Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 15 febbraio 2017, n. 4015

Licenziamento - Per riduzione di personale - Riorganizzazione del settore commerciale - Assegnazione delle mansioni ad altro dipendente

 

Svolgimento del processo

 

1 - La Corte di Appello di Bologna, in riforma della sentenza del Tribunale di Rimini che aveva respinto il ricorso, ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato il 19 settembre 2007 dalla G. s.p.a. a C. Di G. e ha condannato la società a reintegrare l'appellante nel posto di lavoro in precedenza occupato e a corrispondere allo stesso, a titolo di risarcimento del danno, le retribuzioni maturate dalla data del recesso sino alla effettiva reintegra, detratto l'aliunde perceptum e fermo il limite minimo delle cinque mensilità di cui all’art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 1970.

2 - La Corte territoriale ha premesso che il Di G. era stato licenziato per riduzione di personale e che nella successiva lettera del 19 novembre 2007 la società, in risposta alla impugnativa di licenziamento, aveva precisato che la scelta era caduta sull'appellante in quanto la zona al medesimo assegnata non aveva espresso le potenzialità presunte ed era stata riconsegnata ad altro venditore esperto. Il giudice di appello ha evidenziato che:

a) la produzione documentale smentiva quanto asserito dalla G. in relazione alla situazione sfavorevole che aveva reso necessaria la riorganizzazione del settore commerciale, atteso che il bilancio si era chiuso con un aumento del fatturato al 31 dicembre 2007 e che nella relazione di accompagnamento era stata sottolineata la crescita dei ricavi di vendita, derivata dalla incorporazione di altra società;

b) la pacifica riduzione delle vendite nella zona di Pesaro non giustificava il licenziamento, perché la società non aveva deciso di sopprimere il posto di lavoro relativo a detta zona, ma solo di assegnare la stessa ad altro dipendente;

c) la insussistenza del giustificato motivo oggettivo, di carattere assorbente, rendeva non necessario l’esame degli ulteriori motivi di appello inerenti la genericità della motivazione del recesso e la violazione del principio di immodificabilità;

d) andava comunque rilevato che la decisione della società di sostituire il Di G. con altro esperto venditore, al quale in precedenza la zona era stata assegnata, non appariva "logicamente spiegabile se non in base al presupposto per cui la mancata realizzazione delle potenzialità di quella zona fosse addebitabile non a meccanismi di mercato quanto piuttosto all'opera del venditore";

e) il licenziamento in tal caso sarebbe stato comunque illegittimo perché intimato per giustificato motivo soggettivo, in violazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970.

3 - Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la G. s.p.a. sulla base di tre motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.. C. Di G. ha resistito con tempestivo controricorso.

 

Motivi della decisione

 

1.1 - Con il primo motivo la G. s.p.a. denuncia "violazione e/o errata interpretazione ed applicazione dell'art. 41 della Costituzione, art. 3 legge 604/1966 e art. 116 c.p.c.". Sostiene la ricorrente che il Giudice, ove chiamato a valutare la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve solo accertare la effettività della scelta organizzativa e il nesso causale fra la decisa riorganizzazione e il recesso della cui legittimità si discute, non potendosi spingere ad esprimere giudizi di opportunità, utilità, necessità in merito alla scelta medesima. Aggiunge che non è necessario che sussista una situazione di difficoltà o di crisi aziendale, sicché la Corte territoriale avrebbe dovuto valorizzare solo la effettività della riorganizzazione del settore commerciale, che aveva coinvolto tutto il personale ivi addetto, con ridistribuzione delle mansioni e riduzione complessiva di tre unità. Evidenzia che al Di G. erano state offerte mansioni equivalenti, di magazziniere o di autista, che lo stesso aveva rifiutato e che la assegnazione della zona ad altro venditore era conseguenza della necessità di individuare il personale da licenziare nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, che impongono di valorizzare la anzianità di servizio e il bagaglio professionale dei dipendenti assegnati alla stessa funzione. Infine censura la sentenza impugnata per avere erroneamente valutato la prova testimoniale e la documentazione prodotta, dalle quali emergevano, oltre alla effettività del processo organizzativo, la perdita del mercato di Bologna per la commercializzazione dei carrelli Linde, il crollo delle vendite nell'area di Pesaro e l'aumento dell'esposizione bancaria.

1.2 - Il secondo motivo censura la sentenza impugnata per "violazione e/o falsa applicazione del disposto di cui agli artt. 112 c.p.c.(vizio di ultrapetizione), dell'art. 1218 c.c. e dell'art. 18 comma V I. 300/70 ante riforma I. 92/2012". Sostiene la società ricorrente che il Di G. aveva manifestato già nel ricorso introduttivo la volontà di optare per il pagamento della indennità sostitutiva, per cui la Corte territoriale non avrebbe potuto ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro né condannare al risarcimento dei danni in misura pari alle retribuzioni maturate nei sei anni compresi fra la intimazione del licenziamento e la pronuncia della sentenza. Il giudice di appello, inoltre, avrebbe dovuto considerare che l'appellante aveva trovato immediatamente una nuova e stabile occupazione.

1.3 - Con la terza censura la G. s.p.a. si duole della "violazione e/o falsa applicazione del disposto di cui all'art. 7 legge 300/70 e 416 c.p.c.". Evidenzia che le eccezioni di genericità dei motivi e di violazione del principio di immodificabilità della causale del recesso erano state tardivamente sollevate nel corso del giudizio di primo grado, per cui le stesse dovevano essere ritenute inammissibili. Aggiunge che la Corte territoriale, nel ritenere il licenziamento ontologicamente disciplinare, aveva valorizzato "mere illazioni prive di reale supporto probatorio", avendo desunto dalla sola riduzione del fatturato nella zona di Pesaro la volontà dell'azienda di liberarsi di un dipendente scarsamente produttivo. Non aveva, però, considerato che la società aveva offerto al lavoratore mansioni equivalenti e questa circostanza smentiva da sola l'asserito intento di liberarsi di un dipendente non produttivo.

2 - Occorre premettere che non determina inammissibilità del ricorso l'omessa indicazione, nella rubrica dei singoli motivi, delle ipotesi previste dall'art. 360 c.p.c..

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, infatti, affermato che l'onere della specificità imposto dall'art. 366 n. 4 c.p.c. comporta solo l'esigenza di una chiara esposizione, nell'ambito del motivo, delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che consentano al giudice di legittimità di individuare la volontà dell'impugnante e di stabilire se lo stesso abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocabilmente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all'art. 360 c.p.c.(Cass. S.U. 24.7.2013 n. 17931).

Per le medesime ragioni è stato escluso che la inammissibilità possa derivare dalla articolazione del motivo in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere dedotto separatamente, purché la Corte sia posta in condizione di individuare le singole censure e di procedere al loro esame ( Cass. S.U. 6.5.2015 n. 9100).

3 - La sentenza impugnata ha dichiarato la illegittimità del licenziamento per "difetto di prova di un giustificato motivo oggettivo atto a determinare la decisione di recesso", rilevando che non erano stati dimostrati il "preteso

sfavorevole momento congiunturale" e il nesso causale fra i fattori che avrebbero determinato l'andamento negativo e la riorganizzazione aziendale, implicante la riduzione del personale dell'area commerciale.

3.1 - Il primo motivo, con il quale è dedotta la violazione dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966, non può essere accolto, perché le conclusioni alle quali la Corte territoriale è pervenuta sono conformi a diritto.

Si impone, peraltro, una integrazione della motivazione della sentenza impugnata, sollecitata dalle considerazioni svolte in ricorso in merito alla nozione di giustificato motivo oggettivo e ai limiti posti al sindacato giudiziale nei casi in cui il licenziamento venga intimato per ragioni "inerenti alla attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento della stessa".

Il Collegio condivide e fa propri i principi di diritto recentemente affermati da questa Corte con la sentenza n. 25201 del 2016 con la quale, esaminati i diversi orientamenti espressi in merito alla definizione del giustificato motivo oggettivo, si è ritenuto di dovere prendere le distanze da quelle pronunce che avevano ravvisato nell'andamento economico negativo dell’azienda un presupposto fattuale necessario del recesso, e si è evidenziato che, ai fini della legittimità del licenziamento, sono sufficienti ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro, ivi comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa, purché idonee a determinare un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo.

Si è osservato, infatti, che il tenore letterale dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966 non consente di restringere l'ambito di legittimità del recesso alle sole ipotesi in cui risulti accertata una crisi di impresa e si è aggiunto che né la Carta Costituzionale né il diritto dell'Unione impongono una limitazione ex ante delle ragioni sottese alle scelte organizzative riservate all'imprenditore, scelte che non possono essere sindacate dal giudice quanto ai profili di congruità ed opportunità. Ciò, peraltro, non significa assimilare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ad un recesso ad nutum perché, sebbene la decisione imprenditoriale di ridurre la dimensione occupazionale dell'azienda possa essere motivata anche da finalità che prescindano da situazioni sfavorevoli e che perseguano l'obiettivo dell'aumento di redditività dell'impresa, tuttavia è pur sempre necessario: che la riorganizzazione aziendale sia effettiva; che la stessa si ricolleghi causalmente alla ragione dichiarata dall'imprenditore; che il licenziamento si ponga in termini di riferibilità e di coerenza rispetto all'operata ristrutturazione.

Pertanto ove ¡I recesso "sia stato motivato richiamando l'esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso risulta ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall'imprenditore".

3.2 - Le ragioni per le quali la sentenza impugnata ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento non contrastano in alcun modo con i principi di diritto sopra sintetizzati, che il Collegio intende ribadire. La Corte territoriale, infatti, non ha affermato che il giustificato motivo oggettivo può ricorrere nella sola ipotesi in cui il riassetto organizzativo sia motivato da una situazione sfavorevole di mercato, bensì, valutate le risultanze istruttorie, ha ritenuto che la G. s.p.a. non avesse provato le motivazioni del recesso dichiarate dapprima nella lettera del 19 novembre 2007 e, successivamente, in sede giudiziale.

In particolare il giudice del merito ha escluso che la riorganizzazione potesse essere stata indotta dalle "sopravvenute ed inaspettate ragioni" indicate dalla società, perché non era stata fornita la prova della interruzione del rapporto con il cliente Linde e perché nella relazione allegata al bilancio del 31.12.2007 era stata sottolineata la "rilevante crescita dei ricavi di vendita", circostanza, questa, ritenuta idonea a smentire la allegata situazione contingente non favorevole. La Corte territoriale ha aggiunto che il calo del fatturato nella zona originariamente assegnata al Di G. non integrava giustificato motivo oggettivo, sia perché il posto di venditore non era stato soppresso bensì affidato ad altro dipendente, sia in quanto detta decisione "non pare logicamente spiegabile se non in base al presupposto per cui la mancata realizzazione delle potenzialità di quella zona fosse addebitabile non a meccanismi di mercato quanto piuttosto all'opera del venditore".

In sostanza il giudice di appello, valutate le allegazioni delle parti e il materiale probatorio acquisito, ha ritenuto di dovere escludere la veridicità della causale indicata dall'imprenditore, il quale aveva giustificato la riduzione del personale assegnato al settore commerciale con il richiamo a presunte difficoltà finanziarie e di mercato, e ha anche accennato ad una possibile pretestuosità della causale stessa, lì dove ha sottolineato che la sostituzione del Di G. sottendeva, evidentemente, una valutazione negativa della prestazione resa da quest'ultimo quale venditore.

3.3 - Il ricorso, nella parte in cui censura detto accertamento di fatto, è inammissibile perché la doglianza, per come formulata, non è riconducibile all'ipotesi prevista dall'art. 360 n. 5 c.p.c., nel testo modificato dalla legge 7 agosto 2012 n.134 ( pubblicata sulla G.U. n. 187 dell'11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, che consente di denunciare unicamente l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.

Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte ( Cass. S.U. 22.9.2014 n. 19881 e Cass. S.U. 7.4.2014 n. 8053) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell'art. 360 n. 5 c.p.c. ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l'anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, "in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione.".

Nessuna di dette ipotesi ricorre nella fattispecie, poiché la Corte territoriale ha dato ampio conto delle ragioni per le quali doveva ritenersi carente la prova del giustificato motivo oggettivo posto a fondamento del recesso.

3.4 - Una volta esclusa la violazione di legge per difetto assoluto di motivazione rileva solo l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia.

L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l'omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.

Il motivo, quindi, è validamente formulato ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c. solo qualora il ricorrente indichi il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il

"dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività".

Dette condizioni non ricorrono nella fattispecie, poiché il ricorso si risolve in una inammissibile critica del ragionamento decisorio seguito dalla Corte territoriale al quale contrappone una diversa lettura delle risultanze processuali.

4 - Il secondo motivo è inammissibile perché formulato senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione, imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 c.p.c.

Il principio secondo cui l'interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo a un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) o a quello del tantum devolutum quantum appellatum (art. 345 c.p.c.), trattandosi in tal caso della denuncia di un errore processuale che attribuisce alla Corte di cassazione il potere-dovere di procedere direttamente all'esame ed all'interpretazione degli atti e, in particolare, delle istanze e deduzioni delle parti ( in tal senso Cass. 10.10.2014 n. 21421 e Cass. S.U. 22.5.2012 n. 8077 in relazione alla ipotesi della nullità dell'atto introduttivo). Ciò, peraltro, non dispensa il ricorrente dall'onere di specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, di indicare in modo egualmente specifico i fatti processuali alla base dell'errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, diversi dalla sentenza impugnata, perché la Corte di cassazione non è legittimata a procedere a una loro autonoma ricerca, ma solo a una verifica degli stessi (fra le più recenti Cass. 4.7.2014 n. 15367, Cass. 10.11.2011 n. 23420).

Nel caso di specie la G. s.p.a. si è limitata a riportare nel motivo il solo punto e) delle conclusioni del ricorso di primo grado e detto richiamo non può essere ritenuto sufficiente a supportare la censura di violazione dell'art. 112 c.p.c. L'interpretazione della domanda, infatti, deve essere effettuata dal giudice tenendo conto non solo della letterale formulazione, ma anche del contenuto sostanziale e delle finalità perseguite dall'attore, sicché il ricorrente, nel denunciare il vizio di ultrapetizione, non può limitarsi ad estrapolare una parte delle conclusioni dell'atto introduttivo, senza dare conto del tenore delle ulteriori domande e delle ragioni esposte nell'atto a sostegno delle stesse.

4.1 - E', poi, manifestamente infondata la doglianza con la quale si assume che la Corte territoriale non avrebbe considerato che il Di G. "aveva trovato immediatamente una nuova e stabile occupazione, ragione per cui non aveva subito alcun danno contributivo e retributivo". Al contrario la sentenza impugnata di ciò ha dato atto, tanto che ha quantificato il risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione globale di fatto maturata dalla data del licenziamento sino alla reintegra "detratto l'aliunde perceptum risultante dalla documentazione acquisita e prodotta e fermo il limite minimo di cinque mensilità di cui all'art. 18, comma 5 L. 300/70".

5 - Dalla infondatezza dei primi due motivi di ricorso discende la inammissibilità del terzo motivo con il quale la società ha censurato la sentenza impugnata per avere ritenuto che il licenziamento, se intimato in relazione alla incapacità dimostrata dal Di G. nello svolgere le mansioni di venditore, avrebbe avuto natura ontologicamente disciplinare e, quindi, sarebbe stato illegittimo per violazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970.

La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, consolidata nell'affermare che "qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendì rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l'intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa." (Cass. 14.2.2012 n. 2108).

6 - Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno poste a carico della società ricorrente nella misura indicata in dispositivo, da distrarsi in favore dell'Avv. V. Q., dichiaratosi antistatario.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per esborsi ed € 3.500,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% e accessori di legge, con distrazione in favore dell'Avv. V. Q.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.