Giurisprudenza - TRIBUNALE DELLA SPEZIA - Ordinanza 02 novembre 2016

Previdenza e assistenza - Perequazione automatica delle pensioni per gli anni 2012 e 2013 - Esclusione per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS - Riconoscimento integrale per i trattamenti pensionistici fino a tre volte il trattamento minimo INPS e in diverse misure percentuali per quelli compresi tra tre e cinque volte il trattamento minimo INPS - Decreto Legge 6 dicembre 2011, n. 201 convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214

 

Con ricorso depositato in data 24 marzo 2016 S. P., R. S., V. V., F. M. e F. B. convenivano in giudizio davanti al Tribunale della Spezia l'INPS, per sentire dichiarare il loro diritto, con corrispondente condanna dell'Istituto convenuto, al pagamento delle somme richieste a titolo di arretrati per rivalutazione dei trattamenti pensionistici per gli anni 2012/2013, oltre le differenze successivamente maturate, previa rimessione degli atti del giudizio alla Corte costituzionale per l'esame della questione di legittimità costituzionale del comma 25, dell'art. 24, decreto-legge n. 201/2011 (convertito in legge n. 214/2011), come modificato dal decreto-legge n. 65/2015 (convertito in legge n. 109/2015).

L'INPS, ritualmente intimato, si costituiva in giudizio resistendo alle domande avversarie.

Prima di affrontare la dedotta questione di legittimità costituzionale, è opportuno premettere alcuni cenni in ordine all'evoluzione del quadro normativo di riferimento.

La perequazione automatica, quale strumento di adeguamento delle pensioni al mutato potere di acquisto della moneta, fu disciplinata dalla legge 21 luglio 1965, n. 903. La discrezionalità di cui gode il legislatore nella scelta del meccanismo perequativo diretto all'adeguamento delle pensioni, fondata sul disposto degli articoli 36 e 38 Cost., ha quindi trovato il proprio meccanismo attuativo nel sistema di perequazione automatica dei trattamenti pensionistici, introdotto dall'art. 19, della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), mediante l'agganciamento in misura percentuale degli aumenti delle pensioni all'indice del costo della vita calcolato dall'ISTAT.

In considerazione di variabili esigenze di contenimento della spesa, si sono succedute nel tempo diverse sospensioni legislative del meccanismo rivalutativo, tra le quali quella introdotta con la disposizione censurata dai ricorrenti.

Dopo le misure di contenimento adottate con gli articoli 16 legge n. 843/1978 e 2 decreto-legge n. 348/1992, i successivi interventi di cui all'art. 59, comma 13, legge n. 449/1997 e 1, comma 19, legge n. 247/2007 sono stati ritenuti legittimi dalla Corte costituzionale, rispettivamente con ordinanza n. 256/2001 e con sentenza n. 316/2010.

Un ulteriore blocco della perequazione è stato introdotto con l'art. 24, comma 25, decreto-legge n. 201/2011, convertito con modificazioni in legge n. 214/2011 che aveva previsto che la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici disciplinata dall'art. 34, comma 1, legge n. 448/1998, per gli anni 2012 e 2013, fosse riconosciuta, nella misura del 100%, per i soli trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS.

Con sentenza n. 70 del 30 aprile 2015 la Corte costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità, per violazione degli articoli 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Costituzione, del predetto art. 24, comma 25, decreto-legge n. 201/2011 cit., nella parte in cui prevede che, in considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, ai sensi dell'art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, nella misura del 100 per cento esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS.

A seguito di tale sentenza, veniva emanato il decreto-legge n. 65/2015, convertito in legge n. 109/2015, che ha modificato il comma 25 dell'art. 24 del citato decreto-legge n. 201/2011 nei seguenti termini:

«La rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012 e 2013, è riconosciuta:

a) nella misura del 100 per cento per i trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;

b) nella misura del 40 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo INPS con riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a quattro volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;

c) nella misura del 20 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo INPS con riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a cinque volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;

d) nella misura del 10 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS con riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a sei volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;

e) non è riconosciuta per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS con riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi».

I ricorrenti, richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015, lamentano l'incostituzionalità della disciplina da ultimo indicata sotto i seguenti profili:

1) Violazione del principio di cui all'art. 38, comma 2, Cost., poiché la mancata rivalutazione impedisce la conservazione nel tempo del valore della pensione, menomandone l'adeguatezza;

2) Violazione del principio di cui all'art. 36, comma 1, Cost., poiché la mancata rivalutazione viola il principio di proporzionalità tra pensione (che costituisce il prolungamento della retribuzione goduta in costanza di lavoro) e retribuzione goduta durante l'attività lavorativa;

3) Violazione del principio derivante dal combinato disposto degli articoli 36, 38 e 3 Cost., poiché la mancata rivalutazione, violando il principio di proporzionalità tra pensione e retribuzione e quello di adeguatezza della prestazione previdenziale, altera il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati;

4) Violazione del principio di universalità dell'imposizione di cui all'art. 53 Cost., nonché di quello di non discriminazione ai fini dell'imposizione, di ragionevolezza nell'esercizio del potere di imposizione, nonché del principio della parità di prelievo a parità di presupposto di imposta di cui al combinato disposto degli articoli 3, 23 e 53 Cost., poiché la misura adottata si configura quale prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria, in quanto doverosa, non connessa all'esistenza di un rapporto sinallagmatico tra le parti e collegata esclusivamente alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante;

5) Violazione dell'art. 136 Cost., avendo la Corte costituzionale da sempre sostenuto il principio secondo cui una sua sentenza ha efficacia vincolante anche per il Parlamento, al quale è preclusa la possibilità di ripristinare l'efficacia di una norma di legge già precedentemente dichiarata incostituzionale.

Ritiene questo giudice che la questione d'incostituzionalità sollevata dai ricorrenti sia rilevante e non manifestamente infondata.

Come evidenziato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 70 del 2015, «la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all'art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all'art. 36 Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 208 del 2014 e sentenza n. 116 del 2013).

Per le sue caratteristiche di neutralità e obiettività e per la sua strumentalità rispetto all'attuazione dei suddetti principi costituzionali, la tecnica della perequazione si impone, senza predefinirne le modalità, sulle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario. Un tale intervento deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui agli articoli 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., principi strettamente interconnessi, proprio in ragione delle finalità che perseguono.

La ragionevolezza di tali finalità consente di predisporre e perseguire un progetto di eguaglianza sostanziale, conforme al dettato dell'art. 3, secondo comma, Cost. così da evitare disparità di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti pensionistici. Nell'applicare al trattamento di quiescenza, configurabile quale retribuzione differita, il criterio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36, primo comma, Cost.) e nell'affiancarlo al criterio di adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.), questa Corte ha tracciato un percorso coerente per il legislatore, con l'intento di inibire l'adozione di misure disomogenee e irragionevoli (fra le altre, sentenze n. 208 del 2014 e n. 316 del 2010). Il rispetto dei parametri citati si fa tanto più pressante per il legislatore, quanto più si allunga la speranza di vita e con essa l'aspettativa, diffusa fra quanti beneficiano di trattamenti pensionistici, a condurre un'esistenza libera e dignitosa, secondo il dettato dell'art. 36 Cost.

Non a caso, fin dalla sentenza n. 26 del 1980, questa Corte ha proposto una lettura sistematica degli articoli 36 e 38 Cost., con la finalità di offrire «una particolare protezione per il lavoratore».

Essa ha affermato che proporzionalità e adeguatezza non devono sussistere soltanto al momento del collocamento a riposo, «ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere d'acquisto della moneta», senza che ciò comporti un'automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l'ultima retribuzione, poiché è riservata al legislatore una sfera di discrezionalità per l'attuazione, anche graduale, dei termini suddetti (ex plurimis, sentenze n. 316 del 2010; n. 106 del 1996; n. 173 del 1986; n. 26 del 1980; n. 46 del 1979; n. 176 del 1975; ordinanza n. 383 del 2004). Nondimeno, dal canone dell'art. 36 Cost. «consegue l'esigenza di una costante adeguazione del trattamento di quiescenza alle retribuzioni del servizio attivo» (sentenza n. 501 del 1988; fra le altre, negli stessi termini, sentenza n. 30 del 2004). Il legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali deve «dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, alla stregua delle risorse finanziarie attingibili e fatta salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona» (sentenza n. 316 del 2010). Per scongiurare il verificarsi di «un non sopportabile scostamento» fra l'andamento delle pensioni e delle retribuzioni, il legislatore non può eludere il limite della ragionevolezza (sentenza n. 226 del 1993).

Al legislatore spetta, inoltre, individuare idonei meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni all'incremento del costo della vita. Così è avvenuto anche per la previdenza complementare, che, pur non incidendo in maniera diretta e immediata sulla spesa pubblica, non risulta del tutto indifferente per quest'ultima, poiché contribuisce alla tenuta complessiva del sistema delle assicurazioni sociali (sentenza n. 393 del 2000) e, dunque, all'adeguatezza della prestazione previdenziale ex art. 38, secondo comma, Cost.

Pertanto, il criterio di ragionevolezza, così come delineato dalla giurisprudenza citata in relazione ai principi contenuti negli articoli 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue scelte all'adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali».

In altre parole, il legislatore è vincolato nell'an circa la spettanza della perequazione, pur mantenendo una discrezionalità nella determinazione in concreto del quantum della tutela. Tale discrezionalità dev'essere però esercitata secondo ragionevolezza, garantendo una protezione effettiva, mediante l'individuazione di meccanismi che, pur nel bilanciamento tra le esigenze di politica economica e le disponibilità finanziarie, assicurino un reale ed effettivo adeguamento dei trattamenti di quiescenza alle variazioni del costo della vita (v. anche Corte Cost., sent. n. 30/2004).

Così, il Giudice delle leggi, con sentenza n. 316 del 2010, ha ritenuto esercizio ragionevole della discrezionalità del legislatore e, dunque, legittimo l'intervento di cui all'art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, con il quale era stato disposto il blocco della perequazione automatica, per il solo anno 2008, delle pensioni con importo superiore a otto volte il trattamento minimo INPS, con lo scopo dichiarato di contribuire al finanziamento solidale degli interventi sulle pensioni di anzianità, contestualmente adottati con l'art. 1, commi 1 e 2, della medesima legge.

La Corte, in particolare, ha escluso che vi fosse stata lesione dei principi di adeguatezza e proporzionalità delle pensioni alle retribuzioni, di cui agli articoli 38 e 36 Cost., considerato che le pensioni incise dalla norma impugnata, per il loro importo piuttosto elevato e per la limitazione dell'intervento ad un solo anno, presentavano margini di resistenza all'erosione determinata dal fenomeno inflattivo. Quanto alle censure di irragionevolezza, la Corte ha osservato che «dev'essere riconosciuta al legislatore - all'interno di un disegno complessivo di razionalizzazione della precedente riforma previdenziale - la libertà di adottare misure, come quella denunciata, di concorso solidaristico al finanziamento di un riassetto progressivo delle pensioni di anzianità, onde riequilibrare il sistema a costo invariato. In tale prospettiva, neppure può ritenersi violato il principio di eguaglianza, perché il blocco della perequazione automatica per l'anno 2008, operato esclusivamente sulle pensioni superiori ad un limite d'importo di sicura rilevanza, realizza un trattamento differenziato di situazioni obiettivamente diverse rispetto a quelle, non incise dalla norma impugnata, dei titolari di pensioni più modeste. E che si tratti di situazioni disomogenee trova conferma nella stessa disciplina «a regime» della perequazione automatica, la quale prevede una copertura decrescente, a mano a mano che aumenta il valore della prestazione.

Inoltre, la chiara finalità solidaristica dell'intervento, in contrappeso all'espansione della spesa pensionistica dovuta alla graduazione dell'entrata in vigore di nuovi più rigorosi criteri di accesso al pensionamento di anzianità, offre una giustificazione ragionevole alla soppressione annuale della rivalutazione automatica prevista a scapito dei titolari dei trattamenti medio - alti. Il loro sacrificio, infatti, serve ad attuare la scelta non arbitraria del legislatore di soddisfare - cancellando la brusca elevazione dell'età minima pensionabile - le aspettative maturate dai lavoratori, i quali, in base alla più favorevole disciplina previgente, erano prossimi al raggiungimento del prescritto requisito anagrafico».

Respinte le censure di incostituzionalità portate alla sua attenzione, la Corte, in chiusura della pronuncia, non ha mancato di lanciare un monito al legislatore, segnalando espressamente che «la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità (su cui, nella materia dei trattamenti di quiescenza, v. sentenze n. 372 del 1998 e n. 349 del 1985), perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d'acquisto della moneta».

Tale monito non è stato tuttavia ascoltato dal legislatore, come evidenziato dalla stessa Corte costituzionale nella successiva sentenza n. 70 del 2015.

In effetti, con l'intervento di cui al comma 25 dell'art. 24 del decreto-legge n. 201 del 2011, è stata introdotto un ulteriore blocco del meccanismo rivalutativo secondo una disciplina che si discosta sotto diversi profili da quella precedentemente ritenuta conforme a Costituzione.

Ed invero, l'intervento adottato nel 2011, rispetto al blocco della perequazione per il 2008, incide su trattamenti di importo inferiore rispetto a quelli di cui all'intervento precedente, per un periodo di tempo più lungo (un biennio, in luogo di un solo anno) e per motivazioni riconducibili a generiche esigenze di bilancio, laddove la legge n. 247/2007 aveva disposto il blocco della rivalutazione per espresse finalità solidaristiche legate al complessivo riequilibrio del sistema pensionistico.

La Corte costituzionale, chiamata ad esprimersi sulla legittimità dell'intervento in questione, ha quindi osservato che «La censura relativa al comma 25, dell'art. 24, del decreto-legge n. 201 del 2011, se vagliata sotto i profili della proporzionalità e adeguatezza del trattamento pensionistico, induce a ritenere che siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con «irrimediabile vinificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività» (sentenza n. 349 del 1985).

Non è stato dunque ascoltato il monito indirizzato al legislatore con la sentenza n. 316 del 2010.

Si profila con chiarezza, a questo riguardo, il nesso inscindibile che lega il dettato degli articoli 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. (fra le più recenti, sentenza n. 208 del 2014, che richiama la sentenza n. 441 del 1993). Su questo terreno si deve esercitare il legislatore nel proporre un corretto bilanciamento, ogniqualvolta si profili l'esigenza di un risparmio di spesa, nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo «al fine di evitare che esso possa pervenire a valori critici, tali che potrebbero rendere inevitabile l'intervento correttivo della Corte» (sentenza n. 226 del 1993). La disposizione concernente l'azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24, dell'art. 25, del decreto-legge n. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall'art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica» (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale «puntualizzazione tecnica» dell'art. 81 Cost.).

L'interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l'adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.).

Quest'ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all'art. 3, secondo comma, Cost.».

Nei confronti delle disposizioni introdotte con il decreto legge n. 65/2015, censurate dagli odierni ricorrenti, si ritiene possano porsi i medesimi dubbi di legittimità costituzionale già ravvisati dalla Corte con riferimento alla previgente formulazione dell'art. 25, comma 24, del decreto-legge n. 201 del 2011.

Anche la disciplina attualmente vigente, infatti, analogamente a quanto disposto con l'intervento dichiarato incostituzionale:

esclude in toto la rivalutazione nei confronti di trattamenti pensionistici di importo inferiore (sei volte il trattamento minimo INPS) rispetto a quelli (di importo pari ad otto volte il minimo) che la Corte, con sentenza n. 316/2010, aveva ritenuto «di sicura rilevanza» e che «presentavano margini di resistenza all'erosione determinata dal fenomeno inflattivo»; vengono poi individuate, con la disciplina in esame, fasce intermedie di valore, nei cui confronti la rivalutazione viene comunque pesantemente incisa (in particolare, per le pensioni di valore compreso tra tre e quattro volte il minimo, la rivalutazione è limitata nell'importo del 40% di quella che sarebbe dovuta, limitazione che si eleva al 20% per i trattamenti compresi tra quattro e cinque volte il minimo ed al 10% per i trattamenti tra cinque e sei volte il minimo);

conferma il blocco della perequazione automatica per un biennio, introducendo ulteriori limitazioni anche per gli anni successivi (in virtù della disposizione che limita l'operatività della rivalutazione relativa al biennio al 20% per il biennio seguente, 2014/2015, ed al 50% per il 2016);

come in occasione dell'intervento precedente - ed a differenza del blocco per il 2008, motivato per specifiche finalità solidaristiche interne al sistema previdenziale - difetta dell'indicazione di puntuali ragioni giustificative, risultando, anche in questo caso, il diritto dei pensionati sacrificato in nome di obiettivi generici, quali il «rispetto del principio dell'equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica» e la «salvaguardia della solidarietà intergenerazionale», ossia enunciazioni che - come efficacemente evidenziato dall'ordinanza di rimessione del Tribunale di Genova del 9 agosto 2016 - hanno riguardo a finalità già insite di per sé (ex articoli 81 e 38 Cost.) in ogni iniziativa legislativa adottata nella materia pensionistica.

Deve inoltre prendersi atto di come l'intervento in esame rientri in un disegno complessivo - quale quello stigmatizzato da Corte cost. n. 316/2010 - di frequente reiterazione di misure intese a paralizzare il meccanismo perequativo, tali da esporre il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità, «perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d'acquisto della moneta».

Risulta pertanto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dai ricorrenti, con riferimento al rispetto dei principi di proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e di adeguatezza del trattamento medesimo (art. 38, secondo comma, Cost.), quest'ultimo da intendersi anche quale espressione del principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. ed al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all'art. 3, secondo comma, Cost.

Parimenti, non emerge l'infondatezza prima facie dell'eccezione di illegittimità costituzionale della disciplina in esame sotto il profilo della violazione dell'art. 136 Cost.

Nel chiarire la portata dell'art. 136, comma 1, Cost., la Corte, con sentenza n. 223 del 1983, ha richiamato alcuni propri risalenti precedenti, quali la sentenza n. 73 del 1963, in cui si è precisato che il rigore del citato precetto costituzionale impone al legislatore di «accettare la immediata cessazione dell'efficacia giuridica della norma illegittima», anziché «prolungarne la vita» sino all'entrata in vigore di una nuova disciplina del settore; nel medesimo senso, ha ricordato la sentenza n. 88 del 1966, là dove la Corte ha riaffermato che le decisioni di accoglimento hanno per destinatario il legislatore stesso, al quale è quindi precluso non solo il disporre che la norma dichiarata incostituzionale conservi la propria efficacia, bensì il perseguire e raggiungere, «anche se indirettamente», esiti corrispondenti a quelli già ritenuti lesivi della Costituzione.

Recentemente, la Corte è tornata a stigmatizzare le disposizioni con cui il legislatore, statale o regionale, interviene per mitigare gli effetti di una pronuncia di illegittimità costituzionale, per conservare o ripristinare, in tutto o in parte, gli effetti della norma dichiarata illegittima (v., ad es., sentenza n. 169 del 2015 e, da ultimo, sentenza n. 224 del 20 ottobre 2016).

Nella specie, il legislatore del decreto legge n. 65/2015 ha introdotto, con riferimento alle pensioni di importo superiore a sei volte il minimo, un blocco totale della perequazione identico a quello che, per il medesimo periodo temporale, era già stato introdotto nel 2011 per il tramite della disposizione dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza n. 70 del 2015. E' evidente quindi la violazione del giudicato costituzionale.

Violazione che, nondimeno, può ravvisarsi anche con riferimento a quelle ipotesi intermedie (pensioni di valore compreso tra tre e sei volte il minimo) in cui il legislatore, a parziale modifica della precedente disciplina dichiarata incostituzionale, ha introdotto un blocco parziale, variabile dal 60 al 90%, della perequazione che sarebbe spettata in applicazione della disciplina generale: anche in dette ipotesi, infatti, il blocco della perequazione, seppure limitato nel quantum, sconta gli stessi vizi già ravvisati nella sentenza del 2015, ossia la durata biennale della sospensione, l'incisione su trattamenti pensionistici di importo non elevato e l'omessa individuazione specifica delle esigenze finanziarie presupposte e dei motivi della loro prevalenza sui diritti oggetto di bilanciamento.

Va invece ritenuta manifestamente infondata la prospettata questione di legittimità costituzionale con riferimento ai parametri di cui al combinato disposto degli articoli 3, 23 e 53 Cost., sui quali la Corte, con la più volte menzionata sentenza n. 70 del 2015, ha già avuto modo di osservare che l'azzeramento della perequazione automatica oggetto di censura sfugge ai canoni della prestazione patrimoniale di natura tributaria, atteso che esso non dà luogo ad una prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinato a reperire risorse per l'erario.

Quanto alla rilevanza della questione di legittimità costituzionale, è sufficiente rilevare che le disposizioni di cui all'art. 1, decreto-legge n. 65/2015, convertito in legge n. 109/2015, hanno variamente inciso sul diritto, azionato dagli odierni ricorrenti, ad ottenere la perequazione integrale dei propri trattamenti pensionistici, pacifico essendo che P. e S. godono di una pensione di valore compreso tra tre e quattro volte il trattamento minimo [ipotesi contemplata dall'art. 24, decreto-legge n. 201/2011, comma 25, lettera b), con riconoscimento del 40% della rivalutazione], B. tra quattro e cinque volte il trattamento minimo [ipotesi di cui alla lett. d) del medesimo comma 25, con riconoscimento della rivalutazione nella misura del 20%], mentre M. e V., godendo di un trattamento di importo superiore a sei volte il minimo, non si sono visti riconoscere alcuna rivalutazione, come previsto dal comma 25 cit., lett. e).

 

P.Q.M.

 

Il giudice monocratico, in funzione di giudice del lavoro:

1) Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 24, comma 25, decreto-legge n. 201/2011, convertito nella legge n. 214/2011, nel testo sostituito dall'art. 1, decreto-legge n. 65/2015, convertito in legge n. 109/2015), nella parte in cui prevede che «La rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012 e 2013, è riconosciuta: [...] b) nella misura del 40 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo INPS con riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a quattro volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; [ ...]

d) nella misura del 10 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS con riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a sei volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; e) non è riconosciuta per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS con riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi», per violazione degli articoli 3, 36 comma 1, 38 comma 2 e 136 Cost.;

2) Sospende il presente giudizio e dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;

3) Dispone che la presente ordinanza sia trasmessa al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle Camere del Parlamento;

4) Manda la Cancelleria per gli adempimenti di competenza.

 

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Provvedimento pubblicato nella G.U. del 02 novembre 2016, n. 9