Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 29 novembre 2016, n. 24227

Spese di pubblicità - Azienda di moda - Costi di vitto e alloggio agli agenti e clienti in occasione della sfilata per presentare la collezione - Interamente deducibili dal reddito d’impresa

 

Ritenuto in fatto

 

1. L’Agenzia delle entrate, sulla scorta delle risultanze di un processo verbale di constatazione redatto dalla G.d.F. e notificato alla C.C. s.r.l. in data 14 ottobre 2004, emetteva avviso di accertamento nei confronti della predetta società accertando un maggior reddito di impresa ai fini IRPEG, un maggior valore della produzione ai fini IRAP ed un maggiore imponibile ai fini IVA in relazione all’anno di imposta 2002.

2. Il ricorso proposto dalla società contribuente avverso detto atto impositivo veniva parzialmente accolto dalla Commissione Tributaria Provinciale di Ancona, mentre la Commissione Tributaria Regionale delle Marche con sentenza n. 335 del 3 dicembre 2009 annullava integralmente l’avviso di accertamento rigettando l’appello principale proposto dall’Agenzia delle entrate ma accogliendo quello incidentale della società.

2.1. Sostenevano i giudici di appello che, in relazione alla ripresa a tassazione dell’importo di € 144.165,00, pari al valore dei beni ceduti dalla società ai propri rappresentanti in conto campionario ed utilizzati a fini pubblicitari, la contribuente aveva correttamente inserito nel conto economico il valore finale dei predetti beni quantificato in € 16.061,00 in ragione del deprezzamento subito dai medesimi; che le spese di vitto e alloggio sostenute dalla società per agenti e clienti erano totalmente deducibili in quanto spese di pubblicità; che in forza della modifica apportata dalla Legge Finanziaria 2007 (l. n. 296 del 2006) all’art. 110, comma 11°, d.P.R. 917 del 1986, entrata in vigore tra la data in cui la causa era stata assunta in decisione dalla Commissione di primo grado e la data di pubblicazione della sentenza, l’omessa separata indicazione nella dichiarazione dei redditi dei costi e dei componenti negativi relativi ad operazioni commerciali intercorse con soggetti domiciliati in Paesi a fiscalità privilegiata non comportava più l’indeducibilità dei medesimi, ma soltanto l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’art. 1, comma 303, della citata legge finanziaria.

3. Avverso tale statuizione ricorre per cassazione l’Agenzia delle entrate sulla base di cinque motivi cui resiste l’intimata con controricorso.

4. Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente del 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.

 

Considerato in diritto

 

1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’insufficiente motivazione della sentenza impugnata per avere la CTR omesso di motivare <sull’avvenuto assolvimento, da parte della contribuente, dell'onere di provare l’avvenuta distruzione della merce asseritamente deteriorata e, specificamente, del valore probatorio delle bolle di smaltimento dei beni che componevano il campionario consegnato ai rappresentanti.

1.1. Il motivo è inammissibile.

1.2. Il giudice di appello ha annullato la ripresa a tassazione dell’importo di € 144.165,00, parametrato al valore dei beni ceduti dalla società contribuente ai propri rappresentanti in conto campionario e da questi utilizzati a fini pubblicitari, sul presupposto che tali beni, proprio per tale funzione dimostrativa, avevano subito un inevitabile deterioramento che ne aveva determinato il considerevole deprezzamento attestato dal valore (di € 16.061,00 appena) indicato nel conto economico dell’esercizio quale valore finale.

Pertanto, la censura in esame, con cui la ricorrente lamenta l’omessa motivazione sul mancato assolvimento da parte della società contribuente dell’onere di provare l’avvenuta distruzione dei capi deteriorati e, comunque, che gli stessi erano ricompresi tra la merce genericamente descritta nelle bolle di smaltimento dei rifiuti come <fallata o macchiata non adatta alla vendita>, non coglie nel segno, atteso che la Commissione regionale ha ritenuto i beni consegnati in conto campionario deprezzati e non distrutti, di guisa che la contribuente non avrebbe dovuto provare tale ultima circostanza.

2. Con il secondo motivo di ricorso l’Agenzia ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione del d.P.R. n. 917 del 1986, art. 74, secondo comma (nella numerazione ante riforma 2004, ora art. 108, secondo comma), laddove la CTR aveva qualificato come spese di pubblicità (interamente deducibili) quelle sostenute dalla società contribuente per offrire vitto e alloggio a propri agenti e clienti in occasione di un meeting (nella specie, una sfilate di moda), che invece andavano qualificate come spese di rappresentanza (deducibili nella minore misura prevista dalla citata disposizione) in quanto dirette ad accrescere il prestigio della società organizzatrice nei confronti di una platea selezionata di soggetti operanti nello specifico settore commerciale, ma non ad incrementarne le vendite.

2.1. Il motivo è infondato atteso che è principio giurisprudenziale, dal quale non v'è ragione di discostarsi (da ultimo ribadito da Cass. n. 8851 del 2016 proprio in tema di spese di ospitalità, nonché Cass. n. 8121 del 2016; v. anche C. giust. 17.11.1993, C-68/92, C-69/92, C-73/92) quello secondo cui l’obiettivo perseguito con le spese di pubblicità o propaganda, <di regola, consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, normalmente, concernente la produzione realizzata in un determinato contesto (Cass. 3433/2012; conf. da ultimo 21977/2015)> laddove, invece, le spese di rappresentanza <coincidono con la crescita d'immagine ed il maggior prestigio nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società> (Cass. n. 8121 cit.).

2.2. Orbene, con riferimento al caso di specie, esclusa l’equiparazione di sfilate di moda organizzate dalla ditta produttrice dei capi di abbigliamento <ai convegni e simili>, cui fa menzione l’art. 74 TUIR, deve ritenersi che la spesa sostenuta per la presentazione dei predetti capi da parte della società produttrice ad una clientela selezionata di soggetti operanti nel settore e probabili acquirenti, costituisca spesa destinata ad incrementare le vendite presso i predetti clienti e, quindi, spesa di natura pubblicitaria. La <relazione diretta tra tali spese e i ricavi che le stesse hanno fatto conseguire alla società>, di cui hanno dato espressamente atto i giudici di appello, con accertamento in fatto che non è stato fatto oggetto di specifica censura, è elemento che conferma la natura pubblicitaria dei costi in esame.

3. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione del d.P.R. 917 del 1986, art. 110, e della legge n. 296 del 2006, art. 1, commi 301, 302 e 303, laddove la CTR aveva ritenuto applicabile il regime di indeducibilità dei costi e dei componenti negativi di reddito relativi ad operazioni commerciali intercorse con soggetti domiciliati in Paesi a fiscalità privilegiata e la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’art. 1, comma 303, della citata legge finanziaria per l’omessa separata indicazione nella dichiarazione dei redditi di tali operazioni, pur in assenza di prova, che avrebbe dovuto fornire la società contribuente, <che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione> (come recita l’art. 110, undicesimo comma, TUIR).

3.1. Il motivo è inammissibile.

3.2. La ripresa a tassazione delle spese e dei componenti negativi di reddito derivanti da operazioni intercorse tra la società contribuente e le imprese fiscalmente domiciliate in Stati aventi regimi fiscali privilegiati è stata operata dall’Agenzia delle entrate sul solo ed unico presupposto della loro mancata separata indicazione nella dichiarazione dei redditi. Di ciò dà atto la stessa ricorrente nell’esposizione dei fatti di causa (pag. 2, punto 7, del ricorso) laddove, con riferimento al mancato rispetto delle <disposizioni di cui all’art. 110, comma 11 del TUIR>, specifica che trattavasi della annotazione separata nella dichiarazione dei redditi >. Da tanto consegue che la questione relativa alla sussistenza delle altre condizioni poste dall'art. 110 cit. per usufruire della deducibilità di quei costi non aveva formato oggetto di contestazione, né di dibattito processuale nei gradi di merito con conseguente novità e conseguente inammissibilità (arg. da Cass. n. 22553 del 2012; n. 10806 del 2012) della contestazione mossa per la prima volta con il ricorso in esame, che chiaramente comporta una alterazione dei fatti costitutivi della pretesa tributaria ed un ampliamento dell’oggetto del giudizio (v. Cass. n. 10806 del 2012; n. 1584 del 2006, n. 3345 del 2002, n. 4125 del 2002).

Pertanto, in difetto di quella contestazione, la società contribuente ed i giudici di merito non erano tenuti, la prima, a fornire la prova della sussistenza di una di quelle condizioni, poste alternativamente dall’art. 110, comma 11°, TUIR (e cioè che le imprese estere svolgessero <prevalentemente un'attività commerciale effettiva> o che le operazioni effettuate rispondessero <ad un effettivo interesse economico ed avessero avuto <concreta esecuzione>) ed i giudici a verificarne la concludenza.

4. Con il quarto motivo di ricorso l’Agenzia ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., il contrasto esistente tra la motivazione ed il dispositivo della sentenza impugnata, per avere omesso in quest’ultimo qualsiasi riferimento a quanto affermato in motivazione in ordine all’applicazione alla società contribuente della sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 8, primo comma, d.lgs. n. 471 del 1997, previsto dall’art. 1, comma 303, legge n. 296 del 2006 per l’ipotesi di omessa separata indicazione nella dichiarazione dei redditi dell’ammontare dei componenti negativi di reddito derivanti dalle operazioni intercorse con soggetti domiciliati in Paesi a fiscalità privilegiata.

4.1. Il motivo, anche a voler prescindere dalla sua inammissibilità per erronea sussunzione del vizio denunciato (invero, secondo un più convincente orientamento giurisprudenziale, il contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione determina la nullità della sentenza, ai sensi degli artt. 156 e 360 n. 4 cod. proc. civ. - cfr. Cass. n. 26077/15; n. 15990/14; n. 14966/07), è infondato e va rigettato.

4.2. Al riguardo, richiamato il principio giurisprudenziale in base al quale <la portata precettiva di una sentenza va individuata tenendo conto non solo del dispositivo, ma anche della motivazione, quando il primo, contenga comunque una decisione che, pur di contenuto incompleto e indeterminato, si presti ad essere integrata dalla seconda> (in termini Cass. n. 19074 del 2015), deve osservarsi che la pronuncia che la ricorrente ritiene essere stata omessa dai giudici di appello va, invece, rinvenuta nella statuizione di accoglimento dell’appello della contribuente, posto che era stata proprio quest’ultima, così come sostenuto nel controricorso (pag. 22), ad avanzare, con riferimento al rilievo mossole dall’Amministrazione finanziaria, domanda - integralmente trascritta nel controricorso (alle pagg. 22 e 23) - di applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria.

5. Con il quinto motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 56 d.P.R. n. 633 del 1972.

Sostiene la ricorrente che la CTR, annullando l’avviso di accertamento, aveva implicitamente accolto - non rinvenendosi alcuna specifica statuizione nella sentenza gravata - il motivo di appello con cui la società contribuente aveva chiesto l’annullamento delle riprese a tassazione dell’IVA sulle cessioni gratuite di campionari ad agenti comunitari ed extracomunitari e sugli acquisti di natura pubblicitaria da una società avente domicilio fiscale nel territorio della Repubblica di San Marino, in quanto era stato contestato un insistente quinto comma dell’art. 55 d.P.R. n. 600 del 1973.

5.1. Il motivo è inammissibile.

5.2. Al riguardo deve osservarsi che la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che l’erronea indicazione nell'atto impositivo della norma tributaria che sarebbe stata violata, non è, di per sé, causa di nullità dell'atto per inosservanza dell'obbligo di motivazione, previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, se la pretesa impositiva venga giustificata sulla base di presupposti di fatto e questi siano espressamente indicati dall'atto (Cass. n. 3257 del 2002; n. 28968 del 2008), che l’Agenzia ricorrente, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso postulato dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ. (cfr. Cass. n. 14784 del 2015, n. 26489, n. 19306 e n. 14541 del 2014), avrebbe dovuto trascrivere in parte qua nel motivo in esame, non essendo idoneo e sufficiente a consentire a questa Corte di effettuare il necessario vaglio della fondatezza del motivo in esame (v. Cass. n. 15952 del 2007) il contenuto riassuntivo di quella ripresa a tassazione fatta dalla società contribuente nel ricorso di primo grado.

5.3. Va in ogni caso rilevato che, in relazione alla ripresa a tassazione delle cessioni gratuite dei campionari, l'Amministrazione finanziaria ha prestato acquiescenza alla sentenza di primo grado che aveva annullato quella stessa ripresa ai fini IRPEG ed IRAP, non avendo impugnato in appello la decisione di primo grado. Ne discende che sulla questione di dette cessioni si è formato un giudicato interno i cui effetti devono estendersi, ex art. 336 c.p.c., anche alla ripresa a tassazione dell'IVA in quanto fondata sul medesimo presupposto impositivo.

6. In estrema sintesi, vanno dichiarati inammissibili il primo, terzo e quinto motivo di ricorso, infondati i restanti motivi e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali liquidate come in dispositivo ai sensi del d.m. Giustizia n. 55 del 2014 nonché al rimborso in favore della controricorrente delle spese forfettarie nella misura che si ritiene congruo indicare nel 15% del compenso, oltre accessori come per legge.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibili il primo, terzo e quinto motivo di ricorso, infondati i restanti motivi, e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in € 10.000,00, oltre spese forfettarie nella misura del 15% del compenso ed accessori come per legge.