Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 20 dicembre 2017, n. 30560

Tributi - Verifica fiscale - Permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente - Limite temporale - Computo - Giorni di effettiva presenza

Fatti di causa

D.G.W. ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto, di conferma della sentenza di primo grado, sfavorevole per il contribuente, in relazione a tre avvisi di accertamento, con i quali si provvedeva a rettificare le dichiarazioni Modello Unico 2003, 2004 e 2005, in quanto, per i corrispondenti periodi di imposta (2002, 2003 e 2004), il contribuente si era avvalso di fatture che documentavano operazioni inesistenti.

Il ricorso è affidato a dieci motivi, illustrati con memoria, cui l'Agenzia delle entrate ha reagito con controricorso.

Ragioni della decisione

1. Il primo motivo denuncia, in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 12, comma 5, della I. n. 212 del 2000: «La permanenza degli operatori civili o militari dell'amministrazione finanziaria dovuta a verifiche presso la sede del contribuente, non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriore trenta giorni nei casi di particolari complessità dell'indagine e motivati dal dirigente dell'ufficio».

Il periodo temporale previsto dalla norma deve essere considerato un continuum temporale, mentre secondo la Ctr rilevano esclusivamente i soli giorni di permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente e non l'intero periodo intercorrente tra il momento dell'accesso e quello della conclusione del controllo.

1.2. Il motivo è infondato. La norma è stata modificata dall'art. 7, comma 2, leggera d) del d.l. 13 maggio 2011, convertito dalla I. 12 luglio 2011, n. 106, che ha aggiunto il seguente periodo: «Il periodo di permanenza presso la sede del contribuente di cui al primo periodo, così come l'eventuale proroga ivi prevista, non può essere superiore a quindici giorni in tutti i casi in cui la verifica sia svolta presso la sede di imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi. In entrambi i casi, ai fini del computo dei giorni lavorativi, devono essere considerati i giorni di effettiva presenza degli operatori civili o militari dell'Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente.».

Ad ogni modo, anche prima dell'intervento effettuato con richiamato d.l. n. 70 del 2011, l'Agenzia delle entrate (Circolare 64/E del 27 giugno 2011) e la Guardia di Finanza (Circolare n. 250400 del 17 agosto 2000 del Comando Generale della Guardia di Finanza) hanno ritenuto riferibile il volo temporale posto dalla norma dello Statuto ai soli giorni di permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente e non all'intero periodo intercorrente tra il momento dell'accesso e quello della conclusione del controllo.

Tale interpretazione è stata condivisa dalla giurisprudenza di questa Suprema corte: «In tema di verifiche tributarie, il quinto comma dell'art. 12 della legge 27 luglio 2000, n. 212, nel fissare agli operatori civili o militari dell'Amministrazione finanziaria il termine di trenta giorni lavorativi (successivamente prorogabile) di permanenza presso la sede del contribuente, si riferisce ai soli giorni di effettiva attività lavorativa svolta presso tale sede, escludendo, quindi, dal computo quelli impiegati per verifiche ed attività eseguite in altri luoghi (Cass. n. 23595/2011; conf. n. 11878/2017).

Occorre ancora aggiungere che la giurisprudenza di questa Sezione della Suprema corte è saldamente orientata nel senso che «in tema di verifiche tributarie, la violazione del termine di permanenza degli operatori dell'Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente, previsto dall'art. 12, comma 5, della I. n. 212 del 2000, non determina la sopravvenuta carenza del potere di accertamento ispettivo, né l'invalidità degli atti compiuti o l'inutilizzabilità delle prove raccolte, atteso che nessuna di tali sanzioni è stata prevista dal legislatore, la cui scelta risulta razionalmente giustificata dal mancato coinvolgimento di diritti del contribuente costituzionalmente tutelati (Cass. n. 2055/2017; conf. n. 8584/2015; n. 16323/2014)».

2. Il secondo motivo denuncia, in relazione all'art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c. omessa motivazione circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio.

Il fatto e cui è riferita l'omessa motivazione è la regolare sottoscrizione degli avvisi di accertamento oggetto dei giudizi riuniti.

Ex art. 42 del d.P.R. n 600 del 1973: Gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d'ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell'ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva.

2.1. Nei ricorsi introduttivi la contribuente aveva eccepito che «nel caso in esame non risulta possibile comprendere se il soggetto che ha apposto la propria sigla sull'atto possieda qualifica idonea, né, tanto meno, se la delega da conferirsi a tal fine da parte del capo dell'ufficio emittente esista e possa essere considerata valida».

La Ctr, nel confermare su questo aspetto la sentenza della Commissione tributaria provinciale, ha rigettato l'eccezione statuendo che «[...] gli avvisi di accertamento - che l'appellante assume essere privi della sottoscrizione - recano chiaramente l'indicazione del titolare, direttore dell'Agenzia delle entrate, Ufficio di Chioggia dr. A.G.».

2.3. La ricorrente sostiene che la Ctr non avrebbe spiegato:

a) «perché negli avvisi di accertamento relativi agli anni 2003 la mera stampigliatura "Il Direttore A.G. è sufficiente a integrare il requisito della sottoscrizione posto a pena di nullità dall'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973»;

b) «perché a fronte della contestazione del sig. D.G., si possa ritenere che l'Ufficio abbia dimostrato che chi ha siglato gli avvisi di accertamento fosse il direttore dell'ufficio». Il ricorrente richiama in proposito la giurisprudenza di questa Corte secondo cui: «Se la sottoscrizione non è quella del capo dell'ufficio titolare ma di un funzionario, quale il direttore tributario, di nona qualifica funzionale, incombe all'Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, l'esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell'ufficio. Fermi, infatti, i casi di sostituzione e reggenza di cui all'art. 20, comma primo, lett. a) e b) del d.P.R. 8 maggio 1987 n. 266, è espressamente richiesta la delega a sottoscrivere: il solo possesso della qualifica non abilita il direttore tributario alla sottoscrizione, dovendo il potere di organizzazione essere in concreto riferibile al capo dell'ufficio (Cass. n. 10513/2008).

2.4. Il motivo, relativamente alla censura supra sub a), non pone una questione motivazionale, ma di interpretazione della norma, in particolare se il timbro del titolare dell'Ufficio, apposto sull'avviso di accertamento, equivalga al requisito della sottoscrizione, richiesto dalla norma stessa.

La censura è infondata, tenuto conto delle caratteristiche formali degli avvisi, che recano tutti non solo il timbro ma anche la sigla (come riscontrato dalla Corte mediante esame dei documenti), ed «avuto riguardo al consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui la nullità di un atto non dipende dalla illeggibilità della firma di chi si qualifichi come titolare di un pubblico ufficio, ma dall'impossibilità oggettiva di individuare l'identità del firmatario dell'atto, con la precisazione che l'autografia della sottoscrizione non è configurabile come requisito di esistenza giuridica degli atti amministrativi, quanto meno quando i dati esplicitati nello stesso contesto documentativo dell'atto consentano di accertare la sicura attribuibilítà dello stesso a chi deve esserne l'autore secondo le norme positive, come è confermato dal D.Igs. 12 febbraio 1993, n. 39, art. 3 il quale, prevedendo, nel caso di emanazione di atti amministrativi attraverso sistemi informatici e telematici, che la firma autografa sia sostituita dall'indicazione a stampa, sul documento prodotto dal sistema automatizzato, del nominativo del soggetto responsabile, ribadisce sul piano positivo l'inessenzialità ontologica della sottoscrizione autografa ai fini della validità degli atti amministrativi (cfr. Cass. 1a sez. 7.8.1996 n. 7234; Id. I sez. 24.9.1997 n. 9394; id. 3a sez. 10.2.2000 n. 1458; id. 1a sez. 28.12.2000 n. 16204; id. 1 sez. 22.11.00 4 n. 21954, tutte con riferimento ad ordinanza-ingiunzione. Con specifico riferimento alla materia tributaria: Cass. 5a sez. 27.2.2009 n. 4757, secondo cui la nullità della cartella di pagamento deve essere esclusa anche in mancanza di sottoscrizione del funzionario competente se gli altri elementi formali consentano inequivocabilmente di riferire l'atto all'organo amministrativo titolare del potere di emetterlo; id. 5a sez. 23.2.2010 n. 4283 secondo cui "l'avviso di mora emesso dal concessionario del servizio di riscossione è valido, pur se privo della sottoscrizione da parte del funzionario competente, in quanto la carenza di tale elemento formale non implica alcuna menomazione né del potere del concessionario, che dipende da rapporto "a monte" con l'ente impositore, né della responsabilità in ordine all'emissione del singolo alto impositivo, sempre riferibile nei confronti dei terzi all'ente che lo emette, a prescindere dall'identità del funzionario che materialmente lo esegue, né, a fortiori, delle prerogative e del diritto di difesa de/soggetto destinatario dell'atto" (Cass. n. 26176/2011)».

2.5. La seconda censura di cui al motivo in esame (supra sub b) è infondata.

L'onere probatorio imposto all'Amministrazione finanziaria secondo la giurisprudenza richiamata dal ricorrente riguarda il caso in cui la sottoscrizione dell'avviso di accertamento «non è quella del capo dell'ufficio titolare», mentre la Ctr ha ritenuto che gli avvisi fossero stati sottoscritti dal capo dell'Ufficio, per cui la sentenza andava semmai censurata sotto questo profilo, in rapporto a fatti, dedotti nel giudizio di merito e non esaminati, idonei a giustificare una diversa decisione: e cioè che il soggetto che la Ctr ha ritenuto essere il capo dell'Ufficio in realtà non era tale.

In assenza di tale deduzione, la Ctr, sull'argomento, non era tenuta ad aggiungere nulla di più rispetto a ciò che ha detto, e cioè che gli atti «recavano chiaramente l'indicazione del titolare dell'Agenzia delle entrate, Ufficio di Chioggia».

In tale frase, infatti, c'è un giudizio di oggettiva certezza sulla sottoscrizione degli avvisi da parte di soggetto legittimato secondo legge a sottoscriverli, trattandosi, appunto, del capo dell'Ufficio.

La motivazione, pertanto, non è per niente omessa o insufficiente.

3. Il terzo motivo denuncia, in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., falsa applicazione dell'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell'art. 56 del d.P.R. n. 633 del 1972.

La sentenza ha ritenuto che gli avvisi fossero stati adeguatamente motivati attraverso il richiamo delle norme che prevedono l'accertamento parziale di cui all'art. 54, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 72 e all'art. 41-bis del d.P.R. n. 600 del 73, tale essendo l'accertamento compiuto nel caso di specie.

Secondo il ricorrente, invece, in ipotesi di accertamento parziale, non è sufficiente al fine della motivazione del provvedimento fare emergere, tramite richiamo delle norme che lo disciplinano, siffatto carattere dell'accertamento medesimo, ma l'Amministrazione finanziaria dovrà comunque indicare la metodologia accertativa utilizzata. In mancanza di tale indicazione l'avviso di accertamento deve ritenersi nullo per difetto di motivazione.

3.1. Il motivo è inammissibile. Secondo il consolidato orientamento di questa Suprema Corte l'obbligo di motivazione dell'atto impositivo «persegue il fine di porre il contribuente in condizione di conoscere la pretesa impositiva in misura tale da consentirgli sia di valutare l'opportunità di esperire l'impugnazione giudiziale, sia, in caso positivo, di contestare efficacemente l'an e il quantum debeatur. Detti elementi conoscitivi devono essere forniti all'interessato, non solo tempestivamente (e cioè inserendoli ab origine nel provvedimento impositivo), ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che permetta al medesimo un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa» (Cass. n. 15842/2006; conf. n. 7056/2014; n. 9008/2017).

E' stato anche chiarito, proprio in tema di accertamento parziale dell'IVA e delle imposte dirette, che questo è «uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, ove le attività istruttorie diano contezza della sussistenza a qualsiasi titolo di attendibili posizioni debitorie e non richiedano, in ragione della loro oggettiva consistenza, l'esercizio di valutazioni ulteriori rispetto al mero recepimento del contenuto della segnalazione della Guardia di finanza, che fornisca elementi idonei a far ritenere la sussistenza di introiti non dichiarati, sicché, nel confronto con gli altri strumenti accertativi, risulta qualitativamente diverso poiché si vale di una sorta di "automatismo argomentativo", per modo che il confezionamento dell'atto risulta possibile sulla base della sola segnalazione, senza necessità ulteriore approfondimento» (Cass. n. 2633/2016).

Nella sentenza non si legge alcuna affermazione contra legem che possa dare consistenza a una censura ex art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., che costituisce una doglianza circoscritta all'interpretazione della norma astratta applicata dal giudice al caso concreto, investendo quindi la validità ed ortodossia della conclusione ermenueutica (Cass. n. 16896/2007).

In verità è evidente che, sotto la veste della violazione di legge, il ricorrente si duole che la Ctr abbia ritenuto sufficiente la motivazione degli avvisi. Ma allora è inevitabile dedurne che la sentenza doveva essere censurata per vizio motivazione e il ricorrente, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall'art. 366 c.p.c., avrebbe dovuto riportare testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l'esame del ricorso (Cass. n. 16147/2017; n. 9536/2013).

4. Il quarto motivo denuncia, in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., la violazione dell'art. 33, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973: «La Guardia di finanza coopera con gli uffici delle imposte per l'acquisizione e il reperimento degli elementi utili ai fini dell'accertamento dei redditi e per la repressione delle violazioni delle leggi sulle imposte dirette procedendo di propria iniziativa o su richiesta degli uffici secondo le norme e con le facoltà di cui all'art. 32 e al precedente comma. Essa inoltre, previa autorizzazione dell'autorità giudiziaria, che può essere concessa anche in deroga all'articolo 329 del codice di procedura penale, utilizza e trasmette agli uffici delle imposte documenti, dati e notizie acquisiti, direttamente o riferiti ed ottenuti dalle altre Forze di polizia, nell'esercizio dei poteri di polizia giudiziaria».

Secondo la Ctr l'autorizzazione prevista dalla norma «tende a tutelare la riservatezza delle indagini penali, ma non costituisce limite all'utilizzo dei dati acquisiti dalla Guardia di finanza nell'esercizio dei poteri di polizia giudiziaria».

Al contrario la ricorrente sostiene che l'autorizzazione costituisce un presupposto del procedimento, la cui mancanza infirma tutti gli atti del procedimento nei quali questo si articola.

4.1. Il motivo è infondato. Costituisce principio acquisito nella giurisprudenza di questa Suprema corte tanto in materia di Iva (d.P.R. n. 633 del 1972, art. 63, comma 1), quanto in materia di imposte dirette (d.P.R. n. 600 del 1973, art. 33), che l’autorizzazione dell'autorità giudiziaria, richiesta dalle norme per la trasmissione, agli Uffici delle imposte, dei documenti, dati e notizie acquisiti dalla Guardia di finanza nell'ambito di un procedimento penale, è posta a tutela della riservatezza delle indagini penali, e non dei soggetti coinvolti nel procedimento medesimo o di terzi. Ne discende che la sua mancanza, se può avere riflessi anche disciplinari a carico del trasgressore, non tocca l'efficacia probatoria dei dati trasmessi, né implica l'invalidità dell'atto impositivo adottato sulla scorta degli stessi. L'autorizzazione in parola è stata, infatti, introdotta per realizzare una maggiore tutela degli interessi protetti dal segreto istruttorio (C. Cost.51/92), piuttosto che per filtrare ulteriormente l'acquisizione di elementi significativi a fini fiscali (Cass. 11203/07; 27947/09; 27149/11; Cass. n. 12549/2016).

5. Il quinto motivo denuncia in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. violazione e falsa applicazione dell'art. 33, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, dell'art. 63, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972, dell'art. 3, della I. n. 241 del 1990.

Si sostiene che l'avviso di accertamento, motivato mediante adesione al processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza, nasconde dietro lo schermo della motivazione per relationem una duplice violazione commessa dall'Ufficio: una consistente nell'aver delegato il potere accertativo ai militari, in contrasto con la norma di legge che affida loro solo un compito di cooperazione; l'altra consistente nel difetto di motivazione del provvedimento.

Il motivo è infondato. «In tema di atto amministrativo finale di imposizione tributaria, nella specie relativo ad avviso di rettifica di dichiarazione IVA da parte dell'Amministrazione finanziaria, la motivazione per relationem, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell'esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima, per mancanza di autonoma valutazione da parte dell'Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l'Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio» (Cass. n. 21119/2011; conf. Cass. n. 8183/2011).

6. Il sesto motivo denuncia, in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., violazione dell'art. 7 della I. n. 212 del 2000. Il ricorrente sostiene che, in ipotesi di motivazione per relationem, l'obbligo di allegazione dell'atto richiamato, diversamente da quanto ritenuto dalla Ctr, opera pure in relazione al caso in cui esso sia stato già portato a conoscenza del contribuente.

6.1. Il motivo è infondato. Nel regime introdotto dalla legge 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, l'obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem, cioè mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione che questi ultimi siano allegati all'atto notificato o questo ne riproduca il contenuto essenziale ovvero siano già conosciuti dal contribuente per effetto di precedente notificazione (Cass. n. 13110/2012). Ciò comporta che «l'art. 7, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212, nel prevedere che debba essere allegato all'atto dell'Amministrazione finanziaria ogni documento richiamato nella motivazione di esso, non trova applicazione per gli atti di cui il contribuente abbia già avuto integrale e legale conoscenza per effetto di precedente comunicazione» (Cass. n. 407/2015).

7. Il settimo motivo denuncia in relazione all'art. 360, comma primo, n. 4, c.p.c., la illegittimità della sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c. per avere la Ctr omesso di pronunciare sulle eccezioni con le quale la contribuente ha eccepito l'illegittimità degli avvisi di accertamento impugnati "per rinvio ad atti sconosciuti al contribuente e violazione del diritto di difesa". Il motivo è infondato. «Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un'espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logico-giuridica della pronuncia» (Cass. n. 20311/2011; conf. n. 21612/2013; n. 17956/2015).

Tale incompatibilità deve riscontrarsi nel caso in esame, posto che le eccezioni miravano a far valere l'illegittimità della pretesa impositiva per ragioni formali, pretesa che la Ctr ha invece riconosciuto fondata nel merito, con ciò, appunto, assumendo una decisione incompatibile con la supposta deduzione non esaminata, che è stata così implicitamente rigettata.

8. L'ottavo motivo denuncia insufficienza della motivazione, in relazione all'art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c.

Il fatto a cui è riferito il vizio di motivazione è la inesistenza delle imprese che hanno intrattenuto rapporti commerciali con il sig. D.G..

Secondo il ricorrente la Ctr ha richiamato i controlli effettuati presso l'anagrafe tributaria e le sommarie informazioni assunte dai verificatori, senza dare adeguata ragione del proprio convincimento.

8.1. Il motivo è inammissibile. È stato precisato che «il riferimento - contenuto nell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (nel testo modificato dall'art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, applicabile ratione temporis) - al "fatto controverso e decisivo per il giudizio" implicava che la motivazione della "quaestio facti" fosse affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che fosse tale da determinare la logica insostenibilità della motivazione (Cass. n. 17037/2015». Così «costituisce fatto (o punto) decisivo ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. quello la cui differente considerazione è idonea a comportare, con certezza, una decisione diversa (Cass. n. 18368/2013; conf. n. 3668/2013)».

In evidente contrasto rispetto a tali principi, la ricorrente censura genericamente e complessivamente la decisione, in assenza di qualsiasi indicazione di "fatti" qualificabili come decisisi nel significato sopra chiarito. In verità, la ricorrente, sotto la veste del vizio di motivazione, chiede inammissibilmente e immotivatamente una revisione del ragionamento decisorio, che è attività che non rientra nell'ambito del controllo consentito alla Corte ai sensi del n. 5 del primo comma dell'art. 360 nel testo applicabile ratione temporis, «posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità» (Cass. n. 11789/2005).

9. Il nono motivo denuncia, sempre in relazione all'art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c., insufficienza della motivazione là dove la Ctr ha ritenuto che il contribuente non avesse provato che l'inesistenza delle operazioni fosse solo soggettiva.

9.1. Il motivo condivide i medesimi profili di inammissibilità del motivo precedente. Anche in questo caso la ricorrente si duole del giudizio, ma non indica fatti idonei a giustificare una decisione diversa. Essa propone solo una riflessione logica (le fatture contestate costituivano la maggioranza delle fatture ricevute, per cui ipotizzandone la inesistenza se ne dovrebbe concludere che il ricorrente non avrebbe svolto alcuna attività) che avrebbe reso solo plausibile una diversa considerazione. Secondo il rigoroso insegnamento di questa Corte che: «in sede di legittimità il controllo della motivazione in fatto si compendia nel verificare che il discorso giustificativo svolto dal giudice del merito circa la propria statuizione esibisca i requisiti strutturali minimi dell'argomentazione (fatto probatorio - massima di esperienza - fatto accertato) senza che sia consentito alla Corte sostituire una diversa massima di esperienza a quella utilizzata (potendo questa essere disattesa non già quando l'interferenza probatoria non sia da essa necessitata, ma solo quando non sia da essa neppure minimamente sorretta o sia addirittura smentita, avendosi, in tal caso, una mera apparenza del discorso giustificativo) o confrontare la sentenza impugnata con le risultanze istruttorie, al fine di prendere in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione» (Cass. n. 14953 del 2000).

10. Identica considerazione va fatta per il decimo motivo, il quale denuncia, ancora in relazione all'art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c., motivazione insufficiente, sotto il profilo perché la Ctr non avrebbe spiegato per quale motivo le sanzioni sarebbero state irritualmente irrogate.

10.1. Anche in questo caso la ricorrente si duole della valutazione operata dalla Ctr, ma non indica elementi che avrebbero dovuto giustificare l'inapplicabilità o la diversa misura delle sanzioni. Del resto il vizio motivazionale ora in esame è per lo più riferito a questione non di fatto, ma di diritto, per cui la sentenza avrebbe dovuto essere al limite censurata con un diverso mezzo di impugnazione.

In conclusione il ricorso va interamente rigettato.

Le spese seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in complessive € 10.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.