Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 22 novembre 2017, n. 53137

Dichiarazione di redditi da attività illecita - Principio nemo tenetur se detegere - Violazione dell'art. 5, D.Lgs. n. 74 del 2000

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 25/2/2016, la Corte di appello di Ancona confermava la pronuncia emessa il 9/12/2014 dal Tribunale di Pesaro, con la quale L.C. era stato dichiarato colpevole del delitto di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen., 5, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74, e condannato alla pena di due anni e tre mesi di reclusione; allo stesso, quale titolare di un'omonima ditta individuale, era contestato di non aver presentato la dichiarazione di redditi da attività illecita - negli anni 2005 e 2006 - per un imponibile complessivo pari a quasi 6,5 milioni di euro.

2. Propone ricorso per cassazione il C., a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:

- erronea applicazione dell'art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000. La Corte di appello, confermando l'indirizzo secondo il quale dovrebbero esser dichiarati anche i redditi da attività illecita, avrebbe violato il principio del nemo tenetur se detegere, ribadito costantemente anche dalla Corte EDU; in forza di questa giurisprudenza, in particolare, accusa e difesa dovrebbero esser dotate delle stesse prerogative, sicché il privato non potrebbe esser costretto - con coazione fisica o psicologica - a fornire all'amministrazione prove a sé sfavorevoli;

- erronea applicazione del medesimo art. 5; vizio motivazionale. Per individuare l'origine delle somme in oggetto, la sentenza si sarebbe affidata ad una prova logica destituita di ogni fondamento e riscontro; l'entità delle stesse, inoltre, non ne dimostrerebbe ex se la derivazione illecita, che avrebbe dovuto costituire oggetto di prova da parte della pubblica accusa. La sentenza, sul punto, risulterebbe inoltre contraddittoria, perché prima qualificherebbe tali importi come redditi percepiti dal C., quindi ammetterebbe che lo stesso danaro - nella quasi totalità - sarebbe però uscito dai conti correnti a lui intestati, per esser trasferito altrove. Con la conseguenza che nessuna prova sussisterebbe in ordine alla stessa natura reddituale delle somme, né, ancora, al superamento della soglia di punibilità di cui all'art. 5 contestato (pari a 50.000 euro); ed invero, non essendo stata accertata la differenza tra quanto entrato sui conti e quanto poi uscito, non si potrebbe neppure verificare il raggiungimento della soglia medesima;

- erronea applicazione del medesimo art. 5; violazione dell'art. 521 cod. proc. pen.; vizio di motivazione. La sentenza non avrebbe affatto provato l'origine illecita delle somme in esame, e pertanto l'imputato non avrebbe potuto esser condannato per la condotta di cui alla rubrica; questa, infatti, avrebbe ad oggetto proprio danari con quella specifica provenienza, dal che - in assenza di riscontri sul punto - nessuna responsabilità potrebbe esser affermata. La diversa decisione assunta dalla Corte, dunque, violerebbe l'art. 521 cod. proc. pen., atteso che il C. avrebbe costruito la propria difesa esclusivamente sull'oggetto della rubrica e, pertanto, sul presunto carattere illecito delle somme; per contro, qualora l'art. 5 in esame fosse stato contestato con riguardo a redditi di origine lecita, diversa sarebbe stata la materia della difesa medesima;

- violazione del ne bis in idem. Il ricorrente sarebbe stato condannato con riferimento ad una omissione già ascrittagli in sede amministrativa, con irrogazione di una sanzione di oltre 3,3 milioni di euro; dal che, come anche affermato da giurisprudenza di merito, così come dalla Corte EDU, la palese violazione del citato principio, derivante dalla illegittimità del cd. doppio binario;

- violazione degli artt. 99 e 133 cod. pen.; travisamento del fatto. La Corte di appello, nel determinare l'entità della pena, avrebbe tenuto conto di reati commessi successivamente al fatto contestato, nonché di altri fatti assai risalenti. Ne consegue che la recidiva avrebbe dovuto esser esclusa, con ogni effetto in punto di trattamento sanzionatorio.

 

Considerato in diritto

 

Preliminarmente, deve esser esaminata l'istanza di rinvio proposta dal difensore con nota depositata il 13/9/2017, fondata sul presupposto che il ricorrente - il quale avrebbe ricevuto notifica dell'estratto contumaciale della sentenza (ex art. 161, comma 4, cod. proc. pen.) soltanto il 5/9/2017 - sarebbe ad oggi ancora in termini per proporre un autonomo ricorso per cassazione; orbene, la richiesta deve esser rigettata.

Al riguardo, occorre premettere che il gravame qui in oggetto è stato proposto dall'Avv. M. in forza di un "atto di nomina a difensore di fiducia e procura speciale" sottoscritto dal C. il 7/3/2016, ossia pochi giorni prima della presentazione del ricorso stesso; ciò premesso, costituisce costante e condiviso indirizzo di questa Corte quello secondo cui l'imputato  che, dopo una sentenza emessa in contumacia nei suoi confronti, conferisce al proprio difensore procura speciale per proporre impugnazione, è privo di legittimazione a chiedere o a far chiedere dal suo fiduciario di essere rimesso in termini per impugnare autonomamente la decisione, nonostante la mancata notifica dell'estratto contumaciale, essendosi spogliato, mediante il rilascio della delega, del proprio diritto all'impugnazione (tra le altre, Sez. 6, n. 10537 del 9/2/2017, F., Rv. 269729; Sez. 2, n. 42651 del 13/10/2015, D'Alessandro, Rv. 265256).

Dal che, l'infondatezza dell'istanza di rinvio.

4. Quanto poi al merito dell'impugnazione, la stessa risulta manifestamente infondata.

Con riguardo alla prima doglianza, rileva il Collegio che questa è stata già affrontata dalla Corte di appello, e risolta con motivazione congrua e non manifestamente illogica; come tale, quindi, non censurabile. In particolare, la sentenza - richiamata la lettera dell'art. 14, comma 4, I. 24 dicembre 1993, n. 537, che denomina redditi "i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo" - ha precisato che l'art. 5 in contestazione non comporta alcuna violazione del principio nemo tenetur se detegere, in quanto la presentazione della dichiarazione dei redditi (quand'anche di natura illecita) non costituisce ex se una denuncia a proprio carico, ma soltanto una comunicazione inviata a fini fiscali, ed alla quale solo in via eventuale seguiranno accertamenti in ordine all'origine delle somme medesime.

Con la conseguenza - indicata dalla Corte di merito e più volte ribadita anche in questa sede - per cui l'omessa presentazione della dichiarazione stessa costituisce violazione dell'art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000, anche quando abbia ad oggetto redditi di provenienza illecita (tra le altre, Sez. 3, n. 42160 del 7/10/2010, Violi, Rv. 248729, a mente della quale integra il delitto in esame l'omessa dichiarazione dei redditi derivanti dall'attività di sfruttamento dell'altrui prostituzione, in quanto ogni provento, anche illecito, rappresenta reddito tassabile, la cui mancata indicazione nella dichiarazione annuale costituisce reato. In termini, anche Sez. 5, n. 7411 del 19/11/2009, Di Lorenzo, Rv. 246095, con riguardo a redditi provenienti da attività distrattiva compiuta su disponibilità finanziarie di società fallita).

5. La materia, peraltro, è stata ancora trattata da una recentissima sentenza di questa Sezione (Sez. 3, n. 37107 del 7/3/2017, Griotti, non massimata), con argomenti - condivisi dal Collegio - che meritano di esser qui richiamati. In particolare, ed esaminando la stessa questione qui riproposta, si è affermato che in generale, al di fuori di espresse previsioni normative operanti nel campo sostanziale e nel caso di specie non ricorrenti, il principio del nemo tenetur se detegere si qualifica come diritto di ordine processuale e non può dispiegare efficacia al di fuori del processo penale (Sez. 5, n. 9746 del 12/12/2014, Fedrizzi, Rv. 262941; Sez. 5, n. 8252 del 15/01/2010, Bassi, Rv. 246157 e, di recente, Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012, Luperi, Rv. 253545), con la conseguenza che esso giustifica la non assoggettabilità ad atti di costrizione tendenti a provocare un'autoincriminazione, ma non anche la possibilità di violare regole di comportamento poste a tutela di interessi non legati alla pretesa punitiva; infatti, il diritto di difesa non comporta anche quello di arrecare offese ulteriori. «Va, quindi, richiamato il principio di diritto secondo il quale la circostanza che il possesso di redditi possa costituire reato e che l'autodenuncia possa violare il principio nemo tenetur se detegere è sicuramente recessiva rispetto all'obbligo di concorrere alle spese pubbliche ex art. 53 della Costituzione, dichiarando tutti i redditi prodotti (effettivi), espressione di capacità contributiva (cfr in termini Cass. civ. Sez. 5, n. 3580 del 2016) E' stato, sul punto, precisato che "la ormai incontestata e riconosciuta normativamente tassabilità dei proventi illeciti, anche delittuosi, comporta il necessario superamento di ogni remora anche in ordine alla dichiarazione, essendo connaturale al possesso di un reddito tassabile il relativo obbligo di dichiarazione" (Cass. civ Sez.5, n. 20032 del 30/09/2011, Rv. 619268 - 01). Né sussiste la violazione dell'art. 6 CEDU, il quale - nel riconoscere al soggetto il diritto a tacere e a non contribuire alla propria incriminazione, a conferma e garanzia irrinunciabile dell'equo processo - opera esclusivamente nell'ambito di un procedimento penale già attivato, stante la sua "ratio" consistente nella protezione dell'imputato da coercizioni abusive da parte dell'autorità (Sez. 5, n. 12697 del 20/11/2014, Rv.263034)».

6. Quanto precede, infine, non sembra superato neppure dall'arresto della Corte EDU 5 aprile 2012, Chambaz c. Svizzera, citato nel presente ricorso; questa decisione, infatti, sia pur significativa, ha ad oggetto un caso diverso da quello qui in esame, nel quale un contribuente - nell'ambito di un accertamento fiscale a suo carico - si era rifiutato di fornire all'autorità amministrativa documenti che potevano costituire prova dell'evasione fiscale, ed era stato perciò sanzionato.

Dal che, la palese infondatezza della prima doglianza.

7. Alle medesime conclusioni, poi, perviene il Collegio anche con riguardo alla seconda ed alla terza, da trattare congiuntamente, attesane la sostanziale identità di ratio.

Osserva la Corte, invero, che l'argomento impiegato dal Collegio di appello per affermare la natura illecita dei redditi in oggetto non risulta apodittico o manifestamente illogico, ma, anzi, proprio a logica ispirato e, quindi, non censurabile; tale, infatti, dovendosi ritenere l'affermazione secondo cui non possono che considerarsi illeciti - in assenza di qualsivoglia indicazione circa la loro origine, da parte del percipiente - redditi estremamente elevati, per milioni di euro, pervenuti su conti correnti di un soggetto che, pur svolgendo un'attività commerciale (venditore ambulante di vestiti), mai aveva istituito scritture contabili e mai aveva presentato dichiarazioni fiscali. E senza che, peraltro, possa ravvisarsi sul punto la denunciata contraddittorietà motivazionale, atteso che il (non contestato) successivo trasferimento della quasi totalità di queste somme ad altre persone non esclude che le stesse fossero state comunque percepite dal C., sì da doversi considerare redditi soggetti a tassazione e dichiarazione.

8. Non solo.

La sentenza impugnata, di seguito, ha preso in esame anche un'ipotesi residuale, ossia un'ipotetica - e del tutto indimostrata - provenienza lecita del danaro in oggetto, pervenendo comunque al medesimo giudizio di penale responsabilità. Con riguardo ad un'eventuale deducibilità dei costi e, quindi, nell'ottica del superamento della soglia di punibilità di cui all'art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000, la Corte di appello ha infatti sostenuto che: 1) il ricorrente non aveva fornito alcun elemento in tal senso; 2) l'attività di ambulante per la vendita di abbigliamento non poteva aver certo generato costi tali da "incidere" su redditi che - come già richiamato - avevano superato i tre milioni di euro per ciascuno degli anni 2005 e 2006. Dal che, il più che verosimile superamento della soglia di 50.000 euro, come individuata dall'art. 5 in oggetto con riferimento all'entità minima penale dell'imposta evasa. Una motivazione, dunque, ancora del tutto congrua, fondata su concreti elementi oggettivi e priva di qualsivoglia illogicità manifesta; un argomento, inoltre, al quale il ricorso non dedica alcuna effettiva censura, limitandosi ad una doglianza generica, che fa leva sull'assenza del carattere reddituale delle somme in esame (confutata dalla Corte nei termini anzidetti) e sulla mancanza di prova circa il superamento della citata soglia (affermato in sentenza con motivazione non manifestamente illogica e, quindi, non censurabile).

9. Con riguardo, poi, alla dedotta violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., la stessa appare manifestamente infondata.

L'art. 521 cod. proc. pen.- "Correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza" - stabilisce che il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa dalla quella enunciata nell'imputazione, purché il reato non ecceda la sua competenza e non risulti attribuito alla cognizione del Tribunale collegiale, anziché monocratico. Questa facoltà - che risponde all'esigenza, in capo al giudice, di inquadrare la condotta accertata nei suoi più corretti termini giuridici, sì da riconoscere la fattispecie di reato effettivamente riferibile al caso di specie - si deve conformare a due criteri essenziali, connessi in modo indissolubile tra loro ed ulteriori a quelli, di carattere procedurale, riportati nella norma testé citata: l'identità del fatto ritenuto in sentenza rispetto a quello contestato e l'assenza di ogni pregiudizio in punto di esercizio del diritto di difesa rispetto allo stesso.

9.1. Il primo elemento si ricava dallo stesso testo dell'art. 521, comma 1, cod. proc. pen., se letto alla luce del comma seguente; a mente di quest'ultimo, infatti, il giudice che ritiene che il fatto accertato sia "diverso" da come contestato, deve trasmettere con ordinanza gli atti al pubblico ministero, diversamente dall'ipotesi in cui la diversità attenga soltanto alla qualificazione giuridica dello stesso fatto, nel qual caso - attesa la richiamata lettera del comma 1 - potrà procedere a riqualificazione a mezzo sentenza.

9.2. Non sempre, però, è agevole comprendere se tale carattere di identità/diversità sussista o meno nel caso concreto, e quale portata debba effettivamente rivestire per consentire l'intervento dell'uno o dell'altro comma della norma in oggetto; ecco, dunque, che la verifica viene interessata anche dal secondo criterio sopra enunciato in ordine alla facoltà di cui all'art. 521, comma 1, cod. proc. pen., quale l'effettività del diritto di difesa.

9.3. Al riguardo, occorre richiamare l'orientamento espresso dal supremo Consesso di questa Corte, in forza del quale per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso "l’iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (tra le molte, Sez. U., n. 36551 del 15/7/2010, Carelli, Rv. 248051). In altri termini, sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di incompatibilità ed eterogeneità, verificandosi un vero e proprio stravolgimento dei termini dell'accusa, a fronte dei quali l'imputato è impossibilitato a difendersi (Sez. 1, n. 28877 del 4/6/2013, Colletti, Rv. 256785); rapporto che dovrà esser verificato alla luce non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione e, quindi, di decisione (Sez. 3, n. 15655 del 27/2/2008, Fontanesi, Rv. 239866). Ne deriva che la nozione strutturale di "fatto" - inteso come episodio della vita umana - va coniugata con quella funzionale, fondata sull'esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa (Sez. 1, n. 35574 del 18/3/2013, Crescioli, Rv. 257015), invero non ravvisabili qualora la nuova definizione del reato appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, o, comunque, l'imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine alla stessa (Sez. 5, n. 1697 del 25/9/2013, Cavallari, Rv. 258941; Sez. 3, n. 2341 del 7/11/2012, Manara, Rv. 254135).

10. Orbene, tutto ciò richiamato, osserva la Corte che nessun rapporto di incompatibilità od eterogeneità nel senso suddetto può esser ravvisato nel caso di specie, così come nessuna violazione del diritto di difesa; il doppio capo di imputazione, infatti, ha ad oggetto l'omessa dichiarazione di redditi per gli anni 2005 e 2006, per un imponibile complessivo di quasi 6,5 milioni di euro, il che non è contestato neppure dal ricorrente. Condotta omissiva pacifica, quindi, che priva ex se di rilievo il riferimento al carattere illecito di tali redditi, contenuto nella rubrica: emerge chiara, piuttosto, la piena identità tra l'omissione ascritta e quella riconosciuta, non essendo stati peraltro mai neppure dedotti redditi ulteriori - di natura lecita - eventualmente suscettibili di dichiarazione. E fermo restando, da ultimo sul punto, che la sentenza ha confermato la condanna proprio sul presupposto - accertato in via logica, con argomento non censurabile - che le somme in oggetto provenissero davvero da attività illecita, rappresentando l'ulteriore ipotesi, sopra richiamata, come solo eventuale e del tutto residuale.

11. Manifestamente infondata, di seguito, anche la quarta doglianza, in punto di ne bis in idem. Al riguardo, infatti, basta richiamare il carattere del tutto generico dell'argomento, con il quale si assume - senza alcun sostegno istruttorio o documentale - che il Cecchini avrebbe subito l'irrogazione di una sanzione amministrativa per circa 3,3 milioni di euro; senza specificarsi, peraltro, se la stessa abbia ad oggetto la medesima vicenda tributaria qui in esame, e se la sanzione abbia assunto carattere definitivo, oppure sia stata opposta nelle sedi competenti.

12. Da ultimo, il trattamento sanzionatorio; orbene, anche sul punto la sentenza non merita alcuna censura, avendo fatto buon governo dell'art. 133 cod. pen.

La Corte di appello, infatti, ha preso in esame non solo la condotta contestata e la sua rilevante entità, ma anche i numerosi precedenti specifici a carico (anche depenalizzati); questi, in uno con altri reati commessi successivamente ai fatti qui in esame, hanno poi costituito il congruo fondamento per il giudizio di pericolosità sociale, fonte del riconoscimento della recidiva contestata e del conseguente aumento di pena.

12. Il ricorso, pertanto, deve esser dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativannente fissata in euro 2.000,00.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.