Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 07 febbraio 2018, n. 2912

Tributi - Accertamento - Riscossione - Fatture - Operazioni inesistenti

 

Rilevato in fatto

 

1. R. G. ricorre con quattro mezzi, nei confronti dell'Agenzia delle entrate (che resiste con controricorso), avverso la sentenza in epigrafe con la quale la C.T.R. della Lombardia, sezione staccata di Brescia, ne ha rigettato l'appello, ritenendo legittimo l'avviso di accertamento notificatogli per il recupero a tassazione, a fini Irpef, Iva, Irap e CSSN per l'anno 2002, di costi portati da fatture emesse da tre società che, sulla base degli esiti di verifica fiscale, erano ritenute false e relative ad operazioni inesistenti.

I giudici d'appello hanno infatti considerato «accertato in atti che le società, risultanti aver emesso fattura, in realtà non hanno mai avuto rapporti commerciali con il ricorrente»; che «le fatture non erano dalle stesse mai state emesse», ciò ricavandosi anche dal fatto che, pur provenendo da soggetti diversi, «avevano tutte le stesse caratteristiche tipografiche»; che «una delle società aveva partita Iva di altra società operante non nel comune indicato (Castiglione Torinese), ma in Sardegna, e per di più indicante un indirizzo inesistente».

Se ne doveva dedurre, secondo i predetti giudici, «che le spese e la relativa Iva riportate nelle fatture non fossero state effettivamente versate alle ditte suddette, con la ovvia inesistenza soggettiva della fattura», a nulla potendo di contro valere la correttezza formale della contabilità.

 

Considerato in diritto

 

1. Con il primo motivo di ricorso il contribuente lamenta, ai sensi dell'art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ., omessa pronuncia sul motivo d'appello con il quale egli aveva riproposto l'eccezione di illegittimità dell'atto impositivo per violazione dell'art. 75, comma 4, t.u.i.r., (eccezione basata sull'assunto che il costo dei beni era stato imputato al conto dei profitti e delle perdite, come pure accertato dall'Ufficio, in ottemperanza della citata disposizione di legge, e che le spese risultavano «pacificamente da elementi certi e precisi»). Formula il seguente quesito di diritto: «vero che incorre nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ex art. 112 cod. proc. civ., il giudice d'appello che non esamini e non decida la questione attinente alla violazione dell'art. 75, comma 4, t.u.i.r. per la mancata deduzione dei costi sostenuti e risultanti dalle scritture contabili, tempestivamente dedotta quale censura in grado d'appello?».

2. Con il secondo motivo il ricorrente formula analoga censura per avere la C.T.R. omesso di pronunciare sulla iterata eccezione di illegittimità delle sanzioni applicate per carenza dei presupposti di carattere soggettivo, formulando in conclusione il seguente quesito: «vero che incorre nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 cod. proc. civ. il giudice d'appello che non esamini e non decida la questione attinente alla illegittimità delle sanzioni irrogate, per violazione dell'art. 5 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, tempestivamente dedotta quale censura in grado d'appello?».

3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia poi violazione e falsa applicazione dell'art. 19 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in relazione all'art. 17 della Sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977 n. 77/388/CEE e agli artt. 2697 - 2727 e 2729 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. respinto il motivo d'appello che investiva il merito delle contestazioni affermando che gli elementi di fatto emergenti dell'accertamento consentivano la ovvia deduzione che «le spese e la relativa Iva riportate nelle fatture non fossero state effettivamente versate alle ditte suddette, con ovvia inesistenza soggettiva della fattura», con ciò però violando le norme richiamate che, onde potere in tal caso disconoscere la detraibilità dell'Iva risultante dalle fatture, richiedono la verifica della partecipazione del ricorrente all'illecito contestato.

Al riguardo il ricorrente formula il seguente quesito di diritto: «dica l'Ecc.ma Corte se incorre nella violazione dell'art. 19 d.P.R. n. 633 del 1972 la C.T.R. che ritenga indetraibile l'imposta risultante da fatture ritenute soggettivamente inesistenti, senza che sussista agli atti la prova della inesistenza dell'operazione e che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare, con il proprio acquisto, ad un'operazione che si iscriveva in una frode all'imposta sul valore aggiunto?».

4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia infine motivazione insufficiente su un fatto decisivo della controversia per avere la C.T.R. ritenuto sussistente una «ovvia inesistenza soggettiva della fattura» con ciò adottando una motivazione insufficiente a giustificare la ritenuta indetraibilità dell'Iva atteso che, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, la C.T.R. avrebbe dovuto verificare se il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare ad un'operazione fraudolenta.

5. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato, senza dire della dubbia idoneità del quesito di diritto (ai limiti di un interrogativo generico e circolare, che già presuppone la risposta, in assenza di alcun concreto riferimento al contenuto della sentenza impugnata e alle ragioni che ne dovrebbero far emergere la dedotta omessa pronuncia) L'eccezione che secondo il ricorrente non sarebbe stata esaminata dai giudici del gravame costituisce, infatti, tema centrale della pronuncia di merito, espressamente esaminato anche sotto il profilo insistentemente rimarcato dal contribuente, ossia con riferimento alla circostanza che il costo dei beni è stato correttamente imputato al conto dei profitti e delle perdite, giudicata dalla Commissione regionale irrilevante.

6. Con riferimento al secondo motivo — con cui si denuncia omessa pronuncia sul motivo di gravame riguardante la legittimità delle sanzioni irrogate — va osservato che, benché debba in effetti rilevarsi la mancanza in sentenza di uno specifico esame della censura, ad esso può tuttavia procedere questa Corte, trattandosi di questione di mero diritto, nell'esercizio dei poteri di cui all'art. 384 cod. proc. civ..

Alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell'art. 111, comma secondo, Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell'attuale art. 384 cod. proc. civ. ispirata a tali principi, una volta verificata l'omessa pronuncia su una questione di mero diritto, che non richiede ulteriori accertamenti di fatto, la Corte di cassazione può infatti omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la questione nel merito, purché su di essa si sia svolto il contraddittorio, dovendosi ritenere che l’art. 384, comma secondo, cod. proc. civ, come modificato dall'art. 12 legge n. 40 del 2006, attribuisca alla Corte di cassazione una funzione non più soltanto rescindente ma anche rescissoria e che la perdita del grado di merito resti compensata con la realizzazione del principio di speditezza (Cass. n. 23740 del 2013; n. 5139 e 24914 del 2011; n. 8622 del 2012).

Ciò posto, il motivo è infondato, alla luce del principio — consolidato nella giurisprudenza di legittimità — secondo cui in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, ai fini dell'affermazione di responsabilità del contribuente, ai sensi dell'art. 5, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, occorre che l'azione od omissione causativa della violazione sia volontaria, ossia compiuta con coscienza e volontà, e colpevole, ossia compiuta con dolo o negligenza, ma, una volta dimostrata dall'autorità amministrativa la fattispecie tipica, grava sul trasgressore l'onere di prova dell'assenza di colpa, in virtù della presunzione posta dall'art. 3 legge 24 novembre 1981, n. 689, sicché va esclusa la rilevabilità d'ufficio di una presunta carenza dell'elemento soggettivo, sotto il profilo della mancanza assoluta di colpa (Cass. 03/08/2012, n. 14030; v. anche Cass. 14/03/2014, n. 5965; Cass. 17/03/2017, n. 6930).

Nel caso di specie, invero, a fronte dell'accertamento della indebita deduzione di costi per operazioni inesistenti, la contestazione mossa dal contribuente circa l'insussistenza del presupposto soggettivo per l'applicabilità della sanzione conseguente si appalesa meramente assertiva e apodittica, non essendo in alcun modo indicate le ragioni per cui dovrebbe escludersi la rimproverabilità di tale condotta al contribuente persino a titolo di colpa.

7. È invece fondato il terzo motivo.

Va anzitutto rilevato che l'inciso valorizzato dal ricorrente (contenuto al termine del quinto capoverso dell'ultima pagina della sentenza, nel quale si legge testualmente: «a fronte di tali circostanze di fatto, non specificatamente contestate se non con considerazioni astratte di diritto, era addirittura ovvio dedurre che le spese e la relativa Iva riportate nelle fatture non fossero state effettivamente versate alle ditte suddette, con ovvia inesistenza soggettiva della fattura») esprime effettivamente l'accertamento in punto di fatto che si sia nella specie trattato di inesistenza solo soggettiva delle operazioni.

Da tale accertamento — univoco e non obliterabile, ancorché non perspicuamente motivato — occorre muovere in questa sede, in mancanza di alcuna specifica censura che ne contesti il supporto motivazionale, sul piano della sufficienza e coerenza con i dati raccolti.

Ciò premesso, va rammentato che, secondo principio già più volte affermato nella giurisprudenza di questa Corte, cui si intende dare continuità, qualora l'Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l'indebita detrazione di fatture ai fini Iva e di imposte dirette, in quanto relative ad operazioni soggettivamente inesistenti, spetta all'Ufficio fornire la prova che l'operazione commerciale, oggetto della fattura, non è stata posta in essere tra i soggetti indicati nella fattura, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione anche in merito alla conoscenza ovvero alla conoscibilità della fittizietà delle operazioni da parte del cessionario/committente che richiede la detrazione, mentre è onere del contribuente dimostrare — a fronte di tali elementi indiziari — la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili e la sua mancanza di consapevolezza di partecipare ad un'operazione fraudolenta, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili (cfr. Cass. sentt. n. 967/2016; n. 428/2015; n. 28683/2015; n. 12802/2011).

Sul punto la Corte europea ha più volte ribadito che se — tenuto conto di evasioni o irregolarità commesse dall'emittente della fattura o, comunque, a monte dell'operazione dedotta a fondamento del diritto alla detrazione — tale operazione è considerata come non effettivamente realizzata, l'Amministrazione finanziaria deve dimostrare, alla luce di elementi oggettivi ed alla stregua dei principi sull'onere della prova vigenti nello Stato membro, senza, peraltro, esigere dal destinatario della fattura verifiche (circa la qualità di soggetto passivo IVA in capo al fatturante, o la disponibilità dei beni di cui trattasi) alle quali non è tenuto, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta operazione si inseriva nel quadro di un'evasione dell'imposta sul valore aggiunto; circostanza, questa, che — secondo la Corte di Lussemburgo — spetta al giudice del rinvio verificare (Corte giustizia 06/12/2012; 31/01/2013).

Ulteriormente approfondendo tali temi, la Corte di giustizia ha poi precisato che «le disposizioni della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari — Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme — come modificata dalla direttiva 2002/38/CE del Consiglio, del 7 maggio 2002, devono essere interpretate nel senso che esse ostano a una normativa nazionale ... che neghi a un soggetto passivo il diritto di detrarre l'imposta del valore aggiunto dovuta o assolta per beni che gli sono stati ceduti sulla base dei rilievi che la fattura è stata emessa da un soggetto che deve essere considerato, con riferimento ai criteri previsti da tale normativa, un soggetto inesistente e che è impossibile identificare il vero fornitore dei beni, tranne nel caso in cui si dimostri, alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal soggetto passivo verifiche che non gli incombono, che tale soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta cessione si iscriveva in un'evasione dell'imposta sul valore aggiunto, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare» (Corte giustizia 22/10/2015, C-277/14).

Un tale quadro di riferimento e il connesso riparto degli oneri probatori risultano negletti dalla sentenza impugnata (del resto emessa anteriormente al suo consolidarsi nella giurisprudenza eurounitaria e nazionale), basando essa la ritenuta legittimità della ripresa fiscale sul solo dato della inesistenza soggettiva delle operazioni, in assenza di alcun riferimento alla posizione del contribuente e al coefficiente soggettivo che si richiede sia dimostrato, sia pure per presunzioni, perché, rispetto allo stesso, tale dato della soggettiva inesistenza delle operazioni, possa tradursi nella indetraibilità dell'Iva.

8. In accoglimento del motivo in esame la sentenza impugnata va pertanto cassata, con rinvio al giudice a quo, rimanendo conseguentemente assorbito l'esame del quarto motivo.

Al giudice di rinvio va anche demandato il regolamento delle spese relative al presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il terzo motivo di ricorso; rigetta il primo e il secondo; dichiara assorbito il quarto; cassa la sentenza, in relazione al motivo accolto; rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.