Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 12 dicembre 2018, n. 32089

Tributi - Partecipazione in società - Incorporata - Dichiarazione dei redditi

 

Fatti di causa

 

1. La vicenda trae origine dalle intese raggiunte tra la F.A. S.p.a e l'A.R. S.p.a., in esecuzione delle quali quest'ultima il 30 dicembre 1986 conferiva il proprio complesso aziendale per il valore di 134 miliardi alla A.L. S.p.a., appositamente costituita e controllata dalla F.A..

Il 2 gennaio 1987 l'A.R. trasferiva alla F.A. la sua partecipazione in detta società per lo stesso corrispettivo e, per il prezzo di L. 133 miliardi, partecipazioni in altre società, da versarsi in cinque rate annuali a partire dal 1 gennaio 1993, senza alcun aggravio di interessi.

Il 30 aprile 1987 A.R. cedeva il credito verso la F.A., del valore nominale di L. 267 miliardi, alla propria controllante F. s.p.a. per la somma di L. 130 miliardi da corrispondersi in unica soluzione entro il 30 aprile 1987.

Il 19 giugno 1987 la società Banco R. S.p.a acquistava dalla F. le azioni rappresentative dell'intero capitale sociale della A.R. (che nel frattempo aveva assunto la denominazione di "Fin. M. S.p.a"), quindi, in data 8 agosto 1987, deliberava di incorporarla.

La fusione era attuata il 26 novembre 1987.

Nel bilancio di fusione la incorporata Fin.M. evidenziava nell'ambito di una perdita complessiva di L. 229 miliardi, una perdita su crediti di L. 137 miliardi derivante dalla differenza tra il valore del credito a suo tempo ceduto alla F. (L. 267 miliardi) e l'ammontare del prezzo ricevuto (L. 130 miliardi). Tale perdita veniva evidenziata dalla società incorporata nella dichiarazione presentata per l'anno 1987 ai fini IRPEG e portata dalla incorporante in diminuzione dei propri redditi ai sensi del D.L. 18 giugno 1986, n. 277, convertito in legge, con modificazioni, nella L. 8 agosto 1986, n. 487.

2. Con avviso di accertamento notificato il 29 dicembre 1993, l'Ufficio delle Imposte Dirette di Roma rettificava la dichiarazione dei redditi presentata dall'incorporata, riducendo di L. 129.920.312.000 l'ammontare complessivo delle perdite imputabili all'esercizio 1987. La motivazione rimandava al verbale di constatazione redatto il 7 dicembre 1987 dagli Ispettori del SECIT, nel quale era stato posto in evidenza che la somma di L. 137.000.000 indicata in bilancio quale "perdita su crediti" non costituiva, in realtà, una perdita, ma rappresentava l'onere "finanziario" pagato per l'anticipato incasso (attualizzazione) del credito.

Di qui, la conclusione che la somma sopra indicata, non rappresentando una perdita, non poteva essere imputata, per il suo intero ammontare, all'esercizio 1987, ma doveva essere dedotta, anno per anno per l'intero arco temporale dell'anticipazione, sulla base dell'interesse composto del 10% stabilito dalle parti.

3. La Banca di Roma proponeva ricorso che veniva accolto dalla Commissione tributaria Provinciale di Roma la quale - pur riconoscendo che con la cessione si era inteso pervenire al "realizzo immediato", in capo alla cedente, degli investimenti effettuati nell'ambito dell'operazione di trasferimento delle attività dell'A.R. al gruppo F. - affermava che l'operazione aveva avuto esclusivamente finalità traslative ed era quindi priva di una causa finanziaria.

4. La decisione era confermata dalla Commissione tributaria regionale del Lazio, che respingeva l'appello dell'Ufficio, ponendo in evidenza che l'indiscussa volontà di pervenire alla smobilitazione del proprio complesso aziendale, mediante il suo trasferimento ad altra società, portava ad escludere che la cessione dei crediti fosse preordinata alla concessione di un finanziamento in favore della società cedente e che tale conclusione era avvalorata dall'assenza di qualsiasi obbligo restitutorio da parte di quest'ultima.

5. Su ricorso dell'Amministrazione finanziaria la decisione d'appello veniva riformata dalla Corte di Cassazione che - con sentenza n. 13916 del 20 ottobre 2000 - accoglieva il gravame della difesa erariale.

Assumevano i giudici di legittimità che una somma capitale, il cui pagamento viene differito nel tempo, incorpora sempre un interesse "implicito", che è tanto maggiore quanto più lontano è il termine fissato per l'adempimento del debitore.

Appunto per questo i crediti andavano "attualizzati", e cioè valutati per il valore che essi avevano al momento della iscrizione in bilancio, al netto degli interessi (impliciti) destinati a maturare negli esercizi successivi fino al momento della riscossione.

Doveva, quindi, escludersi che il minor importo del prezzo di cessione rispetto al valore nominale del credito ceduto fosse espressivo di una perdita (minusvalenza), deducibile in bilancio quale componente negativa del reddito d'impresa, perché il valore attualizzato del credito era minore del suo valore nominale e quindi il prezzo di cessione era da ritenere indicativo di una perdita solo se fosse risultato inferiore al valore "attualizzato" (cioè calcolato al netto degli interessi "impliciti" non ancora maturati) del credito ceduto. La sentenza della Commissione tributaria regionale, che aveva ritenuto di poter identificare una perdita deducibile nella differenza del prezzo di cessione rispetto al valore nominale del credito ceduto, veniva cassata dalla Corte regolatrice che enunciava il principio di diritto al quale avrebbe dovuto attenersi il giudice di rinvio.

6. La Commissione regionale, in sede di rinvio, confermava la decisione di 1 grado, osservando che nella determinazione del prezzo di acquisto del credito l'acquirente aveva sicuramente tenuto conto della scadenza del credito calcolando gli interessi impliciti (la differenza tra valore nominale del credito ceduto ed il prezzo pagato per l'acquisto), per cui il minor valore rispetto a quello nominale del credito incassato dalla società cedente rimaneva una minusvalenza, cioè una insussistenza patrimoniale in quanto il reale valore del credito era quello attualizzato e non quello nominale da contabilizzare nell'esercizio e come tale concorreva nella determinazione del risultato economico.

7. Ricorreva per la Cassazione della sentenza l'Amministrazione finanziaria, unitamente all'Agenzia delle entrate, denunziando - con unico mezzo - violazione degli artt. 112, 276, 384 c.p.c. nonché degli artt. 260, 1267, 2909 c.p.c., del D.P.R. n. 597 del 1973, art.66, comma 2, art. 61 comma 3, e art. 58, oltre a vizi di omessa, insufficiente e contradditoria motivazione.

Adducevano essenzialmente le Amministrazioni finanziarie che la decisione impugnata contravveniva all'obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi al principio di diritto fissato dalla Cassazione perché in nessun caso, quale fosse la qualificazione da dare al contratto dell'aprile 1987 tra A.R. e F. (contratto finanziario o vendita di crediti), ove il prezzo di cessione fosse risultato pari (o superiore) al valore dei crediti attualizzato al 1987, non si sarebbe mai potuto ravvisare una perdita, configurabile solo se il prezzo di cessione fosse risultato inferiore al valore attualizzato.

Resisteva la controricorrente Banca di R., eccependo l'inammissibilità del ricorso per carenza di interesse e nel merito adducendo che la C.T.R. aveva correttamente applicato il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte.

Con la sentenza n. 11754/2009, la Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso dell'Agenzia delle Entrate, cassava la sentenza impugnata e rinviava nuovamente alla C.T.R. del Lazio, ritenendo che "quale che fosse la qualificazione da dare al contratto con il quale il 10 aprile 1987 A.R. cedeva il credito verso la F.A., del valore nominale di L. 267 miliardi, alla propria controllante F. s.p.a. per la somma di L. 130 miliardi (contratto finanziario o vendita di crediti) mai si sarebbe potuto ravvisare una perdita od un minusvalenza sui creduti ceduti deducibile a sensi del D.P.R. n. 797 del 1973, art. 57 (applicabile ratione temporis) qualora il prezzo di cessione fosse risultato pari (o superiore) al valore attualizzato dei crediti ceduti mentre una perdita era ravvisabile nel caso in cui il prezzo di cessione fosse risultato inferiore al suddetto valore attualizzato".

Secondo la Corte, "il compito demandato ai giudici della Commissione regionale era dunque solo questo, cioè indagare in fatto (prima di trame le dovute conseguenze giuridiche) se il prezzo di cessione era pari superiore od inferiore allo "scarto" da attualizzazione, solo in tal ultima ipotesi essendo da considerare legittima l'iscrizione con deduzione della perdita su crediti da parte della cedente".

8. Con la sentenza n.155/04/2011 la C.T.R. del Lazio, in accoglimento dell'appello dell'Ufficio, riteneva assorbito il motivo di appello relativo alla natura di contratto non finanziario della cessione di credito, posto che la Corte di Cassazione aveva stabilito che la cessione in oggetto, benchè pro soluto, incorporava nel prezzo la detrazione dell'interesse implicito nel valore nominale dei crediti ceduti e che il punto fosse ormai coperto dal giudicato.

La C.T.R. riteneva, inoltre, che dalla documentazione in atti (in particolare dalle condizioni di cessione convenute tra F. ed A.R., nelle quali si legge che i crediti derivanti dalla cessione delle partecipazioni alla F.A. sono stati ceduti pro soluto mediante corrispondenza commerciale alla capogruppo F. al loro valore attualizzato, calcolato applicando il tasso di interesse del 10% per il periodo di tempo intercorrente tra il 30/4/1987 e la scadenza delle singole rate) e dalle ammissioni delle stesse parti era verosimile dedurre che "la differenza tra il valore nominale dei credito e il prezzo della cessione di tali cediti fosse da imputare all'attualizzazione al 1987 del valore nominale medesimo". Tali conclusioni, secondo il giudice del rinvio, trovavano riscontro anche utilizzando il calcolo di attualizzazione elaborato dall'A.F. e non contestato da controparte, "secondo il quale il valore dei crediti ceduti, al netto degli interessi impliciti non ancora maturati al momento della cessione, ammonterebbe a lire 117.249.500.000, che esclude perdite deducibili, posto che il prezzo della cessione del credito (130 MDL) risulta superiore al valore attualizzato dei crediti ceduti (117 MDL)".

9. Avverso tale ultima sentenza, l'U. S.p.A. ricorre con due motivi, denunciando la violazione e falsa applicazione dell'art.1362 c.c. e l'insufficiente motivazione circa un fatto decisivo e controverso (primo motivo), nonché la violazione e falsa applicazione degli artt.56 d.lgs. n.546/92 e 346 c.p.c. e l'insufficiente motivazione circa un fatto decisivo e controverso (secondo motivo).

10. L'amministrazione è rimasta intimata.

11. La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell'art.378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1.1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art.1362 c.c., in relazione all'art.360, comma 1, n.3, c.p.c., e l'insufficiente motivazione circa un fatto decisivo e controverso, ex art. 360, comma 1, n.5, c.p.c..

In particolare, la ricorrente deduce che la C.T.R., nel secondo giudizio di rinvio, avrebbe riqualificato la natura giuridica del negozio di cessione quale contratto di sconto, in evidente contrasto con il principio recato dall'art.1362 c.c., che impone un'interpretazione del contratto conforme al senso letterale delle parole ed alla comune intenzione dei contraenti.

Secondo la ricorrente, una corretta interpretazione del contratto avrebbe portato a qualificarlo quale compravendita di crediti pro soluto e non quale contratto di sconto, con la conseguenza che l'attualizzazione del valore nominale dei crediti doveva considerarsi connaturata al contratto di compravendita , in quanto "il prezzo dovuto dal compratore è in linea di massima diverso, a seconda che il suo pagamento debba essere effettuato alla consegna del bene o in un momento successivo". Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt.56 d.lgs. n.546/92 e 346 c.p.c., in relazione all'art.360, comma 1, n.3, c.p.c., e l'insufficiente motivazione circa un fatto decisivo e controverso, ex art. 360, comma 1, n.5, c.p.c.

La ricorrente si duole del fatto che la C.T.R. abbia ritenuto che sulla questione relativa alla natura giuridica del contratto di cessione si sia formato il giudicato.

1.2. I motivi vanno esaminati insieme, perché connessi, sono infondati e vanno rigettati.

1.3. Invero, ogni questione volta a mettere nuovamente in discussione la natura e la qualificazione giuridica dell'operazione attuata con la cessione dei crediti è preclusa dalla pronuncia n. 11754/2009 della Corte di Cassazione, che, in accoglimento del ricorso dell'Agenzia delle Entrate, ha cassato la sentenza impugnata e rinviato nuovamente alla C.T.R. del Lazio, ritenendo che "quale che fosse la qualificazione da dare al contratto con il quale il 10 aprile 1987 A.R. cedeva il credito verso la F.A., del valore nominale di L. 267 miliardi, alla propria controllante F. s.p.a. per la somma di L. 130 miliardi (contratto finanziario o vendita di crediti) mai si sarebbe potuto ravvisare una perdita od un minusvalenza sui creduti ceduti deducibile a sensi del D.P.R. n. 797 del 1973, art. 57 (applicabile ratione temporis) qualora il prezzo di cessione fosse risultato pari (o superiore) al valore attualizzato dei crediti ceduti mentre una perdita era ravvisabile nel caso in cui il prezzo di cessione fosse risultato inferiore al suddetto valore attualizzato".

Secondo la Corte, "il compito demandato ai giudici della Commissione regionale era dunque solo questo, cioè indagare in fatto (prima di trame le dovute conseguenze giuridiche) se il prezzo di cessione era pari superiore od inferiore allo "scarto" da attualizzazione, solo in tal ultima ipotesi essendo da considerare legittima l'iscrizione con deduzione della perdita su crediti da parte della cedente". "Nell'ipotesi di annullamento con rinvio per violazione di norme di diritto, la pronuncia della Corte di cassazione vincola al principio affermato ed ai relativi presupposti in fatto, sicché il giudice di rinvio deve uniformarsi non solo alla regola giuridica enunciata, ma anche alle premesse logicogiuridiche della decisione adottata, attenendosi agli accertamenti già compresi nell'ambito di tale enunciazione" (Sez. 5 - , Ordinanza n. 19594 del 24/07/2018).

Come chiarito da questa Corte (Cass. sent. n.11535/2017) "soccorre in proposito il principio secondo cui nel giudizio di rinvio è precluso alle parti di ampliare il thema decidendum e di formulare nuove domande ed eccezioni ed al giudice - il quale è investito della controversia esclusivamente entro i limiti segnati dalla sentenza di cassazione ed è vincolato da quest'ultima relativamente alle questioni da essa decisa - non è, pertanto, consentito qualsiasi riesame dei presupposti di applicabilità del principio di diritto enunciato, sulla scorta di fatti o profili non dedotti, né egli può procedere ad una diversa qualificazione giuridica del rapporto controverso ovvero all'esame di ogni altra questione, anche rilevabile d'ufficio, che tenda a porre nel nulla o a limitare gli effetti della sentenza di cassazione in contrasto con il principio della sua intangibilità (Cass., 7 marzo 2011, n. 5381; Cass. Sez. U, 3 luglio 2009, n. 15602)".

Nel caso di specie, la Corte ha espressamente statuito sull'irrilevanza della qualificazione giuridica del contratto attuato tra le parti mediante la cessione di credito, fissando precisamente il compito del giudice di rinvio e limitandolo alla sola indagine della sussistenza delle perdite, ravvisabili unicamente nel caso in cui il prezzo di cessione fosse risultato inferiore al valore attualizzato dei crediti ceduti.

Con la sentenza n.155/04/2011 la C.T.R. del Lazio, attenendosi ai principi fissati dalla Corte ed in accoglimento dell'appello dell'Ufficio, ha correttamente ritenuto assorbito il motivo di appello relativo alla natura di contratto non finanziario della cessione di credito, posto che la Corte di Cassazione aveva stabilito che la cessione in oggetto, benchè pro soluto, incorporava nel prezzo la detrazione dell'interesse implicito nel valore nominale dei crediti ceduti e che il punto fosse ormai coperto dal giudicato. La C.T.R. riteneva, inoltre, che dalle condizioni di cessione convenute tra F. ed A.R. (nelle quali si legge che i crediti derivanti dalla cessione delle partecipazioni alla F.A. sono stati ceduti pro soluto, mediante corrispondenza commerciale alla capogruppo F. al loro valore attualizzato, calcolato applicando il tasso di interesse del 10% per il periodo di tempo intercorrente tra il 30/4/1987 e la scadenza delle singole rate) e dalle ammissioni delle stesse parti era verosimile dedurre che "la differenza tra il valore nominale dei credito e il prezzo della cessione di tali cediti fosse da imputare all'attualizzazione al 1987 del valore nominale medesimo".

Tali conclusioni, secondo il giudice del rinvio, trovavano riscontro nel calcolo di attualizzazione elaborato dall'A.F. e non contestato da controparte, "secondo il quale il valore dei crediti ceduti, al netto degli interessi impliciti non ancora maturati al momento della cessione, ammonterebbe a lire 117.249.500.000"

La C.T.R., quindi, in base alla valutazione degli elementi summenzionati ed attenendosi ai principi ed ai limiti posti dalle precedenti pronunce della Cassazione, ha escluso che sussistessero perdite deducibili, posto che il prezzo della cessione del credito (130 MDL) risultava superiore al valore attualizzato dei crediti ceduti (117 MDL).

Nulla deve disporsi in ordine alle spese nei confronti, poiché l'A.F. è rimasta intimata.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.