Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 07 dicembre 2016, n. 25085

Accertamento - Società di capitali - Rideterminazione reddito d’impresa per un’unica annualità - Richiesta di maggiori imposte

 

Svolgimento del processo

 

S.I. s.r.l., con atto notificato in data 27.7.2007, ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria della regione Lombardia in data 15.5.2009 n. 42 che aveva rigettato l’appello della società e confermato la decisione di prime cure con la quale era stata dichiarata la inammissibilità del ricorso introduttivo - proposto avverso l’avviso di accertamento con il quale l’Ufficio di Vigevano dell’Agenzia delle Entrate aveva rideterminato il maggiore reddito d’impresa ai fini IVA, IRPEG ed IRAP per l’anno 2004, in quanto l’atto era stato sottoscritto da soggetto non legittimato a rappresentare all’esterno la società.

La CTR rilevava che lo statuto sociale attribuiva anche ai "consiglieri delegati" eventualmente nominati dal Consiglio di amministrazione "i poteri di rappresentanza della società nei limiti dei poteri conferiti", e che il verbale del CdA in data 14.4.2003 aveva conferito la carica di consigliere delegato a C.R., P.C.P. e R.A. attribuendo agli stessi, in violazione del principio di collegialità stabilito dall’art. 2475 co 3 c.c. (nel testo successivo alla riforma societaria di cui al Dlgs n. 6/2003), "Il compimento di tutti gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione della società spettanti al Consiglio di amministrazione, senza limitazioni od esclusioni", nonché "la rappresentanza della società per il compimento degli atti rientranti nelle rispettive deleghe....con firma libera e disgiunta", derivandone la nullità delle deleghe in quanto rilasciate in violazione di norma imperativa e conseguentemente - sembra doversi intendere - anche del potere rappresentativo dell’amministratore P.C.P., che aveva conferito il mandato ad litem. In ogni caso rilevava la CTR che l’atto di delega del P. prevedeva soltanto una generica rappresentanza per il compimento degli atti concernenti la materia delegata, mentre "il potere di rappresentare legalmente in giudizio la società" era stato conferito soltanto agli altri consiglieri delegati, R.A. e C.R., nominati anche, rispettivamente, Presidente e Vice presidente della società.

La società contribuente ha censurato la sentenza di appello, non notificata, con due motivi concernenti vizi processuali e vizi di violazione di norme di diritto.

Resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate.

S.I. s.r.l. nelle more trasformata in C. s.p., ha depositato memoria illustrativa con allegati documenti.

 

Motivi della decisione

 

Preliminarmente occorre rilevare che la produzione documentale effettuata dalla società ai sensi dell’art. 372 c.p., ai fini della dimostrazione dell’avvenuta trasformazione societaria, deve ritenersi superflua quanto alla esigenza di comprovare la ammissibilità del ricorso per cassazione, in quanto alcuna contestazione è stata formulata dalla controparte in ordine alla legittimazione processuale del "Vice presidente" del Consiglio di amministrazione, "consigliere delegato" e "legale rappresentate" della società C.P.P., tale dichiaratosi nella intestazione del ricorso e nella procura speciale rilasciata al difensore a margine del ricorso per cassazione.

Manifestamente infondata è poi la eccezione, formulata per la prima volta con la memoria ex art. 378 c.p.c., di sanatoria con efficacia "ex tunc" dell’originario difetto di "legitimatio ad processum" del soggetto che ha proposto il ricorso introduttivo, sull’asserito presupposto che il ricorso per cassazione proposto dal soggetto legittimato avrebbe inteso "ratificare" l’operato del falsus procurator, stante la portata generale dell’art. 182 c.p.c., come riformato dalla legge n. 69/2009, che consente di regolarizzare l’originario difetto di capacità processuale dell’ente societario ed i vizi di nullità della procura asd litem mediante ratifica tacita con effetto retroattivo.

Premesso che tale questione avrebbe dovuto essere introdotta con specifico motivo di ricorso - e dunque è inammissibile in quanto dedotta soltanto con la memoria illustrativa, osserva il Collegio che se, da un lato, la norma dell’art. 182 c.p.c., nel testo modificato dall’art. 46 della legge n. 69/2009 (che ha esteso espressamente la sanatoria anche ai vizi della procura ad litem: Corte cass. SS.UU. 22.12.2011 n. 28337), non trova applicazione retroattiva in difetto di espressa previsione legislativa (cfr. Corte cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 26465 del 09/12/2011; id. Sez. 6-2, Sentenza n. 21753 del 23/09/2013), dall’altro è appena il caso di rilevare come in tanto sia consentito procedere ad emendare i vizi di costituzione in giudizio, in quanto la questione non sia stata oggetto di discussione tra le parti e non sia esitata in una espressa pronuncia sul punto del Giudice di merito (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 21255 del 29/09/2006; vedi: Sez. 3, Sentenza n. 11359 del 22/05/2014), in tal caso censurabile esclusivamente attraverso i previsti rimedi impugnatori.

Occorre pertanto procedere all’esame della critica formulata dalla società ricorrente alla statuizione del Giudice di appello che ha rigettato la impugnazione confermando la declaratoria di inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado in quanto proposto da soggetto privo di legitimatio ad processum.

Con il primo motivo la parte ricorrente deduce, cumulativamente, il vizio di "error juris", per violazione e falsa applicazione degli artt. 2380, 2381 e 2384 c.c. - nel testo vigente nell’anno 2003, nonché il vizio di "error in procedendo" per violazione e falsa applicazione dell’art. 12, commi 1 e 3, e dell’art. 18, comma 4, Dlgs n. 546/1992.

Il motivo è corredato da un unico "quesito di diritto" formulato ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. (norma che è stata introdotta dall’art. 6 del Dlgs 2.2.2006 n. 40 e che trova applicazione ai ricorsi proposti avverso sentenze e provvedimenti pubblicati a decorrere dal 2.3.2006, data di entrata in vigore dello stesso decreto, e fino al 4.7.2009, data dalla quale opera la abrogazione disposta dall’art. 47 co 1, lett. d) della Legge 18.6.2009 n. 69).

Osserva il Collegio che questa Corte ha già avuto modo di esaminare tanto la questione della ammissibilità della formulazione, con un unico motivo di ricorso, di una "pluralità di censure diverse" (in quanto riferite a distinti vizi di legittimità ex art. 360 c.p.c.), quanto la questione della idoneità del "quesito di diritto" cd. multiplo o cumulativo, specificando il nesso di corrispondenza che, in ogni caso, deve sussistere tra la singola censura ed il singolo quesito di diritto. In particolare è stato affermato, rispettivamente in ordine alla formulazione del quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c., ed alla modalità di esposizione delle ragioni in fatto e diritto che fondano il motivo di ricorso ex art. 366 co 1 n. 4) c.p.c., che :

- la formulazione del "quesito di diritto" di cui all'art. 366 bis cod. proc. civ. deve avvenire in modo rigoroso e preciso, evitando quesiti multipli o cumulativi (con la conseguenza che. non solo i motivi di ricorso fondati sulla violazione di leggi e quelli fondati su vizi di motivazione debbono essere sorretti da "quesiti" / "chiara indicazione del fatto controverso" separati, ma anche che non è consentito al ricorrente censurare con un unico motivo - e quindi con un unico quesito - sia la mancanza, sia l'insufficienza, sia la contraddittorietà della motivazione), in quanto la funzione nomofilattica della Corte può essere adeguatamente esercitata soltanto se sia assicurata la necessaria piena corrispondenza tra la specifica censura del vizio di legittimità dedotta ed il quesito di diritto che deve accompagnarla, non essendo peraltro necessaria a tal fine una particolare forma di articolazione del quesito (Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 5471 del 29/02/2008).

Pertanto, in caso di proposizione di motivi di ricorso per cassazione formalmente unici, ma in effetti articolati in profili autonomi e differenziati di violazioni di legge diverse (sostanziandosi tale prospettazione nella proposizione cumulativa di più motivi), affinché non risulti elusa la "ratio" dell'art. 366 bis cod. proc. civ., deve ritenersi che tali motivi cumulativi debbano concludersi con la formulazione di tanti quesiti per quanti sono i profili fra loro autonomi e differenziati in realtà avanzati, con la conseguenza che, ove il quesito o i quesiti formulati rispecchino solo parzialmente le censure proposte, devono qualificarsi come ammissibili solo quelle che abbiano trovato idoneo riscontro nel quesito o nei quesiti prospettati, dovendo la decisione della Corte di cassazione essere limitata all'oggetto del quesito o dei quesiti idoneamente formulati, rispetto ai quali il motivo costituisce l'illustrazione (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 5624 del 09/03/2009; id. id. Sez. 5, Sentenza n. 13868 del 09/06/2010; id. Sez. 5, Sentenza n. 15242 del 12/09/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 12248 del 20/05/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 16345 del 28/06/2013. Vedi Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 7770 del 31/03/2009).

Analogamente il ricorso deve ritenersi inammissibile qualora siano formulati molteplici "quesiti", ma nella rubrica e nella esposizione del motivo si proceda indistintamente a censurare una pluralità di vizi di legittimità diversi, atteso che la fusione delle distinte ragioni di doglianza in un complessivo ed unitario svolgimento argomentativo, richiede alla Corte di sostituirsi allo stesso ricorrente nella individuazione di quali, tra i molteplici argomenti esposti nel motivo, debbano essere ricondotti e trovino corrispondenza in ciascuno dei "quesiti di diritto" formulati (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 5471 del 29/02/2008; id. Sez. U, Sentenza n. 5624 del 09/03/2009; id. Sez. U, Sentenza n. 7770 del 31/03/2009; id. Sez. 5, Sentenza n. 15242 del 12/09/2012);

- la cumulativa denuncia, con il "medesimo motivo", di vizi attinenti alle differenti ipotesi previste dall’art. 360 c.p.c. (id est la formulazione di un singolo motivo articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo), non impedisce l’accesso del motivo di ricorso all’esame di legittimità allorché esso, comunque, evidenzi specificamente la distinta trattazione delle doglianze relative all'interpretazione o all'applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie, ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto, così da consentire alla Corte di individuare agevolmente e riferire ciascuna autonoma critica formulata alla sentenza impugnata ai diversi vizi di legittimità contestati in rubrica (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 9793 del 23/04/2013; id. Sez. U, Sentenza n. 9100 del 06/05/2015), dovendo ritenersi, viceversa, inammissibile il motivo formalmente unico, le volte in cui l'esposizione contestuale dei diversi argomenti a sostegno delle distinte censure non consenta di discernere le ragioni rispettivamente poste a fondamento di ciascuna di esse, in quanto in tal caso l'apprezzamento critico delle risultanze acquisite al processo e del merito della causa, svolto nel motivo, mira a rimettere al Giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d'impugnazione enunciati dall'art. 360 cod. proc. civ., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, in tal modo venendo ad investire il Giudice di legittimità del compito di sostituirsi al difensore per dare forma e contenuto giuridici alle doglianze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 19443 del 23/09/2011; id. Sez. 1, Sentenza n. 21611 del 20/09/2013), non essendo demandato alla Corte il compito di ricercare quale sia la effettiva critica mossa dalla parte alla sentenza impugnata, e non potendo ritenersi ricompreso nel compito di nomofilichia assegnato al Giudice di legittimità anche la individuazione del vizio in base al quale poi verificare la legittimità della sentenza impugnata, come emerge dal combinato disposto degli artt. 360 e 366 co 1 n. 4 c.p.c. che riservano in via esclusiva tale compito alla parte interessata (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 18242 del 28/11/2003 id. Sez. 1, Sentenza n. 22499 del 19/10/2006, con specifico riferimento al caso in cui il ricorrente non aveva indicato le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata e non aveva formulato censure specifiche contro di esse; id. Sez. 1, Sentenza n. 5353 del 08/03/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 18421 del 19/08/2009, che richiede la specifica indicazione del vizio denunciato ex art. 360 c.p.c. nella rubrica del motivo; id. Sez. 1, Sentenza n. 19443 del 23/09/2011 - che, nel caso di denuncia cumulativa di una pluralità di vizi di legittimità, esclude la ammissibilità del ricorso in quanto in tal modo il ricorrente "mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d'impugnazione enunciati dall'art. 360 cod. proc. civ., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse id. Sez. 3, Sentenza n. 3248 del 02/03/2012 secondo cui "nel giudizio di legittimità è onere del ricorrente indicare con specificità e completezza quale sia il vizio da cui si assume essere affetta la sentenza impugnata: è pertanto, inammissibile il motivo di ricorso col quale il ricorrente lamenti la violazione di una serie di norme sostanziali "in relazione all’art. 360, primo comma, cod. proc. civ.", senza precisare se intenda censurare la sentenza per motivi attinenti la giurisdizione o la competenza, per violazione di norme di diritto o per nullità del procedimento").

Tanto premesso la società ricorrente ha indicato in rubrica anche la violazione di "norme del processo tributario" che regolano: a) l’obbligo della difesa tecnica per le parti diverse dall’ente impositore (art. 12 co 1 Dlgs n. 546/92); b) la forma - per atto pubblico, con scrittura privata autenticata, in calce o a margine di un atto del processo, in forma orale a verbale di udienza - del conferimento dell’incarico difensivo (art. 12 co 3 Dlgs n. 546/92); c) i requisiti - prescritti a pena di inammissibilità - del ricorso introduttivo (art. 18 co 4 Dlgs n. 546/92), tra cui, per quanto può interessare al caso in esame, la "indicazione del ricorrente e del suo rappresentante legale" e la mancanza della sottoscrizione del difensore del ricorrente o della parte (nei casi in cui la legge non richieda l’obbligo della difesa tecnica).

Tuttavia la esposizione del motivo, ed analogamente il "quesito di diritto" formulato in calce, non contengono alcun argomento - in fatto o in diritto - a sostegno dei vizi processuali dedotti, risolvendosi interamente in una critica alla interpretazione che la CTR ha fornito delle norme di diritto sostanziale che regolano la delega di attribuzioni del CdA ad uno o più amministratori.

Ne segue, alla stregua dei richiamati principi giurisprudenziali, che esclusivamente su tale questione (violazione degli artt. 2380, 2381 e 2384 c.c. testo previgente alla riforma del diritto societario), che è oggetto del "quesito di diritto" - in ordine alla quale soltanto è ravvisabile una relazione di corrispondenza tra vizio di legittimità denunciato e quesito di diritto, e non anche in relazione alle altre questioni rimaste estranee dalla domanda formulata alla Corte, è tenuto a pronunciare il Collegio, in considerazione: sia della funzione da ricondursi al "quesito di diritto", che è quella di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l'errore di diritto asseritamele compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 8463 del 07/04/2009); sia dello specifico ambito di applicazione dell’art. 366 bis c.p.c. rispetto a quello della ammissibilità del motivo di ricorso - che deve invece rispondere ai parametri normativi di cui all’art. 360 c.p.c., con la conseguenza che il "quesito di diritto" non può essere desunto dal contenuto del motivo di ricorso poiché in un sistema processuale, che già prevedeva la redazione del motivo con l'indicazione della violazione denunciata, la peculiarità del disposto di cui all'art. 366-bis cod. proc. civ., introdotto dall'art. 6 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, consiste proprio nell'imposizione, al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al miglior esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità (cfr. Corte cass. Sez. 1, Ordinanza n. 20409 del 24/07/2008; id. Sez. 5, Ordinanza n. 2799 del 05/02/2011); sia infine della ineludibile correlazione che deve ravvisarsi tra la specificità della censura ex art. 366 co 1 n. 4 c.p.c. e la formulazione del quesito da sottoporre alla Corte, sicché quest’ultimo deve ritenersi inadeguato, con conseguente inammissibilità del motivo di ricorso, quando non è conferente rispetto alla questione che rileva per la decisione della controversia quale emerge dall'esposizione del motivo (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8466 del 02/04/2008).

Tanto premesso in merito alla ammissibilità della censura svolta con il primo motivo, occorre preliminarmente definire la questione controversa.

La CTR ha inteso confermare la decisione di prime cure che aveva dichiarato la inammissibilità del ricorso introduttivo in quanto proposto da soggetto privo dei poteri rappresentativi dell’ente societario parte in causa.

In sostanza, non essendo dubitabile che la verifica della legittimazione processuale attenendo ai presupposti processuali deve essere compiuta "ex officio" dal Giudice, la CTR avrebbe escluso il potere di rappresentanza negoziale sostanziale ed il correlato potere di rappresentanza processuale della società in capo al consigliere delegato, in quanto doveva considerarsi affetta da "nullità" la delibera del CdA di nomina ed attribuzione delle competenze ai consiglieri delegati, contrastando con il principio di collegialità desumibile dall’art. 2475 co 3 c.c. riformato, concernente le società a responsabilità limitata e dall’art. 2380 bis, comma 3, riformato, relativo alle società per azioni. Sembra di comprendere, dalla motivazione della sentenza impugnata, che la delega generale di poteri con esercizio disgiunto impedirebbe l’attuazione della collegialità intesa come manifestazione della volontà dell’organo consiliare nell’esercizio del potere di gestione.

La tesi sostenuta dalla CTR non è condivisibile, trovando puntuale deroga il principio collegiale di gestione della società nelle medesime norme di diritto richiamate dal Giudice tributario.

Premesso che la questione della validità dell’atto di delega delle attribuzioni al consigliere delegato - che costituisce accertamento incidentale rispetto alla verifica del presupposto della legittimazione processuale che il Giudice è tenuto a compiere "ex officio" - deve essere risolta alla stregua delle norme vigenti al tempo del conferimento dell’incarico al difensore abilitato, essendo stato notificato il ricorso introduttivo in data 27.7.2007 (cfr. come indicato nel ricorso per cassazione, pag. 2).

Il Giudice tributario ha inteso ricavare il parametro di verifica della nullità della delibera del Consiglio di amministrazione in data 14.4.2003 (adottata, in conformità agli articoli 22 e 23 dello Statuto - riprodotti alla pag. 4 e 7 del ricorso - nella vigenza delle disciplina societaria ante riforma introdotta con Dlgs 17.1.2003 n. 6, efficace a far data dall’1.1.2004) nel principio di collegialità dell’attività demandata al Consiglio di amministrazione, stabilito con norma inderogabile dall’art. 2475 co 3 c.c. (per le società a responsabilità limitata) e che risulterebbe del tutto elusa nel caso di specie in cui è stata attribuita ai singoli consiglieri di amministrazione una delega generale sull’esercizio dei poteri gestionali con corrispondente potere di rappresentanza negoziale e processuale della società (cfr. delibera CdA, trascritta in estratto a pag. 2 ricorso).

La questione sottoposta all’esame della Corte deve essere affrontata tenendo presente la distinzione - per verità non sempre chiara nelle disposizioni codicistiche previgenti alla riforma del 2006 - tra "poteri di gestione/amministrazione" e "poteri di rappresentanza" (verso i terzi) attribuiti agli amministratori delle società a responsabilità limitata, per i quali l’art. 2487 co 2 c.c. (previgente) richiamava la medesima disciplina delle società per azioni, ad eccezione della sola disposizione dell’art. 2380 c.c., nonché la qualità di "socio" (art. 2487 co 1 c.c.) che, nelle società a responsabilità limitata, doveva essere rivestita dall’amministratore "salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo". Nel regime riformato l’art. 2475 c.c. intitolato "Amministrazione della società" si limita a rinviare alla disciplina della società per azioni soltanto all’art. 2383, comma 4 e 5 c.c. (concernente l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese dei dati identificativi degli amministratori, nonché del potere rappresentativo disgiuntivo o congiuntivo, e lo statuto della inopponibilità delle cause di nullità o annullabilità della nomina degli amministratori, una volta dato corso alla pubblicità), prevedendo al comma 3 dell’art. 2475 c.c. la possibilità che l’amministrazione della società sia "affidata a più persone" che costituiranno il "consiglio di amministrazione", ovvero potendo operare - secondo quanto previsto dall’atto costitutivo - disgiuntamente ovvero congiuntamente (nel primo caso trovando applicazione il potere di veto di ciascun amministratore, superabile con voto a maggioranza; nel secondo caso operando invece il principio di unanimità delle deliberazioni, - avuto riguardo all’espresso richiamo degli artt. 2257 e 2258 c.c. - ). Il sistema è completato dall’art. 2475 bis, comma 1, c.c. secondo cui "gli amministratori hanno la rappresentanza generale della società", che deve intendersi norma derogabile, dovendo coordinarsi con l’art. 2383 co 4 c.c.. In difetto di alcuna previsione esplicita in merito alla delega di potere gestorio nelle società a responsabilità limitata, che non trova alcun ostacolo legale, occorre applicare in via analogica la norma dell’art. 2381 c.c. relativa alle società per azioni.

Tanto premesso lo Statuto della società - riproducendo sostanzialmente la disposizione dell’art. 2381 c.c. previgente - prevedeva la facoltà del Consiglio di amministrazione di "delegare le proprie attribuzioni a singoli amministratori o ad un comitato esecutivo, determinandone i poteri" (art. 22 Statuto, trascritto a pag. 7 ricorso), disponendo l’attribuzione diretta ai "consiglieri delegati del potere di rappresentanza della società "nei limiti dei poteri conferiti (art. 23, comma 2, Statuto, ibidem ed anche pag.

La questione quindi viene a spostarsi sulla validità o nullità per contrasto con norma imperativa (art. 2381, commi 2 e 3, c.c., nel testo riformato, applicabili analogicamente al consiglio di amministrazione istituito ai sensi dell’art. 2475, comma 3, c.c., nel testo riformato) della delibera CdA - assunta a verbale del 14.4.2003 - con la quale sono stati attributi ai consiglieri delegati, disgiuntamente, i poteri di gestione "per tutti gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione" (cfr. sentenza CTR in cui è riprodotto il contenuto del verbale del CdA), essendo l’attribuzione del potere di rappresentanza meramente consequenziale al disposto della norma statutaria.

In proposito, premesso che non viene in questione la violazione della competenza inderogabile assegnata all’organo consiliare dall’art. 2475, comma 5, c.c., ed indipendentemente dalle diverse ragioni di opportunità - evidenziate dalla dottrina - che possono presiedere alla scelta di delegare le attribuzioni del CdA ai fini di migliorare la efficienza della gestione aziendale (e che si fondano sulla esigenza di snellimento delle gravose funzioni altrimenti gravanti sull’organo collegiale: esigenza che si attua attraverso la migliore allocazione delle attribuzioni del CdA a diversi soggetti, competenti a gestire la specifica materia loro assegnata, secondo un criterio che risponde alla "specializzazione" del lavoro dal quale sembra, pertanto, discostarsi l’attribuzione generale delle competenze del CdA a tutti i consiglieri delegati, che possono esercitarle separatamente dagli altri, non attuandosi in tal caso alcuna specializzazione ma la mera sovrapposizione - in assenza di altri indicati criteri di coordinamento - dei medesimi poteri gestionali), osserva il Collegio che una "delega generale" di tutte le attribuzioni del Consiglio di amministrazione - fatte ovviamente salve le competenze inderogabili ex lege - non trova ostacolo nella legge, nè nel principio di collegialità dell’organo amministrativo, e trova, al contrario, ancoraggio proprio nello stesso art. 2381, comma 2, c.c. laddove è prevista la concentrazione delle competenze (delegabili) del CdA anche soltanto in un "unico" dei suoi componenti (non sembra decisivo, infatti, l’argomento meramente formale addotto da parte della dottrina che ha evidenziato come la modifica della norma in questione, la quale nel testo previgente prevedeva la facoltà del CdA di "delegare le proprie attribuzioni", mentre nel testo sostituito dal Dlgs n. 6/2003 reca all’art. 2381 co 2 c.c. la diversa espressione secondo cui il CdA può "delegare proprie attribuzioni denoterebbe una diversa "voluntas legis" diretta ad impedire o comunque limitare, con la nuova norma, che l’organo collegiale si spogli di fatto abdicando alle proprie competenze, mediante conferimento di una delega generale di tutte le proprie funzioni, ipotesi che si riscontrava non eccezionale nella precedente prassi societaria: l’argomento non resiste alla facoltà, ex lege, di rinunciare alla collegialità in favore della gestione esercitata da un unico amministratore, e se la norma puntualizza, al comma 4, che l’organo collegiale delegante conserva i poteri di avocazione di singole operazioni e di direzione è pur vero che i poteri di "valutazione" dell’attività di gestione rimangono sempre subordinati alle informazioni che gli verranno trasmesse dal delegato. Occorre peraltro sottolineare come la inversione di tendenza del Legislatore prospettata dalla richiamata tesi dottrinaria, pone in evidenza come, anteriormente alla riforma del 2003, il testo normativo induceva a ritenere valido un trasferimento generale all’amministratore delegato delle competenze del CdA).

La esigenza di soddisfare l’interesse dei soci a che le iniziative imprenditoriali siano discusse e decise con l’intervento di più amministratori (fatti salvi i primi amministratori nominati con l’atto costitutivo, la nomina dei successivi è riservata alla assemblea dei soci: art. 2383 co 1 c.c.- s.p.a. - , art. 2487 c.c.- s.r.l. - testo previgente; artt. 2475 co 1 e 2479 co 2, n. 2 c.c. - s.r.l. - ; art. 2383 co 1 c.c.- s.p.a., testo riformato) è, infatti, bilanciata dalla legge con l’interesse degli amministratori all’efficace perseguimento degli obiettivi sociali mediante una efficiente organizzazione dell’esercizio del potere di gestione ad essi riservato, anziché attraverso la previsione normativa di rigide forme procedimentalizzate dell’attività del Consiglio di amministrazione (l’art. 2475 co 4 c.c. riformato, rimette alla scelta dei contraenti di prescrivere, nell’atto costitutivo, specifiche forme di consultazione e di consenso espresso per iscritto dei componenti del CdA), mediante forme di vigilanza e controllo sull’attività svolta dall’amministratore unico delegato o dai consiglieri delegati (art. 2489 c.c. previgente; art. 2476 c.c. riformato; poteri esercitati dal collegio sindacale), e la disciplina del sistema delle responsabilità interne degli amministratori e dei membri del CdA nei confronti della società e dei soci (artt. 2392-2393 c.c., richiamati per le s.r.l. dall’art. 2487 co 2 c.c., testo previgente; artt. 2392-2393 bis c.c.- s.p.a.-, art. 2476 c.c.- s.r.l.-, testo riformato), fermo restando il potere dell’assemblea di revoca degli amministratori, e lo speciale rapporto di legittimazione concorrente nell’esercizio del potere di gestione che veniva riconosciuto, anche nella disciplina normativa previgente la riforma, al CdA ed al comitato esecutivo od ai singoli consiglieri delegati, tale per cui il Consiglio di amministrazione poteva e può sempre revocare la delega conferita, ovvero avocare a sè operazioni delegate e comunque richiedere informazioni ai delegati e valutare l’attività di gestione da quelli svolta (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 4787 del 04/03/2005). Nel testo riformato dell’art. 2381 c.c., al comma 3, si è inteso, infatti, canonizzare tali principi portando ad evidenza una serie di attività di controllo e valutazione dell’attività svolta dagli organi delegati, che ribadiscono la "disponibilità" dei poteri di gestione dell’attività imprenditoriale agli amministratori - anche se costituiti in collegio: CdA - ex art. 2380 bis co 1 c.c., attività preventive - imposizione di limiti e di modalità di esercizio delle attribuzioni delegate-, concomitanti - direzione e avocazione di operazioni delegate - e successive - valutazione del generale andamento della gestione-, rispetto alla esecuzione delle operazioni e degli atti relativi alle materie delegate ai consiglieri.

In sostanza è rimessa allo stesso Consiglio di amministrazione la valutazione della importanza delle questioni attinenti la gestione d’impresa per le quali si reputa opportuna una preventiva trattazione collegiale, non essendo a ciò di ostacolo una "delega generale" di attribuzioni, laddove i membri del CdA mantengono un costante rapporto con i consiglieri delegati mediante l’attività informativa e valutativa esemplificativamente indicata nell’art. 2381, commi 3, 5 e 6 c.c. (testo riformato).

Quanto all’esercizio in forma disgiunta dei poteri delegati ai singoli consiglieri, anche in questo caso una violazione o compressione del principio di collegialità tale da configurare un insanabile contrasto con norme imperative, deve ritenersi esclusa, essendo espressamente consentito - nelle società a responsabilità limitata - l’esercizio disgiunto dei poteri gestionali, dall’art. 2475, comma 3, c.c. (testo riformato, che, al pari dell’esercizio congiunto, richiede sia espressamente previsto nell’atto costitutivo), venendo in conseguenza ad essere superati anche i paventati dubbi relativi alla irragionevolezza - sotto il profilo di un eventuale carenza di coordinamento tra l’attività svolta dai singoli consiglieri in contrasto con lo scopo di implementazione della efficienza e speditezza della gestione - di un generale affidamento - con esercizio disgiunto - a più consiglieri delle medesime attribuzioni delegate, dal puntuale richiamo, operato dall’art. 2475 c.c., agli artt. 2257 e 2258 C.C. - rubricati, rispettivamente, "Amministrazione disgiuntiva" ed "Amministrazione congiuntiva" - nei quali vengono indicate modalità idonee a coordinare le attività delegate, accordando, in caso di esercizio disgiunto, un "potere di veto" a ciascun consigliere delegato che impone il "trasferimento" in sede consiliare della discussione e decisione da adottare sulla operazione controversa (stante la prevalenza accordata dall’art. 2475 c.c. alle disposizioni dell’atto costitutivo dettate in materia di nomina ed organizzazione dell’organo amministrativo, sembra corretto ritenere che, ove prevista dall’atto costitutivo la facoltà del CdA di delegare proprie attribuzioni ad una pluralità di consiglieri delegati, il contrasto insorto dal potere di veto venga risolto in seno al CdA, in tal senso dovendo adeguarsi l’applicazione dell’art. 2257 c.c. che fa invece riferimento all’assemblea dei soci).

Deve dunque affermarsi il seguente principio di diritto:

"la norma statutaria della società a responsabilità limitata, costituita in data anteriore all’1.1.2004, che prevede la facoltà del Consiglio di amministrazione di delegare le proprie attribuzioni - ad eccezione di quelle riservate ex lege esclusivamente all’organo consiliare - ai singoli consiglieri delegati, con esercizio disgiuntivo dei poteri, non si pone in contrasto con norme imperative e precipuamente con l’art. 2475, comma 3, c.c. (nel testo riformato dal Dlgs 17 gennaio 2003 n. 6), non imponendo la predetta norma - al di fuori dei casi espressamente previsti dall’ultimo comma - l’applicazione inderogabile del principio di collegialità, attesa la natura suppletiva che rivestono le disposizioni in questione rispetto ad eventuali diverse disposizioni dettate in materia dall’atto costitutivo (commi 1, 3 e 4), non comportando, peraltro, la disposizione statutaria in questione un impedimento alla concorrente legittimazione del Consiglio di amministrazione all’esercizio dei poteri di gestione dell’impresa, in considerazione dei poteri informativi, di intervento direttivo e di valutazione, nonché di avocazione e revoca - analoghi a quelli esemplificativamente indicati nell’art. 2381 c.c. - allo stesso comunque spettanti in via preventiva, concomitante e successiva, rispetto alle attribuzioni delegate".

La conformità della delibera del Consiglio di amministrazione alle predette disposizioni statutarie ed alle norme degli artt. 2475 e 2381 c.c. viene a riflettersi, invalidandola, anche sulla seconda autonoma "ratio decidendi" della sentenza di appello, che distinguendo, nell’ambito del primo e secondo comma dell’art. 23 Statuto, tra "generica rappresentanza nei limiti delle attribuzioni delegate" e "legittimazione ad agire e resistere in giudizio in rappresentanza della società" (attribuita "soltanto" al Presidente ed al Vice presidente) sembra volere trovare ulteriore fondamento della pronuncia di inammissibilità dell’atto introduttivo nella scissione tra rappresentanza di diritto sostanziale e rappresentanza di diritto processuale (legitimatio ad processum), ritenendo che la delega di poteri gestionali al consigliere di amministrazione, non implicasse per ciò stesso anche il conferimento al delegato della legittimazione processuale.

Osserva il Collegio che se la seconda non può prescindere dal conferimento della prima (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 15026 del 15/07/2005; id. Sez - 3, Sentenza n. 19164 del 29/09/2005; id. Sez. U, Sentenza n. 24179 del 16/11/2009), non è vero il contrario, bene potendo l’atto costitutivo o lo Statuto attribuire la legittimazione di agire e resistere in giudizio, in nome della società, soltanto ad uno tra i soggetti dotati di poteri di rappresentanza negoziale, con esercizio disgiunto dei poteri (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 4787 del 04/03/2005 - con riferimento alla ipotesi della pluralità di soggetti dotati di poteri di rappresentanza sostanziale-). Tuttavia, nel caso di specie, la delibera collegiale in data 14.4.2003, oltre a confermare la previsione statutaria (art. 23, comma 1) attributiva della legittimazione processuale al Presidente ed al Vicepresidente dell’organo di amministrazione, aveva conferito analoga concorrente legittimazione processuale anche al consigliere delegato P., in conformità a quanto previsto dall’art. 23, comma 2, del medesimo Statuto societario, che non distingue affatto il potere rappresentativo della società attribuito con la delega, che in assenza di specificazioni o limitazioni deve intendersi pertanto esteso anche alla rappresentanza processuale dell’ente collettivo.

La statuizione della sentenza di appello che ha dichiarato inammissibile il ricorso introduttivo proposto dalla società non può ritenersi conforme al principio di diritto enunciato e dunque deve essere cassata, in accoglimento del primo motivo di ricorso - assorbito l’esame del secondo motivo - con conseguente rinvio della causa al Giudice di appello, che procederà all’esame degli altri motivi di gravame dedotti dalla società appellante, liquidando all’esito anche le spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, quanto al primo motivo, assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Commissione tributaria della regione Lombardia, in diversa composizione, che attenendosi al principio di diritto enunciato procederà ad esame degli ulteriori motivi di gravame dedotti dalla società appellante, liquidando all’esito anche le spese del giudizio di legittimità.