Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 13 settembre 2019, n. 22929

Superamento del periodo di comporto - Licenziamento - Assenze riconducibili riconducibili a malattia di origine professionale - Annullamento - lndennità risarcitoria

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 260/2018, depositata il 22 gennaio 2018, la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale di Tivoli aveva annullato il licenziamento intimato, con lettera del 25 giugno 2013, da T. W.S. S.p.A. a M. S. per superamento del periodo di comporto.

2. La Corte ha osservato come non potessero rientrare, nel computo del relativo periodo, le assenze dal 25 gennaio al 22 marzo 2013, in quanto riconducibili ad una malattia di origine professionale, secondo le risultanze della consulenza tecnica d'ufficio di cui era stata disposta la rinnovazione in grado di appello.

3. La Corte ha inoltre confermato la decisione del primo giudice con riferimento alla determinazione dell'indennità risarcitoria, liquidata nel massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, rilevando come tale misura fosse stata stabilita dal legislatore a tutela del datore di lavoro per il caso in cui il tempo intercorrente tra il licenziamento e l'ordine di reintegra sia superiore all'anno: circostanza, questa, che si era verificata nella specie, posto che il licenziamento era stato disposto nel giugno 2013 e la sentenza, con il conseguente ordine di reintegrazione, era stata pronunciata nel gennaio 2017.

4. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la società datrice di lavoro, con quattro motivi, cui ha resistito il lavoratore con controricorso.

5. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione o falsa applicazione dell'art. 115 cod. proc. civ., in relazione all'art. 1, comma 53, I. n. 92/2012, e degli artt. 414 e 416 cod. proc. civ., nonché vizio di motivazione, per non avere la Corte di appello preso in esame, sul rilievo che fossero generiche, le contestazioni mosse alla ricostruzione fattuale proposta in giudizio dal lavoratore ed inoltre per non avere valutato le prove testimoniali articolate dalla società resistente, con particolare riferimento all'impiego dello stesso sulla macchina denominata XL, e quelle documentali (i documenti sulla sicurezza), prove che avrebbero dimostrato l'assenza del nesso di causalità tra l'attività lavorativa e l'insorgere della patologia.

2. Con il secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 62, 115 e 116 cod. proc. civ. per avere la Corte di appello prestato adesione alle conclusioni e alle argomentazioni del consulente tecnico d'ufficio, nonostante le carenze dell'indagine dallo stesso svolta, e per non avere preso specifica posizione sui rilievi motivatamente sollevati dal consulente di parte della società.

3. Con il terzo motivo viene dedotta dalla ricorrente la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., nonché dell'art. 2697 cod. civ., per non avere la Corte dato ingresso alla prova per testi e interrogatorio formale articolata con riguardo alle effettive modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.

4. Con il quarto viene infine denunciata la violazione o falsa applicazione dell'art. 18 della I. n. 300/1970, nonché vizio di motivazione, per avere la Corte determinato l'indennità risarcitoria nella misura massima di dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, sebbene la norma, che la prevede, si limiti unicamente a stabilire un tetto massimo, di conseguenza lasciando al giudice il potere discrezionale di definire il quantum risarcitorio entro tale parametro, a seconda delle peculiarità del caso.

5. Il ricorso deve essere respinto.

6. Quanto al primo motivo, si osserva che la circostanza che il lavoratore fosse stato addetto, in maniera esclusiva o comunque prevalente, alla macchina denominata XL ha formato oggetto di specifico esame nella sentenza impugnata, là dove la Corte di appello, escludendone la decisività, ha rilevato come essa non portasse alcun elemento in favore della datrice di lavoro "in quanto, per sua stessa ammissione, tale macchina ha più standard di sicurezza delle altre due cui pure il lavoratore è stato adibito" (cfr. p. 6).

7. Il motivo si risolve, nelle ulteriori censure svolte, in un diverso apprezzamento di fatto, estraneo alle funzioni e al ruolo assegnato dall'ordinamento alla Corte di legittimità, e in una critica di ordine motivazionale, che non risulta conforme al modello del nuovo vizio di cui all'art. 360 n. 5 cod. proc. civ., quale risultante dalle modifiche introdotte nel 2012 e dalle precisazioni, circa il perimetro applicativo e gli oneri di deduzione, fornite dalle Sezioni Unite con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014.

8. Quanto al secondo motivo, deve confermarsi il principio di diritto, per il quale "non è carente di motivazione la sentenza che recepisce per relationem le conclusioni ed i passi salienti di una relazione di consulenza tecnica d'ufficio di cui dichiari di condividere il merito, ancorché si limiti a riconoscere quelle conclusioni come giustificate dalle indagini esperite e dalle spiegazioni contenute nella relativa relazione" (Cass. n. 4352/2019).

9. Deve inoltre confermarsi il principio di diritto, per il quale "allorché ad una consulenza tecnica d'ufficio siano mosse critiche puntuali e dettagliate da un consulente di parte il giudice che intenda disattenderle ha l'obbligo di indicare nella motivazione della sentenza le ragioni di tale scelta, senza che possa limitarsi a richiamare acriticamente le conclusioni del proprio consulente, ove questi a sua volta non si sia fatto carico di esaminare e confutare i rilievi di parte (incorrendo, in tal caso, nel vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ.): Cass. n. 23637/2016.

10. Nella specie, il consulente d'ufficio ha "risposto adeguatamente alle osservazioni formulate dal CT di parte reclamante", secondo quanto accertato dalla Corte di appello, la quale ha puntualmente riportato le repliche del proprio ausiliare ai rilievi mossi in sede di espletamento delle indagini (cfr. sentenza impugnata, pp. 10-11); né risulta dedotto dalla ricorrente che tali repliche fossero parziali, per avere omesso di considerare uno o più dei rilievi tecnici di parte, ovvero non pertinenti, in relazione al tenore specifico della critica, sostanziandosi il motivo in una rinnovata contrapposizione di valutazioni già compiutamente oggetto di dibattito o che nella sede del contradditorio tecnico avrebbero dovuto trovare espressione.

11. Consegue da quanto sopra che il secondo motivo deve ritenersi infondato.

12. Il terzo motivo risulta inammissibile.

13. Al riguardo si osserva innanzitutto che la censura di violazione dell'art. 2697 cod. civ. è configurabile ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. "soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest'ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del "nuovo" art. 360 n. 5 cod. proc. civ.): Cass. n. 13395/2018.

14. Il motivo in esame, d'altra parte, non si conforma al principio, secondo il quale "il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un'istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di esso, ha l'onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione, il giudice di legittimità deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative" (Cass. n. 19985/2017, fra le molte conformi): trascrizione, o quanto meno specifica indicazione, attraverso la puntuale indicazione delle circostanze di fatto erroneamente non ammesse e della loro decisività, che risulta assente nella specie, fermo restando quanto già sopra rilevato (n. 6) con riferimento al prevalente impiego del lavoratore sulla (tecnologicamente più avanzata e più sicura) macchina confezionatrice XL.

15. Anche il quarto e ultimo motivo non può trovare accoglimento.

16. L'art. 18, comma 4, I. n. 300/1970, a cui rinvia il comma 7 della stessa legge, nel disciplinare il licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110, secondo comma, cod. civ., dispone che - oltre all'annullamento del recesso e alla reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato - il datore di lavoro sia condannato "al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione", dedotto l'aliunde perceptum e percipiendum, prevedendo che "in ogni caso" la misura di detta indennità "non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto".

17. La norma, come correttamente inteso dalla Corte del merito, deve essere interpretata nel senso che il limite delle dodici mensilità, anche per l'assenza di previsione di una "forbice" tra un minimo ed un massimo, e al di là di una formulazione che, con il richiamo ad una misura che "non può essere superiore", potrebbe suggerire l'ipotesi di un potere discrezionale nella sua liquidazione del giudice di merito, opera a tutela del datore di lavoro, nel caso in cui - come nella fattispecie dedotta in giudizio - la durata del periodo  intercorrente tra il licenziamento e la data dell'ordine giudiziale di reintegrazione, in relazione al quale competono al lavoratore le retribuzioni, venga ad essere superiore all'anno.

18. In sostanza, il fatto di non poter essere (la misura dell'indennità) superiore a dodici mensilità ha il suo, necessario e unico, termine di confronto nella (eventualmente) maggiore estensione del periodo considerato, svolgendo una funzione contenitiva di effetti economici destinati a incidere anche in misura molto rilevante sul debitore in ragione di sviluppi ed eventi allo stesso non addebitabili e comunque non rientranti nella accertata illegittimità della sua condotta.

19. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.