Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 22 dicembre 2016, n. 26805

Rapporto di lavoro - Demansionamento - Mobbing - Risarcimento danni - Accertamento

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso al Tribunale di Torino G.A.M. chiamava in giudizio la F. s.r.l. Centro medico L. ed esponeva una serie di comportamenti vessatori e persecutori, ivi compreso un grave demansionamento (era passata da mansioni di responsabile del personale alla qualità di semplice receptionist) da parte del datore di lavoro. Chiedeva, ritenuto che il comportamento tenuto ai suoi danni integrasse la fattispecie del mobbing o del bossing, la condanna della F. Centro medico L. a reintegrarla nelle mansioni già svolte ed al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale. Si costituiva la società contestando la fondatezza della domanda. Il Tribunale rigettava le domanda; la Corte di appello di Torino con sentenza del 11.2.2011 dichiarava l'illegittimità del demansionamento patito della lavoratrice e condannava la datrice di lavoro a reintegrarla nelle mansioni già svolte ed a risarcirle il danno nella misura di 10.000,00 euro. La Corte territoriale rilevava che, comunque, era stato accertato che la lavoratrice si era occupata del controllo sul personale addetto alle pulizie e che era emerso un progressivo ridimensionamento di tali mansioni; che al momento del ricorso la G. era tornata ad occuparsi solo di mansioni di sportello e che, quindi, era avvenuta una evidente dequalificazione. La contrarietà (e poi la scarsa collaborazione) dimostrata dalla lavoratrice alla scelta di introdurre la figura del Direttore del Centro (segnalata dal Tribunale) non giustificava l'avvenuta dequalificazione intervenuta nel periodo successivo al settembre/ottobre 2006. Circa il danno nell'atto di appello la lavoratrice non aveva più insistito sui profili di mobbing e sugli atteggiamenti persecutori subiti; danni patrimoniali non emergevano e, in ordine ai danni non patrimoniali, andava escluso che vi fosse stato un aggravamento della malattia psicologica sofferta dalla lavoratrice in relazione all'avvenuto demansionamento, anzi la detta malattia risultava migliorata nel 2007 (come emergeva anche dalla CTU). Era liquidabile, pertanto, il solo danno non patrimoniale per demansionamento in relazione alle circostanze del caso (era avvenuto nello stesso ambiente in cui la lavoratrice aveva lavorato sin dall'inizio rendendo manifesto il declino della sua carriera ed era durata dalla fine del 2006 sino al febbraio del 2008), nella misura di 10.000 euro con particolare riferimento al pregiudizio all'immagine ed alla vita di relazione.

Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la Fisio con tre motivi: resiste controparte con controricorso che ha proposto ricorso incidentale con un motivo cui resiste controparte con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo del ricorso principale si allega la violazione e falsa applicazione di legge e segnatamente dell'art. 342 c.p.c. con riferimento all'art. 360 n. 3 c.p.c. e il difetto o l'insufficiente motivazione con riferimento all'art. 360 n. 5 c.p.c. I motivi non erano specifici e i testi erano stati violentemente criticati, così come lo stesso Tribunale, senza l'allegazione di quali prove e documenti fossero stati trascurati nella sentenza di prime cure.

Il motivo presenta profili di inammissibilità posto che non si ricostruisce come la doglianza della violazione dell'art. 342 c.p.c. sia stata prospettata in appello né il motivo ricostruisce e riporta i passi del ricorso in appello che si assumono generici ed appare comunque infondato in quanto emerge dalla sentenza impugnata che l'appellante aveva censurato la sentenza di primo grado sia sul punto dell'avvenuta dequalificazione sia in ordine alla valutazione dei testi, questioni che sono state poi riesaminate in appello. Questa Corte con orientamento consolidato ha offerto una nozione della specificità dei motivi di appello non formalistica ma attenta alla sostanza delle censure mosse ove queste comunque emergano dall'atto di impugnazione (cfr. cass. n. 11372/2006 e moltissime altre), circostanza questa positivamente riscontrata dalla Corte territoriale e censurata con generiche contestazioni.

Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione di legge e segnatamente dell'art. 115 c.p.c. in relazione agli artt. 2697 e 2103 c.c., con riferimento all'art. 360 n. 3 c.p.c. e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione con riferimento all'art. 360 n. 5 c.p.c. Non vi era stata la dequalificazione accertata perché la G. non aveva effettivamente e significativamente svolto le mansioni delle quali poi sarebbe stata poi privata.

Il motivo appare infondato in quanto, pur prospettando violazione di diritto, in realtà muove censure di merito alla sentenza impugnata dirette ad una rivalutazione del fatto" come tale inammissibile in questa sede. La Corte territoriale con un'ampia e dettagliata motivazione e con un'accurata ricostruzione delle prove testimoniali ha accertato che, comunque, inizialmente la lavoratrice si era occupata del controllo sul personale addetto alle pulizie e che vi era stato un progressivo ridimensionamento di tali mansioni tanto che, al momento del ricorso, la G. era tornata ad occuparsi solo di mansioni di sportello: pertanto era avvenuta una evidente dequalificazione. La motivazione appare congrua e logicamente coerente ed offre un puntuale riferimento alle prove per testi ed a quelle documentali; le censure appaiono di mero fatto e non offrono neppure una ricostruzione organica e razionale del materiale probatorio.

Con il terzo motivo si allega la violazione e falsa applicazione di legge e segnatamente degli artt. 1218 e 2697 c.c. con riferimento all'art. 360 n. 3 c.p.c., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione con riferimento all'art. 360 n. 5 c.p.c. Era stata la lavoratrice a non prestare la dovuta collaborazione con il datore di lavoro per protesta contro la decisione aziendale di introdurre la figura del direttore.

Il motivo appare infondato posto che la Corte di appello ha già esaminato la circostanza dedotta e cioè la scarsa collaborazione della lavoratrice dopo la scelta di nominare un direttore, ma ha osservato con una motivazione che va condivisa che tali opinabili comportamenti della lavoratrice non autorizzavano la società a dequalificare la G. attribuendole mansioni fortemente ridotte rispetto ai compiti svolti in precedenza. La società avrebbe ben potuto adottare misure organizzative, forse anche di tipo disciplinare, ma coerenti con l'art. 2103 c.c. che stabilisce un limite invalicabile alla mortificazione professionale del dipendente. La motivazione è quindi corretta perché applica il contenuto prescrittivo (ed inderogabile) della norma statutaria ed appare anche congrua e logicamente coerente.

Con il motivo del ricorso incidentale si allega l'omessa ed insufficiente, contraddittoria motivazione della sentenza impugnata. Si era disattesa la CTU e si era negato che la malattia sofferta dalla lavoratrice fosse dipesa dalla subita dequalificazione.

Il motivo, ai limiti della inammissibilità, appare comunque infondato in quanto muove censure squisitamente di fatto diretta,ad una "rivalutazione del fatto" come tale inammissibile in questa sede. La Corte di appello ha dettagliatamente motivato in ordine alla questione se la malattia denunciata fosse stata determinata dalla dequalificazione e ha escluso tale nesso sulla base di plurimi (obiettivi) elementi; la data d'insorgenza della malattia e quella della dequalificazione e l'evoluzione della detta malattia con il progredire della condotta dequalificante come emergente dai documenti sanitari e dalla CTU espletata. Ora nel momento in cui la dequalificazione era ormai conclamata la situazione della malattia era in realtà migliorata. Pertanto la motivazione appare corretta e logicamente coerente ed ancorata a precisi dati probatori; le censure appaiono per contro di merito ed inidonee a scalfire l'accertamento compiuto dai Giudici di appello.

Conclusivamente vanno rigettati ricorso principale e incidentale. Sussistono giusti motivi stante la reciproca soccombenza per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.