Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 09 febbraio 2018, n. 3170

Reddito d'impresa - Dichiarazione annuale - Spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione - Deducibilità

 

Considerato

 

- che va preliminarmente dichiarata l'inammissibilità del ricorso incidentale notificato al Ministero dell'economia e delle finanze, privo di legittimazione passiva e neanche parte del giudizio di merito, nulla dovendosi disporre sulle spese processuali stante la mancata costituzione in giudizio dell'intimato Ministero;

- che con il motivo di ricorso l'Agenzia delle Entrate deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 102 (già art. 67) TUIR (d.P.R. n. 917 del 1986) e 2426, primo comma, n. 5, cod. civ. sostenendo che la CTR, laddove aveva affermato che la disposizione fiscale censurata «prevede la deducibilità fino al limite del 5% del costo complessivo di tutti i beni materiali ammortizzabili [...] per i costi di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione di tali beni, senza indicare possibili esclusioni entro i limiti della percentuale indicata» e che, pertanto, ai fini della deducibilità di tali costi, a nulla rilevava il carattere di eccezionalità degli stessi, tale norma consentendo all'impresa «di patrimonializzare i costi di manutenzione che non ritiene di esercizio, indipendentemente dalla loro natura (siano essi cioè di ordinaria o straordinaria manutenzione), aveva erroneamente ritenuto insindacabile la scelta dell'imprenditore di imputare, o meno, le spese di manutenzione ad incremento del valore dei beni ammortizzabili, con il solo limite quantitativo previsto dal comma 6 del citato art. 102;

- che, invero, tale norma stabilisce, al comma 6 (con formulazione identica al previgente art. 67, comma 7), che «le spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione, che dal bilancio non risultino imputate ad incremento del costo dei beni ai quali si riferiscono, sono deducibili nel limite del 5 per cento del costo complessivo di tutti i beni materiali ammortizzabili quale risulta all'inizio dell'esercizio dal registro dei beni ammortizzabili [...] L'eccedenza è deducibile per quote costanti nei cinque esercizi successivi. Per specifici settori produttivi possono essere stabiliti, con decreto del Ministro delle finanze, diversi criteri e modalità di deduzione [...]»;

- che è principio giurisprudenziale (cfr. Cass. n. 7885 del 2016 e n. 18810 del 2017) quello secondo cui la citata disposizione normativa «consente all'imprenditore di esercitare l'opzione tra la capitalizzazione delle spese incrementative, quale aumento del costo del bene ammortizzabile, ovvero la loro deduzione immediata entro i limiti quantitativi prefissati (deduzione di importo non superiore al 5% del costo complessivo dei beni ammortizzabili; deduzione  dell'eccedenza per quote costanti nei cinque esercizi successivi)», e, pertanto, è corretta in diritto l'affermazione della CTR laddove ha ritenuto interamente detraibili le spese in esame sul presupposto - neanche contestato dall'Agenzia ricorrente - che le stesse rientrassero nel 5% del costo complessivo dei beni ammortizzabili, mentre è errata l'interpretazione adottata dalla ricorrente nel motivo in esame, secondo cui le spese di manutenzione sostenute nella specie dalla società contribuente, in quanto straordinarie e come tali di natura incrementativa del valore dei beni immobili interessati, dovevano obbligatoriamente essere imputate ad aumento dei costi dei beni ammortizzabili e dedotti con il meccanismo previsto dall'art. 102, comma 2, d.P.R. n. 917 del 1986 e dal d.m. 31/12/1988, senza neanche specificare se nel caso in esame risultassero dal bilancio imputate ad incremento del costo dei beni cui si riferiscono;

- che, pertanto, il motivo in esame va rigettato;

- che con la prima censura del primo motivo di ricorso incidentale la controricorrente, con riferimento alla ripresa a tassazione di una maggiore plusvalenza non dichiarata relativa alla vendita di un complesso industriale con relative pertinenze, effettuata a prezzo inferiore di quello risultante da una precedente perizia di stima, deduce la violazione dell'art. 9 TUIR (D.P.R. n. 917 del 1986) sul rilievo che la disposizione censurata non troverebbe applicazione nelle ipotesi di datio in solutum, ovvero di transazioni economiche in cui non sia prevista la corresponsione di un corrispettivo tra soggetti in regime di concorrenza, e comunque la CTR non aveva correttamente applicato i criteri di comparazione;

- che il predetto submotivo è infondato e va rigettato perché in contrasto con la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, cui deve darsi continuità, secondo cui, «in tema di determinazione del reddito d'impresa, per la valutazione a fini fiscali delle varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall'art. 9 del d.P.R. n. 917 del 1986, che non ha soltanto valore contabile, e che impone quale criterio valutativo il riferimento al normale valore di mercato (art. 9, terzo comma, cit.) per i corrispettivi, proventi, spese ed oneri in natura presi in considerazione dal contribuente» (Cass. n. 10802 del 2002, conf. n. 869 del 2009);

- che con la seconda censura del primo mezzo di cassazione viene dedotto il vizio di motivazione della sentenza impugnata sostenendosi che la CTR aveva omesso di considerare una serie di elementi probatori offerti dalla società contribuente (in particolare: «a) che il prezzo corrisposto era in linea con la logica economica di riferimento del periodo avendo la società rifiutato un'offerta precedente ad un valore più basso rispetto al prezzo di cessione; b) il prezzo spuntato doveva tener conto della contrazione delle transazioni per immobili commerciali testimioniata dal rapporto annuale reso dall'Agenzia del territorio; c) le cessioni successive e frazionate dell'immobile non erano comparabili con quello in oggetto atteso che tratta vasi della vendita di un'a re edifica bile e della donazione nei confronti di un ente pubblico; d) il valore che emergeva dalla perizia aveva valenza esclusivamente fiscale, e come tale, non poteva essere posto a raffronto con quello commerciale dell'immobile») diretti a dimostrare la congruità del prezzo di cessione dell'immobile e la conseguente insussistenza della plusvalenza ripresa a tassazione;

- che il motivo in esame è inammissibile in quanto la controricorrente nell'indicare le circostanze dedotte come non valutate dalla CTR non ne rassegna la decisività, nell'accezione di cui all'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., né tanto meno esplicita le ragioni per le quali l'esame di dette circostanze avrebbe potuto portare ad una diversa soluzione della controversia; al contrario, secondo il costante insegnamento di questa Corte (Cass. n. 25608 del 2013 e n. 962 del 2015) «spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l'attendibilità e la concludenza delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova. Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità (cfr., nello stesso senso, Cass. n. 5858 del 08/03/2013)»;

- che con il secondo motivo di ricorso incidentale la controricorrente deduce la violazione degli artt. 109 e 110 d.P.R. n. 917 del 1986 e la contraddittoria ed illogica motivazione della sentenza impugnata in relazione ai rilievi relativi a «maggiori ricavi delle vendite», «sopravvenienze attive non dichiarate» e costi non di competenza per acquisti di merci e sopravvenienze passive»;

- che il motivo in esame, stante la inscindibile commistione dei profili di violazione di legge e di vizio motivazionale con esso dedotti, è inammissibile; al riguardo va ricordato il principio reiteratamente affermato da questa Corte (cfr., ex multis, Cass. n. 21611 del 2013; v. anche Cass. 7009 del 2017) secondo cui «il motivo di impugnazione che [come nel caso qui vagliato] prospetti una pluralità di questioni precedute unitariamente dalla elencazione delle norme che si assumono violate, e dalla deduzione del vizio di motivazione, è inammissibile, richiedendo un inesigibile intervento integrativo della Corte che, per giungere alla compiuta formulazione del motivo, dovrebbe individuare per ciascuna delle doglianze lo specifico vizio di violazione di legge o del vizio di motivazione»;

- che con la prima censura del terzo motivo di ricorso incidentale la società controricorrente, in relazione alla ritenuta indeducibilità del compenso corrisposto ad una società di intermediazione immobiliare perché ritenuto non inerente in quanto antieconomico, deduce la violazione dell'art. 109, comma 5, TUIR (d.P.R. n. 917 del 1986) sostenendo che, diversamente da quanto ritenuto dalla CTR, la disposizione censurata «non consente di censurare con l'indeducibilità i comportamenti antieconomici dell'imprenditore»;

- che il motivo è infondato;

- che, al riguardo, pare opportuno precisare che va escluso che il principio dell'inerenza, quale vincolo alla deducibilità dei costi, discenda dall'art. 109, comma 5, TUIR, che si riferisce al diverso principio dell'indeducibilità dei costi relativi a ricavi esenti (ferma, ovviamente, l'inerenza), cioè alla cosiddetta "correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili", mentre, come si afferma anche in dottrina, il principio di inerenza è principio generale inespresso, immanente alla nozione di reddito d'impresa, e la valutazione dell'inerenza di un costo all'attività d'impresa impone un giudizio di tipo qualitativo, che non necessariamente implica anche un giudizio quantitativo, e cioè di apprezzamento del costo in termini di congruità o antieconomicità, che non sono espressione dell'inerenza ma costituiscono meri indici sintomatici dell'inesistenza di tale requisito, ossia dell'esclusione del costo dall'ambito dell'attività d'impresa;

- che, ragguardata esclusivamente sotto il profilo quantitativo, la valutazione circa la deducibilità o meno di un costo postula l'accertamento della congruità ed economicità dello stesso, dovendosi riconoscere all'amministrazione finanziaria, per orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, il potere di «valutare ai fini fiscali le varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito secondo il normale valore di mercato», che costituisce «principio generale, desumibile dall'art. 9 del D.P.R. n. 917/1986» (Cass. n. 10802 del 2002), che si estrinseca, appunto, nella facoltà di valutare i costi ed i ricavi esposti dal contribuente nel bilancio di esercizio e nella dichiarazione annuale dei redditi, anche nell'ipotesi in cui non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d'impresa e, quindi, di negare la deducibilità, anche parziale, di un costo ritenuto non congruo o sproporzionato ai ricavi o all'oggetto dell'impresa, e quindi in presenza di un comportamento contrario ai canoni dell'economia, rispetto al quale il contribuente non fornisca plausibili ragioni giustificatrici (v. Cass. n. 22176 e n. 24379 del 2016, n. 9084 e n. 10269 del 2017);

- che la seconda censura del terzo motivo del ricorso incidentale, con cui la controricorrente, in relazione alla medesima ripresa a tassazione, deduce il vizio di motivazione della sentenza impugnata perché contraddittoria ed erronea, è inammissibile per difetto di autosufficienza, mancando nel ricorso la trascrizione delle parti essenziali della documentazione cui viene fatto riferimento e, in particolare, dell'allegato 53/E del processo verbale di constatazione, e perché, esclusa la sussistenza di una contraddittorietà nel decisum, che la parte neppure si cura di specificare, il mezzo di cassazione in esame si pone in contrasto con il reiterato insegnamento di questa Corte (cfr., ex plurimis, Cass. n. 14233 e n. 20952 del 2015) secondo cui il controllo di adeguatezza e logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. - nella versione vigente ratione temporis - non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito alla soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione si risolverebbe sostanzialmente in una riformulazione del giudizio di fatto, incompatibile con la funzione assegnata dall'ordinamento al giudizio di legittimità (Cass. nn. 959 e 961 del 2015), ove il divieto di accesso agli atti è la conseguenza di un limite all'ambito di cognizione della Corte, non eludibile nemmeno attraverso il principio di autosufficienza (mediante la trascrizione, o addirittura riproduzione e materiale allegazione degli atti di causa), spettando in via esclusiva al giudice di merito la selezione degli elementi del suo convincimento (Cass. n. 26860 del 2014; n. 962 del 2015);

- che alla stregua di quanto fin qui detto sia il ricorso principale che quello incidentale vanno rigettati e le spese interamente compensate tra le parti in ragione della soccombenza reciproca;

 

P.Q.M.

 

dichiara l'inammissibilità del ricorso incidentale notificato al Ministero dell'economia e delle finanze; rigetta il motivo di ricorso principale nonché il primo submotivo del primo e del terzo motivo di ricorso incidentale, dichiara inammissibili il secondo submotivo del primo e terzo motivo di ricorso incidentale, nonché il secondo motivo di ricorso incidentale, e compensa le spese processuali.