Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 31 ottobre 2016, n. 21978

Commissioni aggiudicatrici appalto - Gare - Partecipazione di imprese in cui è presente un parente - Licenziamento - Giusta causa

 

Svolgimento del processo

 

La Corte territoriale di Roma, con sentenza depositata l’11/2/2014, accogliendo l’appello incidentale della R. S.p.A. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede, ed in riforma di tale sentenza, respingeva le domande proposte da D.V.V.B. nei confronti della predetta società, dirette ad ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro, il risarcimento del danno da mobbing e l’indennità sostitutiva di ferie non godute, condannando il D.V. alla restituzione delle somme erogate dalla società R.T. a titolo di indennità di preavviso, in esecuzione della sentenza di primo grado, oltre interessi legali dal pagamento al saldo.

Per la cassazione della sentenza ricorre il D.V. affidandosi a tre motivi, ulteriormente illustrati da memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

La R. S.p.A. resiste con controricorso, depositando altresì memoria.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo il D.V. denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, lamentando che la sentenza impugnata ha accertato la giusta causa del licenziamento del ricorrente affermando che "non vi era bisogno di una specifica norma regolamentare per comprendere che un dirigente, per di più di tipo apicale come il D.V., non poteva intrattenere rapporti di tipo commerciale con una società che vedeva come direttore commerciale il proprio cognato"; lamenta ancora che, conseguentemente, la sentenza non avrebbe accertato il fatto decisivo per il giudizio, cioè che "Le disposizioni interne per l’approvvigionamento di beni, servizi e lavori della convenuta prevedono che "L’iscrizione e la permanenza di imprese in posizione di iscritto nell’elenco fornitori .... deve essere espressamente autorizzata dal Direttore Generale della R., previa approvazione del Consiglio di Amministrazione..

2. Con il secondo motivo, formulato in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2105 e 2119 c.c., per avere la Corte di merito erroneamente accertato la giusta causa di licenziamento, mentre nel caso di specie i fatti accertati dalla sentenza non costituivano giusta causa e quindi doveva essere pagata l’indennità sostitutiva del preavviso, lamentando, altresì, che altri dipendenti che versavano nella stessa situazione del ricorrente avevano ricevuto solo una sanzione conservativa.

3. Con il terzo mezzo di impugnazione si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e degli artt. 19 e 22 del contratto collettivo nazionale dei dirigenti industriali del 24 novembre 2004, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per avere la corte di Appello erroneamente accertato la giustificazione del licenziamento, mentre nel caso di specie i fatti accertati dalla sentenza non costituivano né giusta causa, né giustificato motivo negoziale di licenziamento.

I motivi non sono meritevoli di accoglimento.

1.1 Quanto al primo motivo, se ne rileva l’inammissibilità.

Invero, come sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 8053 del 2014), per effetto della riforma del 2012, per un verso, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione); per l’altro verso, è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Orbene, poiché la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata pubblicata, come riferito in narrativa, in data 11 febbraio 2014, nella fattispecie si applica, ratione temporis, il nuovo testo dell'art. 360, comma 1, n. 5), come sostituito dall’art. 54, comma 1, lettera b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ma nel caso in esame, il motivo di ricorso che denuncia il vizio motivazionale ha riguardo ad un fatto storico con carattere di decisività (riportato in narrativa) ampiamente esaminato dalla Corte di Appello, che ne ha valutato la gravità proprio perché il D.V., per la posizione di rilievo che occupava, avrebbe dovuto comprendere che non poteva intrattenere rapporti di tipo commerciale con una società che vedeva come direttore commerciale il proprio cognato. Per dovere di completezza, va pure osservato che il ricorrente non fa riferimento, alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite, ad un vizio della sentenza "così radicale da comportare" in linea con "quanto previsto dall’art. 132, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza per mancanza di motivazione".

E, dunque, non potendosi più censurare, dopo la riforma del 2012, la motivazione relativamente al parametro della sufficienza, rimane il controllo di legittimità sulla esistenza e sulla coerenza del percorso motivazionale del giudice di merito (cfr., tra le molte, Cass. n. 25229 del 2015) che, nella specie, è stato condotto dalla Corte territoriale con argomentazioni logico-giuridiche del tutto congrue in ordine alla configurazione della sussistenza della giusta causa del licenziamento di cui si tratta.

1.2 e 1.3. Quanto al secondo ed al terzo motivo - che possono essere trattati insieme per motivi di connessione - va, innanzitutto, osservato che la giusta causa di licenziamento è una nozione di legge che si viene ad inscrivere in un ambito di disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi "normativi" e di clausole generali (Generalklauseln) - correttezza (art. 1175 c.c.); obbligo di fedeltà, lealtà, buona fede (art. 1375 c.c.); giusta causa, appunto (art. 2119 c.c.) - il cui contenuto, elastico ed indeterminato, richiede, nel momento giudiziale e sullo sfondo di quella che è stata definita la "spirale ermeneutica" (tra fatto e diritto), di essere integrato, colmato, sia sul piano della quaestio facti che della quaestio iuris, attraverso il contributo dell'interprete, mediante valutazioni e giudizi di valore desumibili dalla coscienza sociale o dal costume o dall’ordinamento giuridico o da regole proprie di determinate cerchie sociali o di particolari discipline o arti o professioni, alla cui stregua poter adeguatamente individuare e delibare altresì le circostanze più concludenti e più pertinenti rispetto a quelle regole, a quelle valutazioni, a quei giudizi di valore, e tali non solo da contribuire, mediante la loro sussunzione, alla prospettazione e configurabilità della tota res (realtà fattuale e regulae iuris), ma da consentire inoltre al giudice di pervenire, sulla scorta di detta complessa realtà, alla soluzione più conforme al diritto, oltre che più ragionevole e consona.

Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura di norma giuridica, come in più occasioni sottolineato da questa Corte, e la disapplicazione delle stesse è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. Pertanto, l’accertamento della ricorrenza, in concreto, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, è sindacabile nel giudizio di legittimità, a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli "standards" conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale (Cass. n. 25044/15; Cass. n. 8367/2014; Cass. n. 5095/11). E ciò, in quanto, il giudizio di legittimità deve estendersi pienamente, e non solo per i profili riguardanti la logicità e la completezza della motivazione, al modo in cui il giudice di merito abbia in concreto applicato una clausola generale, perché nel farlo compie, appunto, un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma, dando concretezza a quella parte mobile della stessa che il legislatore ha introdotto per consentire l’adeguamento ai mutamenti del contesto storico-sociale (Cass., S.U., n. 2572/2012).

Nei motivi di ricorso qui in esame, le censure formulate alla sentenza della Corte di Appello appaiono inconferenti poiché non evidenziano in modo puntuale gli "standards" dai quali il Collegio di merito si sarebbe discostato. Non risulta, in sostanza, inciso da errores in indicando l’iter motivazionale della Corte di merito, poiché, coerentemente, viene messo in luce il comportamento, certamente lesivo del vincolo fiduciario, tenuto dal D.V.. Al riguardo, correttamente, la Corte di Appello sottolinea che il Codice Etico era stato inviato dalla capogruppo R. a tutte le società del gruppo ed era stato distribuito a tutti i dipendenti (compreso ovviamente il D.V., il quale aveva, come gli altri, apposto la firma per ricezione); ma, sottolinea ancora condivisibilmente la Corte, anche volendo prescindere da un formale recepimento delle linee guida per la stipula dei contratti, non vi era certo bisogno di una specifica norma regolamentare per comprendere che un dirigente, per di più di tipo apicale, come il D.V., non poteva intrattenere rapporti di tipo commerciale con una società che vedeva come direttore commerciale il proprio cognato. Ed ancora correttamente, la Corte di merito ha ritenuto che non vi fosse alcun bisogno di specificare ai dipendenti di R. T. S.p.A., in una clausola regolamentare, il loro obbligo di astenersi in caso di partecipazioni a commissioni aggiudicatrici di appalto, alle cui gare partecipavano anche aziende con dipendenti parenti dei componenti della Commissione.

In tale contesto, il comportamento del ricorrente è ben lungi dalla previsione del disposto della norma di cui all’art. 2014 cod. civ. che, nel prescrivere (al secondo comma) che il prestatore di lavoro debba osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende, obbliga lo stesso prestatore ad usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale. E certamente, nella fattispecie, la natura della prestazione avrebbe dovuto essere oggetto di una particolare attenzione e diligenza da parte di coloro che operavano in quel particolare settore in cui prestava servizio il D.V., non quale semplice operatore, ma come dirigente apicale, dotato di capacità di discernimento, al quale la società datrice di lavoro aveva affidato compiti delicati e di responsabilità.

Orbene, alla stregua dei costanti arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte, il licenziamento disciplinare è giustificato nei casi in cui i fatti attribuiti al lavoratore rivestano il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da ledere irrimediabilmente l’elemento fiduciario; il giudice di merito deve, pertanto, valutare gli aspetti concreti che attengono principalmente alla natura del rapporto di lavoro, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni specifiche del dipendente, al nocumento arrecato, alla portata soggettiva dei fatti, ai motivi ed all’intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo (v., ex plurimis, Cass. n. 25608/2014).

La Corte di Appello, nella valutazione della proporzionalità tra illecito disciplinare e sanzione applicata, si è attenuta a tale insegnamento ed ha tratto le conseguenze logico-giuridiche in termini di proporzionalità tra fatto commesso e sanzione irrogata. La Corte non ha omesso, quindi, di tenere nel debito conto il fatto che le delicate mansioni attribuite al D.V. avrebbero meritato ben altra attenzione nel momento esecutivo, mentre sono state esercitate, reiteratamente, in violazione anche dell’art. 2105, ultima parte, cod. civ., in modo da arrecare pregiudizio al datore di lavoro, senza l’osservanza del prescritto obbligo di fedeltà, con grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e con modalità tali da porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento da parte della dipendente (cfr., Cass. n. 5434/2003; Cass. n. 25044/2015 cit.).

Deve quindi affermarsi che neppure il secondo ed il terzo mezzo di impugnazione sono idonei a scalfire le argomentazioni cui è pervenuta la Corte territoriale di Roma, dovendosi anche sottolineare, ad abundantiam che il CCNL Dirigenti industriali del 24 novembre 2004, cui si fa espressamente nel terzo motivo neppure è stato prodotto.

Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 - quater, del d.P.R. n. 115 del 2012 (ndr art. 13, comma 1 - quater, del d.P.R. n. 115 del 2002).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 - quater del d.P.R. n. 115 del 2012, (ndr art. 13, comma 1 - quater del d.P.R. n. 115 del 2002) dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 - bis dello stesso articolo 13.