Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 03 agosto 2017, n. 19436

Accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro - Prova - Indici presuntivi della subordinazione - Rapporto di lavoro di natura associativa

 

Svolgimento del processo

 

La Corte di Appello di Roma con sentenza n. 342 del 17 gennaio - otto febbraio 2011 confermava l'impugnata pronuncia di primo grado, che aveva rigettato la domanda di F.D., volta ad accertare la natura subordinata del rapporto di lavoro intrattenuto con la s.n.c. L.S. di C.C. & C., dal marzo 1990 al 6 luglio del 2005, con conseguente condanna di parte convenuta al pagamento delle relative differenze retributive, oltre che del t.f.r. spettante. Secondo la Corte capitolina, in base ad acquisite risultanze testimoniali, non emergeva la prova della subordinazione ex articolo 2094 e ss. del codice civile.

Avverso l'anzidetta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la F. con due motivi, cui ha resistito con controricorso, in seguito illustrato da memoria art. 378 c.p.c., la già convenuta appellata società in nome collettivo.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo l'impugnata sentenza è stata censurata per omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell'articolo 360 n. 5 c.p.c. Il giudice di secondo grado aveva motivato il rigetto del gravame in maniera palesemente contraddittoria, laddove nell'indicare pedissequamente gli indici presuntivi della subordinazione stabiliti della giurisprudenza di legittimità in materia non li aveva però ricondotti alle circostanze istruttorie e documentali emerse nel giudizio di merito, concludendo per l'insussistenza degli stessi nel rapporto de quo.

Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell'articolo 2697 c.c., nonché dell'articolo 416 c.p.c., con riferimento all'articolo 2094 del codice civile, in tema di onere della prova.

Nella specie la convenuta si era solo limitata a dedurre che il rapporto di lavoro intercorso con la ricorrente era meramente di natura associativa - partecipativa, ma senza fornire alcuna prova specifica al riguardo, tenuto altresì conto di quanto previsto dall'articolo 86 n. 2 del decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 277 in ordine a rapporti di associazione in partecipazione resi, senza alcuna effettiva partecipazione e adeguate erogazioni a chi lavora, per cui i lavoratori in tal caso hanno diritto ai trattamenti contributivi economici normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato.

Nel caso in esame il rapporto in questione non era in alcun modo riconducibile al lavoro in compartecipazione, in quanto né la convenuta aveva dato prova dell'esistenza degli elementi costitutivi e caratterizzanti tale contratto, quale in primis la partecipazione a rischio d'impresa con accredito degli utili e l'addebito delle perdite dell'associazione; né erano ravvisabili gli elementi del lavoro autonomo ex art. 2222 c.c., non essendo presenti gli elementi della gestione autonoma del lavoro con propri mezzi e di assunzione del rischio.

Nessuna indagine conoscitiva e istruttoria era stata svolta per la diversa natura del rapporto dedotta dalla convenuta, che aveva sempre riferito di divisione di utili.

Quindi, non era stato in alcun modo provato quanto asserito da parte resistente, la quale aveva dichiarato più volte nella memoria che trattavasi di un rapporto di collaborazione, seppure di natura autonoma. Risultava così viziata la sentenza per violazione dell'articolo 2697 c.c., mentre era provata la riconducibilità dello stesso rapporto alla disciplina contemplata dall'articolo 2094 c.c., il cui dettato era stato completamente disatteso. Inoltre, operava nella specie il principio di non contestazione di cui al terzo comma dell'articolo 416 c.p.c., richiamando sul punto quanto affermato tra l'altro dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 761 del 23 gennaio 2002.

Entrambi i motivi vanno disattesi in forza delle seguenti considerazioni.

Ed invero, quanto al primo va ricordato il principio (cfr. tra le altre Cass. lav. n. 6288 del 18/03/2011 e n. 27162 del 23/12/2009), secondo cui il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. (peraltro secondo il testo - nella specie ratione temporis qui applicabile con riferimento alla sentenza de qua, risalente al 17 gennaio / 8 febbraio 2011 - anteriore alla più restrittiva formulazione introdotta dal art. 54, co. 1, lett. b), d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in I. 7 agosto 2012, n. 134) sussiste soltanto se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr. inoltre Cass. lav. n. 23455 del 05/11/2009: ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, è censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto, come tale incensurabile in detta sede, se sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice del merito ad includere il rapporto controverso nell'uno o nell'altro schema contrattuale. In senso conforme v. anche Cass. civ. Sez. 6 - L, ordinanza n. 9808 del 4/5/2011, principio affermato ai sensi dell'art. 360 bis cod. proc. civ.).

Nel caso esaminato dalla sentenza qui impugnata non è riscontrabile il suddetto vizio, avendo la Corte capitolina motivatamente dato conto delle acquisite risultanze testimoniali e delle allegazioni di parte, concludendo nel senso che non poteva affermarsi che l'appellante fosse tenuta all'osservanza di un orario di lavoro e a giustificare le proprie assenze, laddove d'altro canto la presenza, anche continuativa, della ricorrente presso il centro estetico gestito dalla società convenuta non era incompatibile con lo svolgimento, da parte della F., di un'attività lavorativa autonoma. Inoltre, risultava evidente, secondo le testimonianze all'uopo citate, che l'appellante non aveva e non poteva un rapporto di lavoro subordinato con la società appellata, perché aveva una sua "lavorante", eseguiva trattamenti estetici in proprio anche a domicilio ed organizzava il lavoro secondo le proprie esigenze. Per di più, l'attrice non aveva comprovato di aver percepito una retribuzione mensile, come invece allegato con il ricorso introduttivo del giudizio. Anzi, alcuna delle testimoni era stata in grado di riferire se l'appellante avesse mai ricevuto una retribuzione e come venisse pagata dalle socie di parte appellata. In sostanza, dalle dichiarazioni testimoniali non si evidenziava alcuno degli elementi caratterizzanti la subordinazione.

È, inoltre, infondato il secondo motivo di ricorso, poiché in caso di domanda diretta ad accertare la natura subordinata del rapporto di lavoro, qualora la parte che ne deduce l'esistenza non abbia dimostrato la sussistenza del requisito della subordinazione - ossia della soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che discende dall'emanazione di ordini specifici oltre che dall'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e controllo sull'esecuzione della prestazione lavorativa - non occorre, ai fini del rigetto della domanda, che sia provata anche l'esistenza del diverso rapporto dedotto dalla controparte, dovendosi escludere che il mancato accertamento di quest'ultimo equivalga alla dimostrazione dell'esistenza della subordinazione, per la cui configurabilità è necessaria la prova positiva di specifici elementi che non possono ritenersi sussistenti per effetto della carenza di prova su una diversa tipologia di rapporto (in tal sensi v. pure Cass. lav. n. 2728 del 17/11/2009 - 08/02/2010, con riferimento nella specie ivi esaminata al diverso ma controverso rapporto di associazione in partecipazione.

Cfr. altresì Cass. lav. n. 21028 del 28/09/2006, secondo cui l'elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al rapporto di lavoro autonomo, è l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia ed inserimento nell'organizzazione aziendale; sicché qualora vi sia una situazione oggettiva di incertezza probatoria, il giudice deve ritenere che l'onere della prova a carico dell'attore non sia stato assolto e non già propendere per la natura subordinata del rapporto).

Peraltro, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, condiviso da questo collegio, (cfr. Cass. IlI civ. n. 4249 del 16/03/2012), se il giudice ha ritenuto "contestato" uno specifico fatto e, in assenza di ogni tempestiva deduzione al riguardo, abbia proceduto all'ammissione ed al conseguente espletamento di un mezzo istruttorio in ordine all'accertamento del fatto stesso, la successiva allegazione di parte, diretta a far valere l'altrui asserita pregressa "non contestazione", diventa inammissibile (v. altresì Cass. III civ. n. 13830 del 23/07/2004, secondo cui nel vigente ordinamento processuale i fatti allegati da una delle parti vanno considerati "pacifici" - e quindi possono essere posti a fondamento della decisione - quando siano stati esplicitamente ammessi dalla controparte oppure quando questa pur non avendoli espressamente contestati abbia tuttavia assunto una posizione difensiva assolutamente incompatibile con la loro negazione, così implicitamente ammettendone l'esistenza. Conforme tra le altre Cass. n. 5488 del 14/03/2006 e n. 12119 del 23/05/2006.

Cfr. ancora Cass. lav. n. 10098 del 2/5/2007: la non contestazione della domanda, che ha per oggetto i fatti costitutivi della domanda e non quelli dedotti in esclusiva funzione probatoria, scaturisce dalla non negazione fondata sulla volontà della parte oggettivamente risultante e deve essere pertanto inequivocabile, di talché non può ravvisarsi né in caso di contumacia del convenuto, né in ipotesi di contestazione meramente generica e formale. Peraltro, la non contestazione del fatto, che è tendenzialmente irreversibile, non determina di per sé la decisione della controversia, dovendo il giudice di merito valutare se il fatto non contestato sia inquadrabile nell'astratto parametro normativo e, prima ancora, stabilire la sussistenza o l'insussistenza di una non contestazione. A tal fine ove il giudice, anche tacitamente, abbia manifestato la propria interpretazione in senso contrario alla non contestazione e, in assenza di ogni deduzione sulla stessa, abbia proceduto all'espletamento incontestato di un mezzo istruttorio in ordine all'accertamento del fatto, la successiva deduzione di parte in ordine all'altrui pregressa contestazione diventa inammissibile.

V. altresì Cass. lav. n. 24885 del 21/11/2014, laddove è stato anche puntualizzato come la previsione dell’obbligo di parte convenuta di formulare nella memoria difensiva, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito, nonché di prendere posizione precisa in ordine alla domanda e di indicare le prove di cui intende avvalersi, non esclude il potere - dovere del giudice di accertare se la parte attrice abbia dato dimostrazione probatoria dei fatti costitutivi e giustificativi della pretesa fatta valere, indipendentemente dalla circostanza che, in ordine ai medesimi, siano o meno state proposte, dalla parte legittimata a contraddire, contestazioni specifiche, difese ed eccezioni in senso lato.

V. inoltre, da ultimo, nelle more della pubblicazione di questa pronuncia, Cass. lav. n. 8708 / del 4/4/2017, secondo cui la non contestazione dei fatti non costituisce prova legale, bensì un mero elemento di prova, sicché il giudice di appello, ove nuovamente investito dell'accertamento dei medesimi con specifico motivo di impugnazione, è chiamato a compiere una valutazione discrezionale di tutto il materiale probatorio ritualmente acquisito, senza essere vincolato alla condotta processuale osservata dal convenuto nel primo grado del giudizio.

D'altro canto - v. Cass. IlI civ. n. 20637 del 13/10/2016 - in virtù del principio di autosufficienza, il ricorso per cassazione con cui si deduca l'erronea applicazione del principio di non contestazione non può prescindere dalla trascrizione degli atti sulla cui base il giudice di merito ha ritenuto integrata la non contestazione che il ricorrente pretende di negare, atteso che l'onere di specifica contestazione, ad opera della parte costituita, presuppone, a monte, un'allegazione altrettanto puntuale a carico della parte onerata della prova. Analogamente, secondo Cass. IlI civ. n. 3023 del 17/02/2016, il principio di non contestazione, con conseguente "relevatio" dell'avversario dall'onere probatorio, postula che la parte che lo invoca abbia per prima ottemperato all'onere processuale a suo carico di compiere una puntuale allegazione dei fatti di causa, in merito ai quali l'altra parte è tenuta a prendere posizione, mentre diversamente opinandosi si ribalterebbe sulla parte convenuta l'onere di allegare il fatto costitutivo dell'avversa pretesa.

Senza dire, poi, come precisato da Cass. I civ. n. 15961 del 18/07/2007, che, ove con il ricorso per cassazione si ascriva al giudice di merito di non avere tenuto conto di una circostanza di fatto che si assume essere stata "pacifica" tra le parti, il principio di autosufficienza del ricorso impone al ricorrente di indicare in quale atto sia stata allegata la suddetta circostanza, ed in quale sede e modo essa sia stata provata o ritenuta pacifica. Conforme Cass. n. 6972 del 2005).

Dunque, il ricorso va respinto, con conseguente condanna della parte rimasta soccombente al rimborso delle relative spese.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida, a favore di parte controricorrente, in euro 4000,00 per compensi professionali ed in euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.