Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 01 febbraio 2018, n. 4745

Reati tributari - Evasione - Frode carosello - Società - Responsabilità - Amministratore di fatto - Elementi di prova - Corrispondenza intrattenuta con i professionisti incaricati della contabilità e degli adempimenti amministrativi

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 22 febbraio 2017 la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza del 15 gennaio 2016 del Tribunale di Milano, in forza della quale A.R., nella sua qualità di amministratore di fatto della s.r.l. G., era stato condannato alla pena, sospesa, di anni uno e mesi due di reclusione, riconosciute le attenuanti generiche e col vincolo della continuazione, per il reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 5, 8 e 10 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74.

2. Avverso la predetta decisione l'imputato, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione con un complesso motivo di impugnazione.

2.1. In particolare, il ricorrente ha allegato violazione di legge assumendo che il provvedimento impugnato, una volta ritenuta provata in astratto la qualifica di amministratore di fatto, ha automaticamente ascritto all'imputato tutti i reati contestati, nonostante l'eterogeneità dei reati e la diversità di date di commissione. Mentre al contrario, proprio in ragione della contestata qualifica, avrebbe dovuto disporsi la disamina sulla conoscenza della singola operazione illecita, tanto più che l'amministrazione di fatto si sarebbe concentrata in scambi di posta elettronica dal 26 ottobre all'8 novembre 2010 (l'attività di emissione di fatture per operazioni inesistenti essendo collocata tra il 12 luglio e il 22 luglio 2010, l'omessa dichiarazione dovendosi fare risalire al 30 dicembre 2012).

Del pari, doveva evidenziarsi il travisamento nella circostanza che non vi era traccia in atti dei pretesi vantaggi derivati alla T. dall'attività illecita della G..

In ogni caso il mero svolgimento di pratiche burocratiche non si presentava sufficiente ad attestare l'amministrazione di fatto della società, ed invero il ricorrente aveva svolto solamente atti eterogenei ed occasionali, tra l'altro in un ristretto lasso di tempo, mentre era richiesta una significativa, penetrante e regolare partecipazione all'attività gestoria.

Per quanto infine riguardava la fattispecie di cui all'art. 10 cit., assumeva rilievo la distruzione ovvero l'occultamento delle scritture, più che la loro mancata esibizione.

3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso dell'inammissibilità del ricorso.

 

Considerato in diritto

 

4. Il ricorso è inammissibile.

4.1. Osserva preliminarmente la Corte che l'esame del ricorso può essere effettuato prendendo in considerazione sia la motivazione della sentenza impugnata sia quella della sentenza di primo grado, e ciò in quanto i giudici di merito hanno adottato decisioni e percorsi motivazionali comuni che possono essere valutati congiuntamente ai fini di una efficace ricostruzione della vicenda processuale e di una migliore comprensione delle censure del ricorrente.

È infatti appena il caso di ricordare che qualora il giudice d'appello abbia accertato e valutato, come in specie, il materiale probatorio con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado, le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscono una sola entità logico-giuridica, alla quale occorre far riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella d'appello (Sez. 1, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Scardaccione, Rv. 197250). Invero, allorché le sentenze di primo e secondo grado concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo (ex plurimis, Sez. 1, n. 8868 del 26/06/2000, Sangiorgi, Rv. 216906).

4.2. Ciò posto, va altresì sottolineato in linea generale che il giudizio di legittimità, in sede di controllo sulla motivazione, non può concretarsi nella rilettura degli elementi di fatto, posti a fondamento della decisione o nell'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili.

Non può invero negarsi, al riguardo, che le riproposte censure sono già state puntualmente disattese dai giudici del merito, le cui motivazioni non presentano errori giuridici o manifeste illogicità.

In particolare, va osservato che a questa Corte non è rimesso affatto un giudizio sul dissenso, pur motivato, del ricorrente in ordine al risultato del procedimento valutativo operato dal giudice di merito.

In altre parole, oggetto della censura deve essere invece l'iter motivazionale e la connessione logica delle argomentazioni della sentenza impugnata. Ciò implica l'individuazione di un "passaggio motivazionale" - id est la concatenazione di due o più affermazioni - secondo un connettivo di vario genere che il ricorrente censura perché - a suo avviso - illogico o contraddittorio, utilizzando a tal fine anche "atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame". In tal modo il controllo della Cassazione, in presenza di un eccepito vizio motivazionale, ha un orizzonte circoscritto e va confinato alla verifica della esistenza di un apparato argomentativo non contraddittorio né manifestamente illogico del provvedimento impugnato.

Rimane in ogni caso fermo il divieto per la Cassazione - in presenza di una motivazione non manifestamente illogica o contraddittoria - di una diversa valutazione delle prove, anche se plausibile. Di conseguenza, non è sufficiente che alcuni atti del procedimento siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione diversa e più persuasiva di quella operata nel provvedimento impugnato; occorre che le prove, che il ricorrente segnala a sostegno del suo assunto, siano decisive e dotate di una forza esplicativa tale da vanificare l'intero ragionamento svolto dal giudice sì da rendere illogica o contraddittoria la motivazione (cfr. in motivazione, Sez. 3, n. 14437 del 22/01/2014, C., non massimata sul punto).

4.3. Alla stregua dei rilievi che precedono, è appena il caso di osservare, in primo luogo, che non è mai stata oggetto di contestazione l'operatività illecita della s.r.l. G. nel periodo in cui l'amministratore formale era divenuto tale R.P., cittadino brasiliano del quale si sono ben presto perdute le tracce processuali e sostanziali, le cui professionalità tra l'altro sono rimaste oscure anche all'odierno ricorrente, che tra l'altro per un periodo era rimasto socio unico di una società in tesi affidata alle sconosciute capacità del nuovo apparente amministratore (cfr. pag. 5 sentenza del Tribunale milanese).

In proposito il primo Giudice, in particolare, ha compiuto analitica ricostruzione dell'operare societario, anche in ordine ai vantaggi infine derivati dalla cd. frode carosello posta in essere dalla G. in favore della T. s.r.l., compagine comunque riferibile alla famiglia del ricorrente (sì che il presunto travisamento del fatto circa i perduranti vantaggi in favore di quest'ultima, di cui al ricorso di legittimità, si presenta manifestamente infondato, stante la mancata contestazione di ogni circostanza relativa al descritto illecito operare).

4.4. Al riguardo, la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall'art. 2639 cod. civ., postula l'esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione; nondimeno, significatività e continuità non comportano necessariamente l'esercizio di tutti i poteri propri dell'organo di gestione, ma richiedono l'esercizio di un'apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale. Ne consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive - in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare - il quale costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, Tarantino, Rv. 256534; cfr. altresì, ad es., Sez. 3, n. 22108 del 19/12/2014, dep. 2015, Berni e altri, Rv. 264009).

Ciò posto, con motivazione del tutto logica e coerente i provvedimenti del merito hanno così complessivamente dato conto che la società in questione era priva di struttura, dipendenti, mezzi; che la sua sede era nello studio di un commercialista, del quale non sono stati evidenziati contatti col nuovo amministratore di diritto, se non al momento del formale passaggio delle consegne; che l'operatività illecita era dedicata ad avvantaggiare indebitamente quantomeno altra società della famiglia dell'odierno ricorrente; mentre in ogni caso la sola corrispondenza rintracciata è stata intrattenuta, dai professionisti officiati della contabilità o comunque degli adempimenti amministrativi, con la persona in teoria già uscita di scena, ossia l'odierno ricorrente, laddove il nuovo amministratore non risulta avere mai fornito notizia di sé e tutte le condotte ascritte sono comunque ricollegate proprio all'attività così riferibile all'amministratore di fatto, nell'evidenziata protratta assenza di altro gestore sociale (tra l'altro le indebite fatturazioni sono relative all'intero secondo semestre del 2010, e l'obbligo dichiarativo concerneva la mancata presentazione nell'anno 2011, mentre in re ipsa si ricava la ben carente strutturazione contabile e documentale).

In definitiva, a fronte del corredo motivazionale e fattuale appena richiamato, sul quale per vero non è insorta specifica contestazione (viene infatti espressamente chiarito nel provvedimento impugnato che la sola questione controversa è legata non agli inadempimenti sociali ma alla posizione dell'odierno ricorrente), è stata offerta da un lato una comunicazione e-mail tra l'altro diversamente individuata tra atto di appello (pag. 4, 31 marzo 2015) e ricorso per cassazione (pag. 5, 7 maggio 2010), e dall'altro una ricostruzione in qualche modo alternativa tramite la differente interpretazione delle emergenze istruttorie, documentali e testimoniali rispetto a quanto, uniformemente, deciso nei due gradi.

4.5. Come è già stato ricordato, peraltro, siffatta censura non è idonea a scalfire il complessivo esito dei conformi giudizi di merito, vanificando la costruzione logica colà complessivamente compiuta.

5. Il ricorso pertanto non è in grado di superare la soglia dell'ammissibilità.

Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.