c.t.u. contabile) per il periodo 12.8.2002-31.8.2005, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalle singole scadenze al saldo; c) rigettava ogni altra domanda risarcitoria;

che la Corte territoriale osservava che la sentenza non definitiva aveva già pronunciato condanna generica del Ministero al pagamento delle differenze tra i compensi previsti per l'incarico illegittimamente interrotto e quelli di fatto percepiti dal dirigente per il periodo che residuava sino al 31 agosto 2005; la c.t.u. contabile aveva quantificato tale differenza in € 233.004,30, tenendo conto sia degli importi corrisposti in tale arco temporale dal Ministero sia degli importi percepiti dal L.C. nello stesso periodo per attività lavorativa prestata in via continuativa in favore di terzi, detraibili a titolo di aliunde perceptum in applicazione del principio della compensano lucri cum damno;

che sussisteva il danno alla professionalità e alla personalità morale, da desumersi anche in via presuntiva dagli elementi di fatto relativi alla quantità e qualità dell'esperienza lavorativa pregressa, dalla durata del periodo della sostanziale inattività; né il Ministero aveva esplicitato e provato, come invece era suo onere, le ragioni che non consentivano di riassegnare al L.C. il medesimo incarico o un incarico equivalente ed aveva così posto in essere una condotta "senz'altro contraria ai doveri di correttezza e buona fede"; che, occorrendo provvedere alla liquidazione equitativa di tali danni ai sensi dell'art. 1226 c.c., considerati la natura del demansionamento professionale, la sua entità e le sue modalità, la natura delle mansioni in questione, ma pure il fatto che comunque attraverso il risarcimento in forma specifica il ricorrente aveva conseguito la possibilità di esercitare nuove funzioni dirigenziali di prima fascia e quindi di reintegrare almeno in parte la professionalità perduta, per una congrua parametrazione poteva farsi riferimento all'indennità di posizione prevista per il dirigente generale, che costituisce un significativo elemento sintomatico del "valore" economico che l'Amministrazione riconosce allo svolgimento della funzione negata, e ciò per il periodo che residua sino alla scadenza del contratto di incarico dirigenziale, tenuto conto del disposto di cui la sentenza non definitiva nonché la circostanza che il L.C. aveva volontariamente chiesto di essere collocato in aspettativa non retribuita nel periodo successivo al 31 agosto 2005;

che, quanto al danno biologico, non vi era prova dell'effettiva sussistenza di un pregiudizio alla salute eziologicamente riconducibile al l'illegittima condotta datoriale, in quanto nell'unica certificazione medica prodotta risalente al 23 dicembre 2003 era attestato solo un "sospetto stress occupazionale";

che il presunto danno esistenziale, incidente sul "fare non reddituale" della persona, era del pari carente delle necessarie allegazioni, poiché nel ricorso introduttivo erano presenti "solo formule standardizzate, suscettibili di essere utilizzate in qualsiasi altra analoga fattispecie e prive di concreti riferimenti a specifica vicenda"; peraltro, il L.C. aveva reperito nel 2003 un incarico presso l'O. di Palermo, Scuola di Alta Formazione Ambientale, e nel 2004 un incarico di insegnamento presso l'Università Roma Tre, il che confermava l'assenza di "apprezzabili negative incidenze sulle occasioni di espressione e realizzazione della personalità nel mondo esterno";

che, quanto al mancato passaggio dalla seconda alla prima fascia dirigenziale ai sensi dell'art. 23, comma 1, I. n. 145/02, si verteva in ipotesi di mera perdita di chance e nulla poteva essere riconosciuto, considerato che il L.C. aveva comunque ottenuto "il trattamento economico del dirigente di prima fascia dalla data della illegittima privazione dell'incarico al termine di naturale scadenza del medesimo" e che, per effetto del risarcimento in forma specifica, aveva inoltre conseguito la possibilità di espletare l'incarico di prima fascia per il periodo prescritto, con possibilità, in caso di esito positivo, di transitare definitivamente in tale fascia;

che avverso tale sentenza il Ministero dell'Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare ha proposto ricorso affidato a quattro motivi;

che resiste con controricorso L.C.F., il quale ha proposto a sua volta ricorso incidentale affidato a due motivi quanto alla sentenza non definitiva e a sette motivi quanto alla sentenza definitiva; a tale ricorso incidentale ha resistito il Ministero con controricorso; che il L.C. ha riproposto i medesimi motivi di impugnazione anche a mezzo di ricorso autonomo;

 

Considerato

 

che preliminarmente vanno riuniti ex art. 335 c.p.c. i due ricorsi principali e quello incidentale, aventi ad oggetto le medesime sentenze (non definitiva e definitiva) emesse dalla Corte di appello di Roma;

che la proposizione di plurime impugnazioni per cassazione avverso una stessa sentenza implica che ognuna di quelle successiva alla prima si converte, indipendentemente dalla forma assunta ed ancorché promossa con atto a sé stante, in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c. (Cass. n.n. 5695 e 18696 del 2015; 2516 del 2016); che sono ammissibili, in quanto tempestivi, tanto il ricorso incidentale, quanto il ricorso autonomo proposti dal L.C.;

che con il primo motivo il Ministero, denunciando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 101, 102 c.p.c.e art. 111 Cost., nullità dell'intero giudizio e delle sentenze della Corte d'appello per violazione del principio del contraddittorio, deduce che in un giudizio promosso da un dipendente nei confronti della sola amministrazione statale datrice di lavoro per ottenere, tra l'altro, la reintegrazione in incarico di livello dirigenziale generale (o in altro equivalente) rivestono la qualità di litisconsorti necessari il dipendente al quale l'incarico medesimo, oggetto della revoca, è stato conferito e gli altri titolari di incarichi di funzione di livello dirigenziale generale; pertanto, è nulla la sentenza di appello che ha accolto la domanda senza estendere il contraddittorio nei confronti di tali soggetti; che con il secondo motivo l'Amministrazione denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043 e 1218 c.c. per avere la Corte di appello ravvisato un inadempimento contrattuale imputabile ex art. 1218 c.c., con conseguente obbligo in capo all'Amministrazione di risarcire, sia in forma specifica che per equivalente, i danni subiti dal dipendente, in presenza di una declaratoria di illegittimità costituzionale che non consente di configurare retroattivamente e dunque fittiziamente tale imputabilità al soggetto che, prima della declaratoria di incostituzionalità, abbia conformato il proprio comportamento alle disposizioni solo successivamente investite da quella declaratoria; con il terzo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218 e 1453 c.c. per avere la Corte di appello ritenuto la reviviscenza, con effetto ex tunc, del rapporto contrattuale (in conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione di legge che prevedeva il recesso datoriale) con l'obbligo in capo all'Amministrazione di corrispondere in favore del dipendente, titolare dell'incarico di cui era stata disposta la cessazione ante tempus in applicazione della norma poi dichiarata illegittima, le maggiori retribuzioni non percepite previste in relazione a tale incarico anche quando la relativa controprestazione lavorativa sia obiettivamente mancata; con il quarto motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2058 c.c., norma che consente la reintegrazione in forma specifica, anche nel caso di inadempimento contrattuale, alla sola condizione che essa, al momento della pronuncia del giudice, sia ancora possibile, in tutto o in parte, mentre nella fattispecie era in controverso tra le parti che l'originaria scadenza dell'incarico fosse fissata al 31 agosto 2005 e pertanto alla data della pronuncia non definitiva il termine originario di durata dell'incarico era già abbondantemente spirato; che il L.C., con le proprie impugnazioni:

- censura la sentenza non definitiva: a) per avere escluso l'operatività dell'art. 18 stat. lav. ed avere così omesso di statuire in ordine alla domanda avente oggetto la ricostruzione di carriera ai fini giuridici, economici e previdenziali; b) per omessa motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, riguardo alla limitazione temporale del risarcimento al 31 agosto 2005, senza spiegare le ragioni per le quali il dirigente, rimosso illegittimamente dall'incarico conferitogli, avrebbe diritto al risarcimento solo per la durata residua dell'incarico anziché sino alla reintegra come previsto dal dettato normativo;

- censura la sentenza definitiva (con i motivi dal terzo al nono del ricorso incidentale e dal primo al settimo del ricorso autonomo), in sintesi, per: a) errata esclusione, dalla retribuzione liquidata a titolo di maturate differenze retributive, di alcune delle voci economiche indicate dal C.t.u.; b) violazione e/o falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., avendo la sentenza omesso di riconoscere il diritto alla ricostruzione di carriera, quale conseguenza della dichiarata illegittimità del recesso dal rapporto di lavoro in relazione all'articolo 18 L. n. 300/70 e dell'art. 51 d.lgs. n. 165/01; c) violazione e/o falsa applicazione dell'art. 23 d.lgs n. 165/01, errata ed illogica motivazione, non avendo la Corte di appello debitamente considerato gli effetti lesivi per il mancato conseguimento del passaggio dalla seconda alla prima fascia, dipeso dal comportamento illegittimo dell'Amministrazione; d) avere escluso il danno esistenziale omettendo di considerare che gli stessi elementi che costituivano i presupposti (ritenuti provati) per il risarcimento del danno da demansionamento costituivano altresì la prova del danno esistenziale; e) per vizio di motivazione relativamente alla limitazione temporale del diritto al risarcimento dei danni alla professionalità e alla personalità morale nel termine del triennio del contratto originario, ossia sino alla scadenza naturale dello stesso; f) vizio di motivazione in ordine alla quantificazione dei danni alla professionalità e alla personalità morale, parametrata solo ad alcune componenti del trattamento economico e precisamente all'indennità di posizione di dirigente generale, ed avere la Corte ulteriormente ridotto la pretesa non comprendendo le voci di cui si compone effettivamente l'indennità di posizione;

che il primo motivo del ricorso proposto dal Ministero è infondato alla stregua della costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui, al di fuori dei casi in cui la legge espressamente impone la partecipazione di più soggetti al giudizio instaurato nei confronti di uno di essi, vi è litisconsorzio necessario solo allorquando l'azione tenda alla costituzione o alla modifica di un rapporto plurisoggettivo unico, ovvero all'adempimento di una prestazione inscindibile comune a più soggetti; pertanto, non ricorre litisconsorzio necessario allorché il giudice proceda, in via meramente incidentale, ad accertare una situazione giuridica che riguardi anche un terzo, dal momento che gli effetti di tale accertamento non si estendono a quest'ultimo, ma restano limitati alle parti in causa (vedi: da ultimo Cass. n. 22474 del 2016, che a sua volta richiama, Cass. n. 25045 del 2008, Cass. n. 17027 del 2006 e, negli stessi sensi, Cass. n. 14102 del 2003);

che il secondo, il terzo e il quarto motivo del ricorso del Ministero vanno trattati congiuntamente, in quanto vertenti sui capi della sentenza non definitiva che hanno riconosciuto al dott. L.C. la tutela in forma specifica e quella per equivalente monetario in ragione della mancata esecuzione di parte dell'incarico dirigenziale (dal 12.8.2002 al 31.8.2005), nonché sul capo della sentenza definitiva avente ad oggetto la liquidazione del danno da revoca anticipata dell'incarico dirigenziale, operata dall'Amministrazione in applicazione del c.d. sistema di spoils system (art. 3, comma 1, lett. b, della L. n. 145/02, poi interessato dalla pronuncia di incostituzionalità di cui alla sentenza n. 103/2007);

che occorre richiamare le sentenze di questa Corte nn. 13869 e 3210/2016, n. 20100 del 2015, n. 289 del 2014, n. 355 del 2013, le quali hanno già affrontato le questioni relative agli effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 103/2007, con cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, L. n 145/2002, nella parte in cui disponeva che gli incarichi dirigenziali cessassero il sessantesimo giorno dall'entrata in vigore della stessa legge;

che, sul versante costituito dal diritto del dirigente al ripristino dell'incarico, Cass. 3210 del 18 febbraio 2016, nell'affermare il principio secondo cui, a seguito della sopravvenuta pronuncia di illegittimità costituzionale delle norme disciplinatrici del cd. spoil system, il dirigente generale illegittimamente rimosso va reintegrato nell'incarico per il tempo residuo di durata, senza che rilevi l'indisponibilità del posto a seguito della riforma organizzativa dell'amministrazione sopravvenuta nelle more, ha precisato che non può essere escluso l'effetto ripristinatorio dell'incarico in casi - come quello in quella sede esaminato - in cui non si era in presenza di una situazione esaurita, la quale opera come limite all'efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale; è stato osservato - e questo Collegio ne ribadisce in questa sede la soluzione interpretativa - che la dichiarazione d'illegittimità costituzionale inficia le disposizioni o le norme, che ne sono investite, fin dal momento in cui entrano in contrasto con la Costituzione - ma è fatto salvo, tuttavia, il limite delle situazioni giuridiche già consolidate secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr le sentenze sopra richiamate ed, inoltre, le sentenze n. 11932/2003, n. 14969/2002 n. 10115, 5039, 1728/2001, 7704, 6486/2000, 1203/89, 605, 405/98, 7057, 5305/97, 891/96) a causa degli eventi giuridici, che l'ordinamento riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudicato, al pari di altri fatti ed atti, parimenti rilevanti, sul piano sostanziale o processuale, e produttivi del medesimo effetto giuridico, come l'atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza (nel caso ivi esaminato l'interessato, una volta subite le conseguenze lesive dello spoil system, si era attivato prontamente agendo in giudizio al fine di ottenere la reintegra nell'incarico di dirigenza previo accertamento della incostituzionalità della norma e il giudice investito della causa aveva sospeso il processo rimettendo gli atti alla Corte costituzionale); che l'effetto ripristinatorio non può essere negato neppure nel caso in esame, atteso che il L.C. risulta essersi attivato prima della scadenza del termine fissato per lo svolgimento dell'incarico (agosto 2005), proponendo ricorso ex art. 414 c.p.c. in data 31 dicembre 2003 per dedurre l'illegittimità della rimozione dall'incarico e chiedere il ripristino dello stesso "anche ora per allora in forma virtuale e per tutta la durata degli effetti illeciti provocati ... a partire dal 12 agosto 2002...";

che, pertanto, è conforme a diritto la statuizione di cui alla sentenza non definitiva con cui è stato dichiarato il diritto dell'originario ricorrente a svolgere l'incarico oggetto della revoca "o altro di livello equivalente", "per la durata corrispondente a quella che residuava sino alla scadenza naturale dell'incarico medesimo" ed è stato dichiarato "il correlativo obbligo del Ministero nei confronti del L.C.";

che non coglie nel segno il motivo di ricorso proposto dall'Amministrazione teso ad evidenziare l'inapplicabilità della tutela in forma specifica ex art. 2058 c.c. e l'insussistenza di una situazione di fatto che consentisse la riassegnazione del dipendente allo stesso incarico dirigenziale a distanza di più anni dalla scadenza naturale dell'incarico cessato anticipatamente; le S.U. di questa Corte, nella pronunzia 3677 del 2009, hanno evidenziato che l'impedimento di fatto non assume rilevanza "giacché una cosa è il tipo di provvedimento che il giudice può emettere, altra cosa è la sua idoneità ad essere eseguito in forma specifica" e che vengono in causa i consueti limiti che incontra la tutela del lavoratore e che attengono non già al giudizio di cognizione ma alla fase esecutiva, in cui, peraltro, non può escludersi l'adempimento spontaneo da parte del datore (v. pure, più recentemente, nello stesso senso, Cass. n. 289 del 2014);

che, quanto alla pretese risarcitorie, occorre partire dalla sentenza di questa Corte n. 355 del 9 gennaio 2013 secondo cui la retroattività delle pronunce di illegittimità costituzionale riguarda l'antigiuridicità delle norme investite, non più applicabili, neanche ai rapporti pregressi, non ancora "esauriti", ma non consente di configurare retroattivamente, quanto fittiziamente, la "colpa" del soggetto che, prima della declaratoria di incostituzionalità, abbia "conformato" il proprio comportamento alle norme, solo successivamente, investite da quella declaratoria. Ne deriva che, in caso di illegittima risoluzione anticipata di incarico dirigenziale disposta ai sensi di norma poi dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, spetta al dirigente il risarcimento del danno derivato dall'anticipata risoluzione del rapporto, ma tale danno, considerato che nella fattispecie la colpa dell'agente è elemento essenziale dell'illecito, è risarcibile solo dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale e non dalla data di cessazione del rapporto;

che, sulla scia di tale pronuncia, è stata negata la risarcibilità di danni che trovano titolo diretto ed immediato nella revoca anticipata dell'incarico per effetto del c.d. spoil system ove la fattispecie fosse già esaurita anteriormente alla pronuncia di illegittimità costituzionale; la risarcibilità dei danni presuppone una colpa dell'Amministrazione e tale colpa non è ravvisabile nel comportamento costituito dalla revoca dell'incarico operato dall'Amministrazione che abbia conformato il proprio comportamento ad una legge solo successivamente dichiarata incostituzionale; così Cass. n. 20100 del 7 ottobre 2015 ha affermato che la declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, della I. n. 145 del 2002, applicativo del sistema del cd. "spoil system", fonda il diritto del dirigente dichiarato decaduto al risarcimento del danno derivato dall'anticipata risoluzione del rapporto, che decorre non dalla data di cessazione ma, non potendosi configurare retroattivamente la colpa del soggetto che abbia conformato il proprio comportamento alle norme anteriormente alla pronuncia di incostituzionalità, dalla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, purché a tale data non fosse già decorso anche il termine finale originariamente previsto dell'incarico;

che la sentenza non definitiva della Corte di appello di Roma ha condannato l'Amministrazione al risarcimento dei danni patrimoniali senza debitamente chiarire se i danni riconosciuti siano riferibili (ed eventualmente in quale misura) alla revoca ante tempus dell'incarico in sé considerato, poiché per tale parte la stessa non sarebbe conforme a diritto in quanto assume una responsabilità per inadempimento dell'Amministrazione pur in assenza di colpa o comunque di causa imputabile, in violazione dell'art. 1218 c.c.; devono così ritenersi infondate le domande risarcitone che trovano titolo nella revoca dell'incarico disposta in applicazione della legge poi dichiarata incostituzionale;

che, per altro verso, la Corte di appello, in sede di sentenza non definitiva, ha ritenuto sussistente, quale fonte autonoma di danno risarcibile, un comportamento inadempiente della P.A. consistente nel comportamento tenuto in violazione dei canoni di buona fede e correttezza ex artt. 1175 e 1375 c.c., applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost.: l'Amministrazione, dopo la revoca dell'incarico dirigenziale di prima fascia, aveva sostanzialmente tenuto inoperoso il L.C., il quale non aveva ricevuto più alcun incarico né aveva più svolto alcuna attività sia prima che dopo il 1° ottobre 2003 (data in cui aveva richiesto e ottenuto il part-time con orario lavorativo ridotto 50%), protraendosi tale situazione sino al settembre 2005 (epoca in cui richiese ed ottenne di essere collocato in aspettativa non retribuita); il Ministero non aveva sollecitato l'adempimento dell'incarico di studio o proposto altro incarico, sostanzialmente accettando che il dipendente rimanesse del tutto inattivo; inoltre, l'Amministrazione non aveva esternato le ragioni per le quali il L.C. non era stato valutato nel momento della nuova assegnazione del medesimo incarico o altro incarico equivalente; che, in punto di diritto, tale capo della sentenza è conforme alla giurisprudenza di questa Corte, in quanto gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali rivestono la natura di determinazioni negoziali cui devono applicarsi i criteri generali di correttezza e buona fede, alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost., che obbligano la P.A. a valutazioni comparative motivate, senza alcun automatismo della scelta, che resta rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro, cui corrisponde una posizione di interesse legittimo degli aspiranti all'incarico tutelabile ai sensi dell'art. 2907 c.c., anche in forma risarcitoria (cfr. Cass. n. 18972 del 2015, n. 20979 del 2009);

che, tuttavia, non è chiaramente desumibile dalla sentenza non definitiva quali siano le componenti di danno ascritte all'uno o all'altro titolo causativo, né tale specificazione risulta dalla sentenza definitiva che si è limitata a liquidare i danni richiamando "il titolo di cui alla sentenza non definitiva";

che non ha formato oggetto di specifico motivo di ricorso del Ministero l'accertato depauperamento della professionalità e il danno alla personalità morale, ricostruito dalla Corte territoriale mediante un ragionamento presuntivo attraverso la valorizzazione di elementi di fatto relativi alla quantità e qualità dell'esperienza lavorativa pregressa, alla natura della professionalità coinvolta e alla durata del periodo della sostanziale inattività cui il L.C. era stato costretto (cfr., in generale, tra le più recenti, Cass. 8717 del 2017); è stato evidenziato che l'incarico revocato implicava il coordinamento di circa 200 unità lavorative; la gestione di un budget di circa 200 miliardi di vecchie lire; l'istituzionale partecipazione ad una serie di vertici internazionali ovvero lo svolgimento di varie attività e di incarichi a livello internazionale o comunitario e che le modalità che avevano accompagnato la sottrazione dell'incarico dirigenziale di prima fascia erano consistite in un forzato sgombero della stanza in precedenza assegnata e di tutto quanto fosse di pertinenza, avvenuto in assenza dell'interessato;

che, quanto ai motivi di ricorso formulati dal L.C., quelli proposti avverso la sentenza non definitiva sono innanzitutto inammissibili, in quanto non risulta che il ricorrente avesse formulato riserva di ricorso avverso la predetta sentenza; in ogni caso, ogni pretesa risarcitoria che trova titolo nella revoca ante tempus dell'incarico dirigenziale resta assorbita nell'accoglimento sul punto del ricorso principale del Ministero, mentre del tutto inconferente è il richiamo, in tema di ripristino di incarichi dirigenziali, dell'art. 18 Stat. Lav., come pure inammissibile è il motivo formulato con riferimento ad un (insussistente) atto di recesso datoriale, essendo ipotesi diverse la revoca dell'incarico e il recesso dal rapporto di lavoro dirigenziale;

che ogni ulteriore censura vertente sulla valutazione compiuta dal giudice di merito in ordine al mancato riconoscimento di altre voci di danno è inammissibile, dal momento che, nell'ambito del sindacato di legittimità, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, di valutare le allegazioni e le prove offerte dalle parti (cfr. in tal senso, tra le tante, Cass. nn. 6288/2011, 27162/2009, 15693/2004, 11936/2003; Cass. 7921/2011);

che, in tema di prova per presunzioni, è compito del giudice del merito valutare in concreto l'efficacia sintomatica dei singoli fatti noti, non solo analiticamente ma anche nella loro convergenza globale, accertandone la pregnanza conclusiva; tale apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità se sostenuto da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico (Cass. nn. 3281/2012, 24134/2009, 12980/2002); la Corte di appello ha ampiamente argomentato, in sede di sentenza definitiva, le ragioni per cui ha ritenuto che determinati elementi comprovassero il danno alla professionalità, ma non il danno esistenziale;

che, del pari, sono inammissibili le censure con cui si lamenta l'erronea parametrazione del danno alla professionalità e alla personalità morale per avere la Corte romana assunto a riferimento un determinato arco temporale e determinati elementi e non altri; trattasi di censure che involgono apprezzamenti di merito relativi alla liquidazione equitativa del danno;

che, in conclusione, in limitato accoglimento del ricorso proposto dal Ministero, occorre rimettere al giudice di merito l'accertamento delle voci di danno patrimoniale direttamente riferibili all'autonomo titolo costituito dal comportamento inadempiente della P.A. successivo alla revoca dell'incarico dirigenziale e fino all'agosto 2005, con la precisazione che, quanto al danno direttamente riferibile alla revoca dell'incarico per effetto del c.d. spoil system, deve ritenersi integralmente satisfattivo il risarcimento in forma specifica costituito dal diritto al ripristino dell'incarico;

che entro tali limiti si impone la cassazione con rinvio, occorrendo nuovi accertamenti di fatto e una nuova liquidazione del danno;

che il giudice di rinvio, che si designa nella Corte di appello di Roma in diversa composizione, provvederà anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità;

 

P.Q.M.

 

Riuniti di ricorsi, accoglie nei termini di cui in motivazione il ricorso del Ministero dell'ambiente, della tutela del territorio e del mare; rigetta il ricorso di L.C. cassa la sentenza-impugnata in relazione al predetto accoglimento del ricorso del Ministero e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.