Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 05 luglio 2017, n. 16569

Rapporto di lavoro - Regolarizzazione della posizione previdenziale - Riconoscimento di lavoro straordinario

 

Svolgimento del processo

 

La Corte di Appello di L'Aquila con sentenza in data 23 maggio - 25 luglio 2013, in parziale riforma della gravata pronuncia, emessa il sette marzo 2012, impugnata in via principale da N.M. ed in via incidentale da C.G., dichiarava il diritto del primo alla regolarizzazione della posizione previdenziale, per il periodo lavorativo compreso tra il 19 ottobre del 1998 ed il 23 giugno dell'anno 1999; condannava, d'altro canto, lo stesso N.M. a corrispondere l'ulteriore somma di euro 9213,00 al C., a titolo di risarcimento del danno, oltre interessi, nonché al rimborso in favore di quest'ultimo delle spese di lite per il secondo grado del giudizio, così come ivi liquidate, compensando invece quella di primo grado per la metà, per il residuo poste a carico del N.

In effetti, con l'appellata pronuncia il giudice del lavoro di Chieti, in parziale accoglimento della domanda proposta da N.M., aveva dichiarato che tra quest'ultimo e il convenuto C. era intercorso un rapporto di lavoro subordinato dal 19 ottobre del 1998 al 3 dicembre dell'anno 2002, ritenendo quindi dovuta a favore del primo la somma di euro 748,81 a titolo di differenze retributive, a fronte di complessivi € 42.040,79 rivendicati per maggiori retribuzioni, lavoro straordinario indennità per ferie non godute, lavoro festivo e t.f.r., oltre accessori. Con la stessa sentenza, tuttavia, l'attore era stato condannato al risarcimento del danno patito dal C. a seguito dell'appropriazione indebita da parte del dipendente N., accertata con sentenza penale passata in giudicato del 6 dicembre 2006, di somme di danaro prelevate dal registratore di cassa, danno liquidato equitativamente nella misura di 3000 euro, ma senza riconoscimento del vantato danno morale da reato.

L'appello principale veniva, quindi, accolto limitatamente alla mancata dichiarazione del diritto di N.M. alla regolarizzazione della sua posizione previdenziale per tutto l'anzidetto accertato periodo, mentre veniva respinto per il resto, innanzitutto con riferimento alle richieste relative al riconoscimento di lavoro straordinario nel giorno di sabato, poiché non proposta in primo grado.

Secondo la Corte territoriale, riguardo al punto 7 del ricorso introduttivo, circa il lavoro straordinario del sabato, rilevava invece che nulla era stato corrisposto per la maggiore prestazione di lavoro corrispondente ad otto ore settimanali per i periodi gennaio / maggio e ottobre / dicembre di ciascun anno, il che spiegava la ragione per cui in sentenza l'argomento non era stato trattato in questi termini, visto che lo stipendio veniva parametrato su sei giorni, e non su cinque. Del resto, la questione era stata già comunque trattata in prime cure, laddove fondatamente era stato rilevato che la prova del lavoro straordinario domenicale nei periodi estivi non era stata raggiunta a causa della contraddittorietà delle risultanze istruttorie. Altrettanto doveva ritenersi in relazione alle pretese differenze salariali mensili, essendo peraltro pacifico che alle somme di cui alla busta paga veniva aggiunto danaro contante da parte datoriale.

Quanto all'appello incidentale di quest'ultima, lo stesso meritava accoglimento per quanto di ragione. Infatti, poteva condividersi la liquidazione equitativa del danno con riferimento agli incassi sottratti dal dipendente. Dovevano, tuttavia, considerarsi pure le conseguenze economiche della condotta illecita, posta in essere dal dipendente, visto che al C. era stata irrogata una sanzione di euro 7.713,00 dall'Agenzia delle Entrate, per l'anno 2002, in relazione al quale non poteva dubitarsi della sottrazione degli incassi da parte del N., senza emissione degli scontrini fiscali, sicché la somma in questione andava posta a suo carico. La gravata pronuncia andava, altresì, riformata anche nella parte in cui non aveva riconosciuto all'appellante incidentale il danno morale, liquidato all'attualità in euro 1500, pari alla metà del danno patrimoniale, stabilito in primo grado nella misura di euro 3000,00. Di conseguenza, N.M. andava condannato al pagamento della complessiva somma di 9213,00 euro a titolo di risarcimento danni, oltre interessi. Le spese relative al secondo grado andavano poste a totale carico dell'appellante principale, poiché rimasto sostanzialmente soccombente, mentre quelle di primo grado andavano per la metà compensate, atteso il suo diverso esito, con la conseguente condanna del N. a rifondere alla controparte la residua quota.

Avverso l'anzidetta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione N.M. con atto in data 3 febbraio 2014, affidato a motivi variamente articolati (errata ricostruzione delle richieste del lavoratore ricorrente con violazione o falsa applicazione degli articoli 276 e seguenti c.p.c.; omessa e/o falsa applicazione di norme contrattuali quale il C.C.N.L. pubblici esercizi, che prevedeva un orario di lavoro settimanale di 40 ore da ripartirsi in 5 giorni settimanali, sicché andava retribuito il lavoro prestato durante le giornate di sabato e quanto altro spettante per le domeniche relative al solo periodo festivo - per l'effetto, il resistente andava condannato al pagamento delle somme indicate nel ricorso di appello in complessivi 21.240,21 euro, non contestate dalla resistente - appellata; violazione e/o falsa applicazione degli articoli 91 e seguenti c.p.c., nonché 276 e seguenti dello stesso codice di rito - doglianza relativa al regolamento delle spese di lite, nonché con riferimento alla condanna per la somma di euro 7713, poiché nelle conclusioni dell'appello incidentale non era stato chiesto il rimborso della sanzione, ma la condanna del N. alla refusione del danno patrimoniale in ragione di euro 21.124,26.

Ad avviso del ricorrente, l'accertamento eseguito dall'Agenzia delle Entrate riguardava gli anni dal 1999 sino al 2002, certamente in particolare il periodo di maggio giugno dell'anno 2002, per cui risultava che la sanzione applicata per il 2002 era di soli euro 0,18 e per cui era stata ritenuta la continuazione delle omissioni contestate al C. per gli anni 2000, 2001 e 2002 con l'unica sanzione inflitta. Di conseguenza, la sanzione di euro 7713 per l'anno 2002 andava annullata, essendo imputabile ad attività non ascrivibile al N., ma risultando la stessa attività evasiva un comportamento costante del C.; il danno morale infine non poteva essere riconosciuto per mancanza di idonea allegazione).

All'impugnazione avversaria ha resistito mediante controricorso C.G.

Parte ricorrente ha depositato memoria ex articolo 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

Il ricorso va disatteso in forza delle seguenti considerazioni.

Deve premettersi che i motivi d'impugnazione non risultano chiaramente numerati in ordine progressivo, ma articolati nei seguenti termini:

VIOLAZIONE e/o FALSA APPLICAZIONE di NOME di DIRITTO e del C.C.N.L. di categoria

A) violazione di norme di legge per errata ricostruzione delle richieste del lavoratore ricorrente (artt. 276 e seguenti c.p.c.);

B) omessa o falsa applicazione di norme contrattuali (C.C.N.L. pubblici esercizi, all.ti 3 e 4 al fascicolo di primo grado);

C) violazione di norme di legge (artt. 91 e ss. 275 e ss. c.p.c. - C1 violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e ss. nonché 276 e ss. c.p.c. per quanto concerne il regolamento delle spese, perché giudicando ultra petita la Corte di Appello aveva riformato la sentenza di primo grado riguardo alla ivi dichiarata integrale compensazione - C2, stesso discorso, ma con riferimento agli artt. 276 e ss. c.p.c. quanto alla condanna al rimborso della somma di 7713,00 euro, laddove l'appellante incidentale non aveva chiesto il rimborso della sanzione ma al risarcimento del danno patrimoniale dedotto in ragione di 21.124,26 euro).

Appello incidentale

1) la Corte distrettuale avrebbe dovuto valutare l'atteggiamento di parte datoriale in ordine all'accertato periodo di lavoro aI nero, ai sensi dell'art. 96, commi 1° e 3°, c.p.c., con conseguente violazione. Inoltre, non aveva tenuto minimamente conto del comportamento di malafede dell'appellante incidentale all'atto della condanna dell'appellante principale alle spese del grado, con ulteriore violazione degli artt. 91 e ss. c.p.c.

2) risarcimento del danno.

2A. Danno patrimoniale, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 275 e ss. c.p.c. con riferimento alla somma di euro 7.713,00, che non trovava riscontro nella documentazione depositata dall'appellante incidentale, mentre la Corte distrettuale si era limitata a prendere atto di quanto, sempre in malafede, dichiarato dalla parte, senza controllarne la veridicità. Infatti, l'assunto dell'appellante incidentale si evidenziava non veritiero in base alla sola visione documentazione all'uopo prodotta. La Corte non aveva sottoposto a controllo il dichiarato da parte datoriale, come si evinceva dalla lettura dell'accertamento relativo al 2002 eseguito dall'Agenzia delle Entrate (che in effetti riguardava gli anni dal 1999 sino al 2002, quindi pure fin da epoca anteriore al licenziamento, in base altresì alle acquisite dichiarazioni testimoniali. Dagli atti emergeva, in particolare, che la sanzione applicata per l'anno 2002 era di soli 0,18 euro, mentre quelle applicate per le annualità precedenti ammontavano a complessivi 13.076,82 euro, di modo che, ritenuta la continuazione delle omissioni per gli anni 2000, 2001 e 2002, la sanzione inflitta era stata unica. Di conseguenza, la condanna al risarcimento, individuato nella presunta sanzione di euro 7713,00 irrogata dall'Agenzia delle Entrate per l'anno 2002 andava annullata, essendo imputabile ad attività non ascrivibile al N., ma risultando la stessa attività evasiva un comportamento costante del C. ...).

2B. Danno morale. Violazione e/o falsa applicazione di principi di diritto - omessa prova - art. 163 nn. 4 e 5 c.p.c. - L'inesistenza di ogni e qualsiasi prova sia pure induttiva e/o per presunzioni semplici era stata già rilevata dal giudice di primo grado. Nulla era stato aggiunto rispetto a quanto già sostenuto in prime cure, ma la Corte di Appello, in violazione della costante giurisprudenza sul punto, lo aveva riconosciuto, perché conseguenza del reato e quindi in re ipsa, per giunta quale punizione per il turbamento e la sofferenza causati, citando altresì Cass. n. 12767 del 21/12/1998 (secondo cui, tra l'altro, grava sul danneggiato l’onere di provare l’esistenza stessa del danno, ivi compreso quello morale, mediante l’allegazione di concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova possa considerarsi "in re ipsa", all’esito della pronuncia del giudice penale, atteso che al risarcimento di detto tipo di danno non possono in alcun modo riconoscersi finalità meramente punitive).

SPESE del GIUDIZIO, VIOLAZIONE e/o FALSA APPLICAZIONE di PRINCIPI di DIRITTO (artt. 91 e ss. c.p.c.). La sostanziale soccombenza ritenuta dalla Corte di Appello non trovava riscontro nell'esito del procedimento tenuto conto delle conclusioni rassegnate dalle parti, mentre la Corte di Appello non aveva tenuto conto del comportamento in malafede dell'appellante incidentale, che aveva resistito alle richieste avversarie, ma d'altro canto non aveva chiesto la modifica della pronuncia di primo grado, relativamente alle spese. Comunque, l'esito diverso del giudizio era stato contestato, sicché anche la condanna alle spese di primo grado andava contestata.

Orbene, quanto al punto A), è stata censurata l'argomentazione, secondo cui andava respinta la richiesta concernente il lavoro straordinario prestato di sabato, siccome non risultante proposta negli stessi termini in primo grado. La doglianza, invero, è inammissibile sotto vari profili. In primo luogo, appaiono del tutto inconferenti i richiami agli artt. 275, 276 e seguenti del codice di rito (capo III - della decisione della causa, nell'ambito del libro secondo - del processo di cognizione - titolo I - Del procedimento davanti al tribunale), atteso che non è possibile comprendere come le anzidette norme siano state violate o falsamente applicate nel caso di specie dalla Corte di merito con la sentenza impugnata. D'altro canto, a parte evidenti carenze espositive, esaurienti nei sensi richiesti a pena d'inammissibilità dall'art. 366, comma 1, nn. 3 e 6, c.p.c., l'asserita errata ricostruzione delle richieste di parte attrice, andava censurata eventualmente come error in procedendo, ex art. 360 co. 1 n 4 dello stesso codice. Al riguardo, tuttavia (cfr. in part. Cass. sez. un. civ. n. 17931 del 24/07/2013), va ricordato che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall'art. 360, primo comma, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l'esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l'omessa pronuncia, da parte dell'impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del primo comma dell'art. 360 cod. proc. civ., con riguardo all'art. 112 cod. proc. civ., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame, allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (in senso conforme v. tra le altre Cass. n. 14026 del 2012 e n. 1370 del 2013).

Per contro, il ricorrente finisce in effetti per contestare il merito della ricostruzione del petitum, nei sensi ritenuti dalla Corte d'Appello, della cui decisione pretende quindi una conseguente riforma, criticandone la motivazione; ciò che non è ammissibile in questa sede di legittimità, il cui controllo è ammesso nei soli limiti rigorosamente fissati dal citato art. 360, vieppiù in relazione alla modifica del suo primo comma n. 5, da parte del legislatore del 2012, secondo il testo attualmente vigente, <<omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti>>, nella specie ratione temporis applicabile (risalendo la sentenza de qua al 23 maggio/25 luglio 2013), di modo che la motivazione di per sé è irrilevante, se non nei limiti del c.d. minimo costituzionale (cfr. Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014 ed altre di segno analogo), minimo però qui insussistente alla luce di quanto sufficientemente argomentato con la decisione impugnata.

Qualora, poi, con la pretesa errata ricostruzione il ricorrente abbia inteso denunciare una cattiva percezione delle richieste avanzate, sarebbe ipotizzabile il solo errore revocatorio di cui all'art. 395 c.p.c., con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione (cfr. tra le altre Cass. lav. n. 1195 del 3/2/2000: il ricorso per cassazione proposto sulla base di una ricostruzione dei fatti diversa da quella stabilita dalla sentenza impugnata - ovvero fondato sull’affermazione che il giudice del merito abbia erroneamente presupposto fatti inesistenti o comunque contrastanti con le risultanze testimoniali oppure abbia erroneamente ritenuto non contestata una circostanza di causa - è inammissibile, configurando ipotesi di travisamento dei fatti, contro cui è esperibile solo il rimedio della revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 4, cod. proc. civ.. Conformi Cass. lav. n. 6086 del 29/05/1991, II civ. n. 2207 del 05/02/2004, sez. lav. n. 15906 del 13/11/2002, id. n. 12965 del 06/09/2002, id. n. 2676 del 25/02/2002, III civ. n. 370 del 15/01/2002. V. altresì Cass. I civ. n. 7772 del 17/05/2012, secondo cui il ricorso per cassazione, fondato sull’affermazione che il giudice di merito abbia travisato le risultanze della consulenza tecnica, è inammissibile, configurando un'ipotesi di travisamento dei fatti processuali contro cui è esperibile solo il rimedio della revocazione, ai sensi dell'art. 395, n. 4, cod. proc. civ.. Conforme Cass. III civ. n. 885 del 25/01/2002.

Cfr. pure Cass. III civ. n. 5773 del 25/10/1988: è inammissibile il ricorso per cassazione proposto sulla base di una ricostruzione dei fatti diversa da quella stabilita nella sentenza impugnata perché, configurando un'ipotesi di travisamento dei fatti, resta esperibile soltanto il rimedio della revocazione ai sensi dell'art. 395 cod. proc. civ.. Conformi Cass. nn. 6922 e 5235 del 1986).

Parimenti, irrituale risulta la censura di omessa e/o falsa applicazione del c.c.n.I. pubblici esercizi, per violazione degli artt. 366, co. I n. 6, e 369 co. II n. 6 c.p.c., laddove il ricorso non solo ha mancato di indicare il deposito del contratto collettivo nel suo testo integrale (peraltro non è stato indicato nemmeno un riferimento cronologico di tale contratto collettivo), ma non ha neanche riprodotto il testo delle buste paga di giugno 1999, ivi menzionato, né specificamente riportato quello delle norme di detta contrattazione collettiva, asseritamente violate; senza dire poi che la doglianza di cui al suddetto punto B) risente altresì dell'inammissibilità relativa alla collegata censura di cui al precedente punto A.

Infondata oltre che inconferenti in relazione agli artt. 276 e ss. c.c., si appalesano le doglianze in ordine al regolamento delle spese di lite (punto CI del ricorso, pag. 12), operando in materia in principio (v. Cass. sez. un. civ. n. 15559 del 17/10/2003), secondo cui il giudice di appello, mentre nel caso di rigetto del gravame non può, in mancanza di uno specifico motivo d'impugnazione, modificare la statuizione sulle spese processuali di primo grado, allorché riforma in tutto o in parte la sentenza impugnata ha il potere di provvedere d'ufficio ad un nuovo regolamento di dette spese, quale conseguenza della pronunzia adottata, dovendo il relativo onere essere attribuito e ripartito in relazione all'esito complessivo della lite (conformi tra le altre Cass. III civ. n. 12963 del 04/06/2007.

Cfr. altresì da ultimo, nelle more della pubblicazione di questa sentenza, Cass. civ. sez. 6 - 3, ordinanza n. 1775 del 24/01/2017, secondo cui il giudice d'appello, mentre nel caso di rigetto del gravame non può, in mancanza di uno specifico motivo di impugnazione, modificare la statuizione sulle spese processuali di primo grado, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, è tenuto a provvedere, anche d'ufficio, ad un nuovo regolamento di dette spese alla stregua dell'esito complessivo della lite, atteso che, in base al principio di cui all'art. 336 c.p.c., la riforma della sentenza del primo giudice determina la caducazione del capo della pronuncia che ha statuito sulle spese. Conformi Cass. lav., sentenza n. 26985 del 22/12/2009, ed altre).

Le considerazioni precedenti valgono pure in relazione al motivo di ricorso C1, laddove soprattutto il ricorrente ha omesso una compiuta esposizione dei fatti processuali, in relazione ai quali lamenta in effetti un vizio di ultrapetizione, come tale però rilevante nei limiti precisati dal surriferito insegnamento delle Sezioni unite del 2013, quanto alla corretta denuncia di error in procedendo ex art. 360 n. 4 c.p.c. e per cui occorre, comunque, anche una esauriente allegazione, nei sensi di cui al richiamato art. 366 n. 6, prima ancora che il giudice di legittimità ne controlli la fondatezza mediante accesso diretto agli atti del procedimento (v. Cass. lav. n. 8008 del 04/04/2014: in caso di denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., del vizio di pretesa violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. da parte del giudice di merito, per avere pronunciato su di una domanda non proposta, il giudice di legittimità è investito del potere di esaminare direttamente il ricorso introduttivo del giudizio, purché ritualmente indicato ed allegato nel rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., al fine di verificare contenuto e limiti della domanda azionata). D'altro canto, non si comprende come possa seriamente dubitarsi della ritualità di una pronuncia che, a fronte di una domanda di risarcimento danni, quantificata in ragione di oltre complessivi ventunomila euro, l'abbia però accolta in misura nettamente inferiore, perciò ampiamente nel limiti del petitum, ancorché la domanda non abbia espressamente fatto riferimento ad una delle voci del nocumento complessivamente addotto.

A tale ultimo riguardo, poi, in relazione al danno patrimoniale (motivo 2A, pagg. 14/16 del ricorso) ed a quello morale (2B, pag. 16), il ricorso pecca ancora di autosufficienza, avendo soprattutto omesso di riportare, specificamente e compiutamente, il contenuto dell'avviso di accertamento, eseguito dall'Agenzia delle Entrate nei confronti del C. ed in relazione al quale è stato pure riconosciuto dalla Corte di merito il danno patrimoniale patito, unitamente per giunta alla sentenza di condanna penale, passata in giudicato, per appropriazioni indebite di somme di danaro dalla cassa del bar, nonché le doglianze del resistente in riconvenzionale - appellante incidentale circa pure il mancato riconoscimento del danno non patrimoniale.

Dalla lettura della sentenza qui impugnata emerge, invero, la condanna divenuta irrevocabile per appropriazione indebita da parte del dipendente di somme di danaro prelevate dal registratore di cassa, per cui la Corte di Appello ha testualmente tenuto conto non solo delle perdite dirette derivate da tali ammanchi (di cui alla liquidazione equitativa con riferimento agli incassi sottratti ... dopo che le videoregistrazioni eseguite dalle telecamere installate nel bar avevano documentato regolari sottrazioni di danaro), ma ha altresì insindacabilmente accertato le conseguenze economiche di un siffatto agire, visto che all'appellato era stata irrogata una sanzione di 7713,00 euro dall'Agenzia delle Entrate proprio per l'anno 2002, in relazione al quale non poteva mettersi in discussione la sottrazione degli incassi da parte del N., grazie alla mancata emissione degli scontrini fiscali, sicché la somma andava posta a suo carico. Dunque, a fronte di un tale preciso e motivato accertamento nonché della conseguente determinazione giudiziale di merito, non sono ammesse corrispondenti censure ex art. 360 c.p.c. (v. tra le altre Cass. civ. Sez. 6 - 5, ordinanza n. 7921 del 6/4/2011, secondo cui con la proposizione del ricorso per cassazione il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l'apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall'analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente; l'apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell'ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. In senso conforme, nelle more della pubblicazione di questa decisione, v. anche Cass. n. 9097 del 10/01 - 07/04/2017.

Cfr. altresì Cass. civ. sez. 6 - 5, ordinanza n. 91 del 07/01/2014: il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità. Ne consegue che, ove la parte abbia dedotto un vizio di motivazione, la Corte di cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, né porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito.

Conformi Cass. n. 15489 del 2007, n. 5024 del 2012.

V. ancora Cass. III civ., sentenza n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui anche il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., né in quello del precedente n. 4, disposizione che - per il tramite dell'art. 132, n. 4, c.p.c. - dà rilievo unicamente all'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante).

Le anzidette considerazioni valgono, altresì, per quanto concerne il contestato danno morale, in relazione al quale i giudici dell'appello hanno riconosciuto, con sufficiente motivazione, in punto di fatto, perciò insindacabilmente in questa sede, la somma di 1500,00 euro, pure <<dovendo ritenersi che l'onere di allegazione sia stato assolto attraverso il richiamo al contenuto e alle modalità della condotta offensiva posta in essere dal dipendente, essendo evidente che l'accertamento definitivo della stessa abbia provocato alla parte lesa turbamento e sofferenza, vieppiù nei confronti di una persona verso cui nutriva fiducia>>, dunque sia in punto di allegazioni, sia con riferimento evidentemente al c.d. metodo presuntivo (cfr. tra le Cass. III civ. n. 8421 del 03/03 - 12/04/2011: ... Inoltre il danno risarcibile ex art. 2059 c.c. è sempre un danno conseguenza. Ciò comporta che esso vada provato, non essendo ammissibile la ritenuta esistenza di tale danno, anche se conseguente a reato, come danno in re ipsa. Ovviamente nell'ambito delle prove per l’esistenza di tale danno non patrimoniale il giudice potrà avvalersi anche della prova presuntiva). Anche sul punto, dunque, il ricorso del N. è carente (art. 366 nn. 3 e 6 c.p.c.), per insufficiente enunciazione degli elementi allegati dal C. a sostegno della pretesa risarcitoria da costui azionata.

Infine, parimenti va osservato in relazione all'ultimo motivo circa il regolamento delle spese (pag. 17 del ricorso), che, come già sopra anticipato, vanno disciplinate in base all'esito finale complessivo della lite e per cui la Corte di merito ha ravvisato la maggiore soccombenza del N., giudizio però non adeguatamente e specificamente confutato dal ricorrente con pertinenti argomentazioni in punto di diritto, dovendosi per il resto rimandare pure a quanto rilevato a proposito della censura sub CI (pag. 12), di guisa che inoltre assolutamente inconferenti ed incompleti nella loro esposizione appaiono anche i rilievi (cfr. in part. pag. 13) circa la malafede per cui è stata vagamente altresì lamentata l'omessa applicazione dell'art. 96, primo e terzo comma, c.p.c.. Sennonché il primo comma, presuppone l'istanza dell'altra parte, per la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che il giudice liquida, anche di ufficio, in sentenza; istanza di parte cui il ricorrente non accenna minimamente.

Quanto, poi, al terzo comma - secondo cui in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata - premesso che la soccombenza è stata ritenuta soprattutto nei confronti dell'appellante principale, attuale ricorrente, va d'altro canto osservato che (a parte la facoltà, e non già l'obbligo, per il giudice di provvedere d'ufficio in proposito) tale comma è stato aggiunto dall'art. 45, I. 18 giugno 2009, n. 69, il cui art. 58, co. I, espressamente ha stabilito: «le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile e le disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore», avvenuta il 4 luglio 2009. Nel caso di specie, qui in esame, però il ricorso introduttivo del giudizio risaliva all'otto giugno 2003, donde l'inapplicabilità ratione temporis del succitato terzo comma.

Pertanto, il ricorso va respinto, con conseguente condanna del soccombente alle spese, dovendosi altresì dar atto dei presupposti di legge per il versamento dell'ulteriore contributo unificato.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore del controricorrente in euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi ed in euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.