Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 27 aprile 2017, n. 10436

Licenziamento disciplinare - Sottrazione di beni aziendali - Sanzione sproporzionata

 

Fatti di causa

 

Con sentenza del 3 aprile 2014, la Corte d'Appello di Napoli, in riforma della decisione resa dal Tribunale di Avellino, accoglieva la domanda proposta da E.L. nei confronti della D.T.S. S.p.A, avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare irrogatogli per sottrazione di beni aziendali pronunziando l'ordine di reintegrazione e la condanna della Società al risarcimento del danno commisurato alle mensilità maturate dalla data del licenziamento.

La decisione della Corte territoriale discende dall'aver questa ritenuto, pur a fronte della veridicità del fatto storico del possesso delle cinque paia di guanti nuovi di quelli in uso presso il suo reparto, inconfigurabile nella specie l'ipotesi addebitata della sottrazione o comunque l'intenzionalità della condotta, risultandone sproporzionata la sanzione espulsiva irrogata.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la Società, affidando l'impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, il L.

 

Ragioni della decisione

 

Con il primo motivo, la Società ricorrente, nel denunciare il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, imputa alla Corte l'omessa considerazione, ai fini della formazione del proprio convincimento, delle dichiarazioni e del comportamento tenuto dal lavoratore all'atto del controllo a campione subito nonché sulle modalità attraverso le quali il lavoratore nel corso della giornata si era procurato guanti in misura palesemente eccedente le proprie necessità ed il posizionamento degli stessi nella borsa con cui li recava fuori dello stabilimento.

Il secondo motivo è inteso a denunciare, anche sotto il profilo della nullità della sentenza, la violazione dell'obbligo di motivazione della stessa di cui agli artt. 132, comma 2, c.p.c., 118, Disp. Att. c.p.c. e 111 Cost., che si assume essere meramente apparente, in particolare, relativamente al giudizio in ordine alla carenza di intenzionalità della sottrazione di beni dell'azienda.

I due motivi, che, in quanto strettamente connessi, possono qui essere trattati congiuntamente, devono ritenersi inammissibili.

In effetti, da un lato, il vizio di omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, denunciato con il primo motivo, oltre ad essere formalmente dedotto in termini non conformi al disposto dell'art. 360, n. 5, c.p.c., nuovo testo, nell'interpretazione di questo accolta da questa Corte (cfr. Cass. 22.9.2014, n. 19881), non sembra ravvisabile in termini sostanziali, trovandoci qui di fronte ad una mera rilettura da parte della Società ricorrente di atti processuali e dichiarazioni testimoniali già tenuti presenti dalla Corte territoriale - che, non a caso, si pronunzia su entrambi gli aspetti fattuali oggetto della rivisitazione operata dalla Società ricorrente, la reazione del lavoratore all'atto del controllo e le regole di distribuzione dei guanti - rilettura finalizzata a valorizzarne i contenuti suscettibili di porsi in contrappunto alla valutazione datane dalla Corte territoriale intorno al nodo cruciale della riconducibilità della condotta del lavoratore all'intento dell'appropriazione e del trafugamento di materiale aziendale; dall'altro il convincimento sul punto maturato in termini negativi dalla Corte territoriale risulta sorretto da una motivazione che, muovendo dalla considerazione dell'atteggiamento del lavoratore all'atto del controllo, valutato come idoneo a riflettere la plausibilità del rinvenimento nello zaino di più paia di guanti, plausibilità avvalorata dall'impossibilità della Società di dar conto delle consegne effettuate ai lavoratori e approdando, a questa stregua, alla conclusione del mancato raggiungimento della prova certa dell'intento predatorio ed alla negazione, pertanto, della riferibilità della condotta alla norma collettiva invocata e della proporzionalità della sanzione irrogata, non può ritenersi illogica, perplessa ed, in ultima analisi, apparente e, quindi, nulla, così da legittimare la cassazione della sentenza impugnata.

Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.