Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 09 maggio 2018, n. 20421

Accertamento - Reati fiscali - Emissioni di fatture inesistenti - Violazioni - Sanzioni penali

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 15/05/2017, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Milano in data 9.2.2015 - che aveva dichiarato S.G., nella qualità di legale rappresentante della G. spa, responsabile del reato di cui agli artt. 81 cpv cod.pen. e 2 d.lgs n. 74/2000 relativamente alle annualità fiscali 2006, 2007 e 2008 e lo aveva condannato alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione - dichiarava non doversi procedere per le condotte riferite alle annualità fiscali 2006 e 2007 per essere i reati estinti per prescrizione e riduceva la pena in relazione alla residua violazione (anno fiscale 2008) in mesi otto di reclusione.

La Corte territoriale confermava l'affermazione di responsabilità per l'annualità 2008 rimarcando che: le risultanze istruttorie evidenziavano che le fatture oggetto di imputazione (quattro emesse dalla società inglese M. per la progettazione dell'aspirapolvere A. e dei suoi componenti - progettazione in realtà eseguita da tecnici della G. - ed una dalla società inglese I. per la realizzazione di un video pubblicitario destinato alla televisione e mai utilizzato dalla G.) erano relative ad operazioni inesistenti; era rimasto accertato che le somme portate in fattura erano transitate dai conti della G. spa a quelli delle società M. e I. per poi ritornare, grazie all'intermediazione di società fiduciarie, su conti correnti aperti presso una banca svizzera e facenti capo all'imputato ed al fratello di questi; la contabilizzazione delle fatture ed il successivo inserimento nella denuncia ai fini delle imposte dirette e dell'Iva aveva consentito alla G. di abbattere la base imponibile con la conseguente evasione di imposte.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione S.G., a mezzo del difensore di fiducia, articolando tre motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

Con il primo motivo deduce erronea applicazione dell'art. 2 del d.lgs n. 74/2000 e correlato vizio di motivazione.

Espone che, nell'affermare la penale responsabilità dell'imputato, la Corte territoriale aveva ritenuto inesistenti le fatture indicate nel capo di imputazione, emesse dalla M. Handels Ltd e dalla I., riproponendo acriticamente le argomentazioni del primo giudice ed omettendo di valutare le emergenze dibattimentali, travisandole; riporta, quindi, stralci di dichiarazioni testimoniali contestando la valutazione operata dai Giudici di merito deducendo anche che la decisione si sarebbe fondata su documentazione acquisita in altro procedimento penale, in assenza di rogatoria e, pertanto, inutilizzabile; lamenta, poi, che la decisione di condanna sarebbe stata resa in violazione della regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio, non emergendo alcuna certezza in ordine alla responsabilità del ricorrente e, profilandosi, pertanto, anche una violazione dell'art. 2 del d.lgs 74/2000 risultando indimostrata l'inesistenza delle operazioni sottese alle fatture utilizzate nelle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o all'imposta sul valore aggiunto.

Con il secondo motivo deduce violazione degli artt. 729, comma 1, 696 comma 1 e 143 bis cod.pen., censurando la decisione impugnata nella parte in cui aveva disatteso l'eccezione di inutilizzabilità della seguente documentazione: a) quella proveniente dalla Autorità elvetica, in quanto acquisita dal Pm in altro procedimento a carico dell'imputato, con violazione del diritto al contraddittorio nella formazione della prova, di cui all'art. 111 Cost. al quale è correlato il diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost; b) quella trasmessa dalla Polizia Giudiziaria Britannica alla Guardia di Finanza di Saranno, acquisiti ex art. 234 cod.proc.pen., in assenza di rogatoria e in traduzione informale e non "giurata" in violazione dell'art. 143 bis cod.proc.pen. e delle predette norme costituzionali.

Con il terzo motivo deduce erronea applicazione dell'art. 649 cod.proc.pen. e violazione del principio del ne bis in idem di cui all'art. 4 del protocollo n. 7 della CEDU e dell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, come interpretato dalla Corte EDU e dalla giurisprudenza costituzionale, in quanto i fatti contestati nel presente procedimento erano già stati oggetto di intervento punitivo in sede amministrativa.

Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.

 

Considerato in diritto

 

1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.

Il ricorrente, attraverso una formale denuncia di violazione di legge e vizio di motivazione, richiede sostanzialmente una rivisitazione, non consentita in questa sede, delle risultanze processuali.

Nel motivo in esame, in sostanza, si espongono censure le quali si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità, ricostruzione e valutazione, quindi, precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Sez. 1, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, rv. 235507; sez. 6, 3.10.2006, n. 36546, Bruzzese, Rv. 235510; Sez. 3, 27.9.2006, n. 37006, Piras, rv. 235508).

Va ribadito, a tale proposito, che, anche a seguito delle modifiche dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. introdotte dalla L. n. 46 del 2006, art. 8 non è consentito dedurre il "travisamento del fatto", stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez. 6, n. 27429 del 04/07/2006, Rv.234559; Sez. 5, n. 39048/2007, Rv. 238215; Sez. 6, n. 25255 del 2012, Rv.253099) ed in particolare di operare la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, (cfr. Sez. 6, 26.4.2006, n. 22256, Rv. 234148).

La Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimità, sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell'assenza, in quest'ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa, tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 4 08/04/2010 n. 15081; Sez. 6 n. 38698 del 26/09/2006, Rv. 234989; Sez. 5, n. 6754 del 07/10/2014, dep. 16/02/2015, Rv. 262722).

Oltre a sollecitare una rivalutazione dei fatti non consentita in sede di legittimità, le censure proposte, peraltro, appaiono anche una inammissibile doglianza fondata su una selezione, parziale ed arbitraria, del compendio probatorio; viceversa, la valutazione delle prove deve rispondere a criteri di completezza, globalità e unitarietà dell'esame, che non può essere, al contrario, atomistico e parcellizzato (ex multis, Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231678; Sez. 1, n. 26455 del 26/03/2013, Knox, Rv. 255677).

2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Il ricorrente ha dedotto l'inutilizzabilità della documentazione trasmessa dalla Polizia Giudiziaria Britannica alla Guardia di Finanza di Saronno senza far ricorso alla procedura della rogatoria internazionale e di quella proveniente dalla Autorità Giudiziaria Elvetica acquisita mediante la procedura della rogatoria internazionale in altro procedimento penale e prodotta in atti dal PM.

Deve, innanzitutto, rilevarsi che la Corte territoriale si è correttamente uniformata alla giurisprudenza prevalente secondo cui la sanzione dell'inutilizzabilità sancita dall'art. 729, comma 1 cod.proc.pen., come modificato dall'art. 13 della legge 5 ottobre 2001, n. 367, è speciale e come tale non è applicabile in via estensiva o analogica al di fuori dello specifico ambito nel quale essa è prevista, cioè quello delle "rogatorie all'estero".

Ne consegue che la suddetta previsione sanzionatoria non è applicabile all'acquisizione di informazioni, emerse all'interno di un procedimento penale all'estero, che spontaneamente ed autonomamente l'Autorità giudiziaria di uno Stato ha offerto all'autorità giudiziaria italiana (Sez. 2, n. 44673 del 12/11/2008, Rv. 242209; Sez.6, n. 9960 del 27/01/2005, Rv. 231048; Sez. 2, n. 20100 del 08/03/2002, Rv. 222026), come avvenuto in relazione della documentazione trasmessa dalla Polizia Giudiziaria Britannica alla Guardia di Finanza di Saronno.

La relativa documentazione deve, pertanto, ritenersi, pienamente utilizzabile, precisato anche che la spontaneità del conferimento nasce dal trasferimento avvenuto con un procedimento che ha seguito normali canali di cooperazione informativa, espressione di naturale collaborazione istituzionale nei settori di specifica competenza tra singole amministrazioni, senza che vi sia alcun limite ufficiale all'utilizzazione della stessa. Una interpretazione corretta dell'art. 729 cod.proc.pen., deve far ritenere inutilizzabili soltanto le prove acquisite o trasmesse dalle Autorità straniere in violazione di specifiche disposizioni internazionali inequivocabilmente dirette ad introdurre modalità inderogabili di acquisizione e di trasmissione. Deve, quindi, ritenersi applicabile la disciplina di cui all'art. 234 cod.proc.pen., in quanto non appare contestabile la natura documentale degli atti, essendo gli stessi ricognitivi di una realtà contabile, e assolutamente rilevanti per ricostruire il complessivo quadro finanziario, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo, delle operazioni effettuate all'interno del contesto in cui si è sviluppato il fatto da accertare.

Non coglie nel segno, infine, la dedotta violazione dell'art. 143 bis cod.proc.pen. Tale norma, infatti, introdotta dal decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212 (recante Attuazione della direttiva 2012/29/Ue e del Consiglio 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/Gai,) prevede il diritto per la persona offesa, che non conosca la lingua italiana, alla nomina di un'interprete e alla traduzione gratuita degli atti o comunque delle informazioni utili all'esercizio dei suoi diritti e non si attaglia, quindi, al caso in esame.

Per quanto riguarda l'eccepita inutilizzabilità della documentazione proveniente dall'Autorità elvetica, va ricordato che il Protocollo alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria, firmato il 16 ottobre 2001 ed entrato in vigore il 5 ottobre 2005, ha abrogato l'art. 50, comma terzo, della Convenzione del 19 giugno 1990 per l'applicazione dell'Accordo di Schengen, con la conseguenza che è venuto meno, per i Paesi aderenti alla suddetta Convenzione, il limite alla utilizzazione degli atti trasmessi nell'ambito di una procedura rogatoriale in procedimenti diversi da quello nel quale sia stata accolta la richiesta, salvo che tale limite sia apposto dal Paese concedente nell'atto di trasmissione (cfr in fattispecie analoghe, Sez. 2, n. 1926 del 13/12/2016, dep.16/01/2017, Rv. 268760; Sez. 5, n. 26885 del 18/05/2016, Rv. 267265.

Nella specie, la documentazione acquisita dall'Autorità elvetica deve, quindi, ritenersi, pienamente utilizzabile, emergendo dagli atti e dalla stessa sentenza impugnata, che la stessa, oggetto di procedura di rogatoria in altro procedimento penale, risulta prodotta in giudizio dal P.M. con formale autorizzazione da parte dell'Autorità rogata.

Il motivo in esame, peraltro, presenta anche un profilo di inammissibilità, in quanto formulato senza prospettare a questa Corte la possibile, ed in ipotesi, decisiva influenza degli elementi asseritamente inutilizzabili sulla complessiva motivazione posta a fondamento della contestata affermazione di responsabilità.

Questa Corte, con orientamento (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 20/02/2017, Rv. 269218; Sez. 6, n. 18764 del 05/02/2014, Rv. 259452; Sez. 4, n. 18764 del 5.2.2014, Rv. 259452; Sez. 3, n. 3207 del 2.10.2014, dep. 2015, Rv. 262011) che il Collegio condivide e ribadisce, ha, infatti, osservato che, nei casi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità o la nullità di una prova dalla quale siano stati desunti elementi a carico, il motivo di ricorso deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", essendo in ogni caso necessario valutare se le residue risultanze, nonostante l’espunzione di quella inutilizzabile, risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento; gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento.

Nel caso in esame, i Giudici di merito hanno fondato l'affermazione di responsabilità su un quadro probatorio ampio ed articolato e le cui risultanze residue (rispetto agli elementi a carico asseritamente inutilizzabili) non vengono esaminate dal ricorrente ai fini della cosiddetta "prova di resistenza.

3. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Va ricordato che la Corte EDU (Grande Camera), con la sentenza del 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, ric. n. 24130/11 e 29758/11, ha affermato che "non viola il ne bis in idem convenzionale la celebrazione di un processo penale, e l'irrogazione della relativa sanzione, nei confronti di chi sia già stato sanzionato in via definitiva dall’amministrazione tributaria con una sovrattassa (nella specie pari al 30% dell’imposta evasa), purché sussista tra i due procedimenti una "connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta". La Corte di Strasburgo ha chiarito che in linea di principio l'art. 4 prot. 7 CEDU non esclude che lo Stato possa legittimamente apprestare un sistema di risposte a condotte socialmente offensive (come l'evasione fiscale) che si articoli - nella cornice di un approccio unitario e coerente - attraverso procedimenti distinti, purché le plurime risposte sanzionatone non comportino un sacrificio eccessivo per l'interessato, con il conseguente onere per la Corte di verificare se la strategia adottata da ogni singolo Stato comporti una violazione del divieto di ne bis in idem, oppure sia, al contrario;il "prodotto di un sistema integrato che permette di affrontare i diversi aspetti dell'illecito in maniera prevedibile e proporzionata, nel quadro di una strategia unitaria" (§ 122). Non sarebbe, infatti, possibile dedurre dall'art. 4 prot. 7 un divieto assoluto per gli Stati di imporre una sanzione amministrativa (ancorché qualificabile come "sostanzialmente penale" ai fini delle garanzie dell'equo processo) per quei fatti di evasione fiscale in cui è possibile, altresì, perseguire e condannare penalmente il soggetto, in relazione a un elemento ulteriore rispetto al mero mancato pagamento del tributo, come una condotta fraudolenta, alla quale non potrebbe dare risposta sanzionatoria adeguata la mera procedura "amministrativa" (§ 123). Nella prospettiva di un equilibrato bilanciamento tra gli interessi del singolo e quelli collettivi, la Corte ha dunque valorizzato il criterio della "sufficiently dose connection in substance and time" ricavato da parte della propria precedente giurisprudenza (§ 125). Ad avviso della Corte EDU il modo più sicuro per assicurare il rispetto dell'art. 4 prot. 7 sarebbe la previsione di un meccanismo in grado di unificare, in qualche stadio della procedura, i due procedimenti sanzionatori, in modo tale da garantire l'irrogazione delle differenti sanzioni da parte di un'unica autorità e nell'ambito di un unico processo, ma la disposizione convenzionale non esclude Io svolgimento parallelo di due procedimenti, purché essi appaiano connessi dal punto di vista sostanziale e cronologico in maniera sufficientemente stretta, e purché esistano meccanismi in grado di assicurare risposte sanzionatone nel loro complesso proporzionate e, comunque, prevedibili (§ 130), verificando gli scopi delle diverse sanzioni e dei profili della condotta considerati, la prevedibilità della duplicità delle sanzioni e dei procedimenti, i correttivi adottati per evitare "per quanto possibile" duplicazioni nella raccolta e nella valutazione della prova e, soprattutto la proporzionalità complessiva della pena (§ 133).

Con la sentenza pronunciata in data 5.4.2017 nelle cause Orsi (C-217/15) e Baldetti (C-350/15), la Corte di Giustizia ha affermato un principio in relazione alla legittimità dell'articolazione normativa del "doppio binario" punitivo in materia tributaria nel nostro ordinamento, rilevante nel caso in esame.

La Corte, evidenziando come nelle vicende oggetto del giudizio a quo il procedimento penale risultasse instaurato contro la persona fisica autrice del reato in quanto rappresentante legale della persona giuridica, mentre contro quest'ultima era già stata irrogata la sanzione amministrativa a seguito del definitivo accertamento della violazione tributaria per omesso versamento dell'Iva, ha escluso in radice la configurabilità di una violazione del principio di ne bis in idem, richiamando la sentenza della Corte europea del 20 maggio 2014, Pirttimaki c. Finlandia, che aveva espressamente escluso la violazione del principio di ne bis idem nel caso di sanzioni indirizzate a persone, fisiche o giuridiche, giuridicamente distinte; ha, quindi, espresso il principio generale secondo cui: "L’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente di avviare procedimenti penali per omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto dopo l'irrogazione di una sanzione tributaria definitiva per i medesimi fatti, qualora tale sanzione sia stata inflitta ad una società dotata di personalità giuridica, mentre detti procedimenti penali sono stati avviati nei confronti di una persona fisica".

Orbene, nel caso di specie, come emerge dalla sentenza impugnata e dal ricorso per cassazione, unici atti del fascicolo accessibili alla Corte di legittimità, la sanzione tributaria sarebbe stata inflitta alla società, dotata di personalità giuridica, di cui S.G. era legale rappresentante (G. spa) mentre il presente procedimento penale riguarda lo stesso S.G., che è, invece, una persona fisica.

Ne consegue che la sanzione tributaria ed il procedimento penale riguardano soggetti giuridici distinti, cosicché deve ritenersi mancante la condizione per l'applicazione del principio del ne bis in idem, onde la relativa censura è manifestamente infondata (Cfr in fattispecie analoghe, Sez. 3, n. 24309 del 19/01/2017, Rv.270515; Sez. 3, n. 35156 del 01/03/2017, Rv. 270913).

4. Alla manifesta infondatezza dei motivi proposti consegue la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

5. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2,000,00 in favore della Cassa delle Ammende.