Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 08 giugno 2016, n. 11749

Licenziamento - Dipendente Inps - Contestazione disciplinare - Tempestività

 

Svolgimento del processo

 

La Corte di Appello di Salerno, pronunciando in sede di rinvio, rigettava l'appello proposto da Z.G.P. avverso la sentenza del Tribunale di Napoli che aveva respinto la sua domanda, avanzata nei confronti dell'INPS di cui era dipendente, avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento intimatogli in data 20 febbraio 2005.

A base del decisum, e per quello che interessa in questa sede, la Corte del merito, poneva, relativamente alla osservanza del termine di venti giorni stabilito - ai fini della tempestività della contestazione 1 dall’art. 27 del CCNL del Comparto del personale degli Enti pubblici 1994/1997, per un verso il rilievo secondo il quale, nella specie, la conoscenza da parte dell'INPS dei fatti aventi rilevanza disciplinare si era realizzata solo con la trasmissione dell'ordinanza del Tribunale del riesame nella quale erano indicati i capi d'imputazione formulati a carico della Z., non essendo i precedenti provvedimenti penali idonei a porre il predetto istituto in condizione di conoscere la natura e l'entità dei fatti addebitati, e dall'altro, che, in ogni caso, il termine previsto dalla richiamata contrattazione collettiva non era da considerarsi, a differenza di quella del 2002/2005, perentorio.

Contro la indicata sentenza ricorre in cassazione lo Z. in ragione di due censure.

L'IINPS resiste con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

Con la prima censura parte ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 27 CCNL del Comparto Enti Pubblici non economici 1994/1997 e dell'art. 55, 5°comma, dlgs n. 165/01 nonché omessa e contraddittoria motivazione, sostiene che la Corte del merito, nel valutare il momento in cui l'INPS è venuto a conoscenza dei fatti aventi rilevanza disciplinare, non ha compitamente considerato che tali fatti già emergevano dalle comunicazioni rispettivamente del decreto di perquisizione e sequestro, e di esecuzione della misura cautelare degli arresti domiciliari.

Con il secondo motivo lo Z., denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 27 CCNL del Comparto Enti Pubblici non economici e dell'art. 3 regolamento di disciplina, assume che la Corte del merito ha erroneamente ritenuto la natura non perentoria del termine entro cui deve effettuarsi la contestazione disciplinare.

Il ricorso è infondato.

Relativamente al primo motivo del ricorso va, preliminarmente, rilevato che in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge o di contratto collettivo nazionale e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (di qui la funzione di assicurare l'uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di cassazione dall’art. 65 ord. giud.); viceversa, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma di legge o di contratto collettivo nazionale e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione.

La differenza tra l'una e l'altra ipotesi - violazione di legge in senso proprio a causa dell'erronea ricognizione dell'astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge, in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta - è segnata, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 22 febbraio 2007 n. 4178, Cass. 26 marzo 2010 n. 7394 e 16 luglio 2010 n. 16698).

Nella specie ricorre proprio siffatta ultima ipotesi in quanto la violazione di legge viene dedotta appunto mediante la contestazione della valutazione delle risultanze di causa la cui censura è ammissibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione, che qui non viene denunciato, ma non sotto il profilo della violazione o falsa applicazione di legge.

Tanto precisato occorre sottolineare, poi, che il dedotto vizio motivazionale inerisce ad una diversa valutazione di risultanze documentali puntualmente esaminate dalla Corte del merito che come tale è inammissibile in sede di legittimità in quanto si tende, con la censura, in esame, sostanzialmente ad una diversa valutazione del merito.

Né può sottacersi che, nella specie, trattandosi di sentenza di appello pubblicata in data 20 marzo 2014, trova applicazione l’art. 360, primo comma, n. 5, cpc, riformulato dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134 che secondo l'interpretazione fornita dalle Sezioni Unite, introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. S.U. 7 aprile 2014 n. 8053).

Quanto al secondo motivo del ricorso va rimarcato che la sentenza impugnata risulta ancorata a due distinte rationes decidendi, autonome l'una dalla altra, e ciascuna, da sola, sufficiente a sorreggerne il dictum: da un lato, all'affermazione dell'avvenuta conoscenza dei fatti da addebitare solo con la trasmissione dell'ordinanza del Tribunale del riesame rispetto alla quale risulta rispettato il termine di venti giorni di cui art. 27 CCNL del Comparto Enti Pubblici non economici e dell'art. 3 regolamento di disciplina; dall'altro, al rilievo della natura non perentoria del predetto termine.

Orbene è ius receptum, nella giurisprudenza di questa Corte, il principio per il quale l'impugnazione di una decisione basata su una motivazione strutturata in una pluralità d'ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi l'uno dallo altro, e ciascuno, di per sé solo, idoneo a supportare il relativo dictum, per poter essere ravvisata meritevole d'ingresso, deve risultare articolata in uno spettro di censure tale da investire, e da investire utilmente, tutti gli ordini di ragioni accennati, posto che la mancata critica di uno di questi o la relativa attitudine a resistere agli appunti mossigli comporterebbero che la decisione dovrebbe essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurato e priverebbero l'impugnazione dell'idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (cfr., in merito, ex multis, Cass. 26 marzo 2001 n. 4349, Cass. 27 marzo 2001 n. 4424 e da ultimo Cass. 20 novembre 2009 n. 24540).

Nel caso di specie la prima delle ricordate rationes decidendi resistendo alle critiche mosse dal ricorrente rende ultroneo l'esame del secondo motivo in discussione che attiene all'alternativa ed autonoma ragione del decisum.

Il motivo in esame non è quindi scrutinabile.

D'altro canto questa Corte ha già sancito, e qui va ribadito, che tema di sanzioni disciplinari nei rapporti di lavoro pubblico privatizzato, il termine di venti giorni per la contestazione dell'addebito, previsto dall'art. 24, comma 2, del c.c.n.I. del comparto Ministeri del 16 maggio 1995, non è perentorio, sicché la sua inosservanza non comporta un vizio della sanzione finale, atteso che in un assetto disciplinare contrattualizzato gli effetti decadenziali possono verificarsi solo in presenza di una loro espressa previsione normativa o contrattuale. Né, in senso contrario, rileva l'aggiunta - operata con l'art. 12 del c.c.n.I. del comparto Ministeri 2002-2005 - di un nuovo comma 10 all'art. 24 del c.c.n.l. del 1995, con il quale è stata attribuita natura perentoria anche al termine iniziale del procedimento disciplinare, dovendosi ritenere, attesa la mancanza di ogni riferimento all'avvenuta insorgenza di controversie di carattere generale sull’interpretazione della norma collettiva, che la nuova disposizione non costituisca norma pattizia di interpretazione autentica, di portata sostitutiva della clausola controversa con efficacia retroattiva, ma integri una modifica, come tale operante soltanto in riferimento alle vicende successive all'entrata in vigore del c.c.n.l. con il quale è stata pattuita (Cass. 2 dicembre 2015 n. 24529 e Cass. 9 marzo 2009 n. 5637).

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza. Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115 del 2002 introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012 per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in E. 100,00 per esborsi ed E. 3000,00 per compensi oltre spese generali al 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115 del 2002 introdotto dall'art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012 si dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.