Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 03 luglio 2017, n. 16350

Lavoro subordinato - Distinzioni - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Risarcimento del danno - Annullamento del licenziamento - Somme percepite "medio tempore" a titolo di pensione dal lavoratore - Ripetizione d'indebito da parte dell’ente erogatore della pensione

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Bologna, con sentenza n. 284 del 12 marzo 2014, pronunciando in sede di rinvio a seguito della sentenza della Corte di Cassazione n. 6846/2010, in riforma della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Firenze, ha dichiarato che tra P.V. e R. s.p.a. era intercorso un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 16.3.1988 al 16.6.2000 e che il P. aveva rivestito la qualifica B1 del C.C.N.L. per le industrie grafiche; ha condannato la società R. al pagamento della somma di € 5,370,22 a titolo di TFR, oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla maturazione del diritto al saldo; ha dichiarato l'invalidità del licenziamento intimato il 17.5.2000, ordinando per l'effetto la reintegrazione del P. nel posto di lavoro; ha condannato la società convenuta al risarcimento del danno pari alla retribuzione globale di fatto, determinata in € 2.504,82, dal licenziamento all'effettiva reintegra, detratto l'aliunde perceptum quale risultante dalla c.t.u. contabile e dalle dichiarazioni dei redditi acquisite agli atti, presentate fino alla data del pensionamento del P., oltre accessori e regolarizzazione contributiva del rapporto, tenuto anche conto della diversa sua qualificazione; ha disposto la compensazione fino a concorrenza dei crediti come sopra riconosciuti con la somma di € 19.817,44, pagata dalla società in esecuzione della sentenza di primo grado.

2. La Corte di merito ha osservato, in sintesi, per quanto qui rileva:

- che erano coperte da giudicato interno le statuizioni relative alla qualificazione del rapporto, alle connesse differenze retributive e all'invalidità del licenziamento; il giudizio di rinvio verteva sull'accertamento del requisito dimensionale, in relazione le conseguenze da ricollegarsi alla tutela in concreto applicabile e alla liquidazione del risarcimento in dipendenza dovuto;

- che la stessa appellata aveva ammesso il possesso su base nazionale di un organico eccedente il requisito dimensionale di cui all'art. 18 L. n. 300/70 e pertanto, alla stregua della sentenza n. 141/2006 delle Sezioni Unite, richiamata dalla sentenza rescindente, doveva essere emessa pronuncia di reintegrazione del P. nel posto di lavoro, con condanna della società al risarcimento dei danni ex art. 18 cit. dalla data del licenziamento alla effettiva reintegra;

- che non poteva trovare applicazione ratione temporis - contrariamente a quanto sostenuto dalla società convenuta - la disciplina di cui all'art. 1, co. 42, L. n. 92/2012 (c.d. legge Fornero) ai fini della limitazione a dodici mensilità dell'indennità risarcitoria liquidabile e neppure la disciplina di cui all'art. 50 legge n. 183/2010 ai fini della limitazione a sei mensilità dell'indennità risarcitoria liquidabile;

- che era infondata pure l'ulteriore eccezione, formulata in via subordinata dalla appellata, tesa a ottenere la limitazione del periodo computabile ai fini di risarcimento del danno ex art. 18, comma 4, L. n. 300/70 fino alla data del pensionamento di anzianità, dovendo esser richiamato l'indirizzo espresso da Cass. n. 1908/98 e n. 5635/2006, secondo cui il compimento dell'età pensionabile o il raggiungimento di requisiti per il sorgere del diritto a pensione, determinando solo la recedibilità ad nutum dal rapporto e non già la sua automatica estinzione, non ostano all'emanazione del provvedimento di reintegra e al riconoscimento del risarcimento del danno per il periodo compreso tra la data del recesso e quella della reintegrazione;

- che la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del recesso aveva travolto il diritto al pensionamento con efficacia ex tunc sottoponendo l'interessato all'azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto erogatore della pensione, come affermato da Cass. n. 1670/2008; ne conseguiva che, non applicandosi al trattamento pensionistico percepito dal P., in quanto soggetto a ripetizione da parte dell'Inps, il principio della compensano lucri com damno, lo stesso non era deducibile dal risarcimento dovuto dalla società;

- che l'istruttoria di causa aveva accertato l'entità dell'aliunde perceptum da detrarsi fino a concorrenza del risarcimento dei danni in ragione delle retribuzioni globali di fatto già in godimento medio tempore maturate e che doveva essere portata in compensazione altresì la somma di € 19.817,44, pagata dalla società in esecuzione della sentenza di primo grado.

3. Per la cassazione di tale sentenza la soc . R. ha proposto ricorso affidato a due motivi, cui resiste con controricorso V.P.. All'udienza il difensore di parte ricorrente ha depositato documentazione concernente l'intervenuto fallimento (sentenza n. 89/15 del 28.12.2015 del Tribunale di Varese) della società RTV - ex R. s.p.a..

 

Ragioni della decisione

 

1. Preliminarmente, deve rilevarsi che, secondo costante giurisprudenza di legittimità, il fallimento non comporta una causa di interruzione del giudizio in corso in sede di legittimità posto che in quest'ultimo, che è dominato dall'impulso d'ufficio, non trovano applicazione le comuni cause di interruzione del processo previste in via generale dalla legge (Cass. S.U. n. 17295 del 2003, Cass. n. 21153 del 2010, n. 14786 del 2011, n. 8685 del 2012, n. 17450 del 2013).

2. Il primo motivo denuncia omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia e/o violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.. Il P. aveva manifestato, con la propria scelta di usufruire della pensione di anzianità a decorrere dall'anno 2011, un comportamento concludente atto ad esprimere la propria volontà di non continuare a rendere la prestazione lavorativa alle dipendenze della società convenuta. Non era pertinente la giurisprudenza richiamata, riferibile ad un giudizio prognostico rispetto al termine entro il quale il rapporto di lavoro si sarebbe interrotto al 65° anno di età del dipendente, viceversa nel caso di specie il termine finale si era verificato ed il rapporto di lavoro, qualunque fosse il datore di lavoro, si era già interrotto con la data del 1° gennaio 2011; difatti, il d.lgs. n. 503/92, art. 10, prevede, quale condizione imprescindibile per il conseguimento della pensione di anzianità, la cessazione dell'attività lavorativa. La sentenza rescindente n. 6846/2010 era intervenuta il 3.2.2010 e a tale data il P. era in grado di sapere che il suo rapporto di lavoro con R. s.p.a. sarebbe stato ricostituito con effetto ex tunc, per cui la scelta posta in essere, consapevole e volontaria, era tesa ad operare un recesso unilaterale.

2.1. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2118 c.c. e dell'art. 18 L. n. 300/70 per non avere la sentenza delimitato il risarcimento dei danni all'anno 2010, avendo il P. nell'anno 2011 risolto il rapporto di lavoro e percepito la pensione di anzianità, così manifestando la propria volontà di recedere dal rapporto di lavoro.

3. Entrambe le censure sono infondate.

4. Il conseguimento della pensione di anzianità non integra una causa di impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, atteso che la disciplina legale dell'incompatibilità (totale o parziale) tra trattamento pensionistico e percezione di un reddito da lavoro dipendente si colloca sul diverso piano del rapporto previdenziale (determinando la sospensione dell'erogazione della prestazione pensionistica), ma non comporta l'invalidità del rapporto di lavoro (Cass. n. 6906/2009). Il diritto a pensione discende dal verificarsi dei requisiti di età e di contribuzione stabiliti dalla legge e prescinde del tutto dalla disponibilità di energie lavorative da parte dell'assicurato, che abbia anteriormente perduto il posto di lavoro, né si pone di per sé come causa di risoluzione del rapporto di lavoro, sicché le utilità economiche, che il lavoratore illegittimamente licenziato ne ritrae, dipendono da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, non sono in alcun modo causalmente ricollegabili al licenziamento illegittimamente subito e si sottraggono per tale ragione all'operatività della regola della compensatio lucri cum damno (Cass. SSUU n. 12194 del 2002; Cass. 2529 del 2003, Cass. 16143 del 2014).

5. La Corte territoriale ha fatto applicazione dei principi espressi da questa Corte (v. sentenza n. 1670 del 2008; conf. Cass. n. 154 del 2012) secondo cui, nel caso di licenziamento illegittimo annullato dal giudice con sentenza reintegratoria che ricostituisce il rapporto con efficacia ex tunc, poiché rileva la continuità giuridica del rapporto piuttosto che la prestazione di fatto resa impossibile dall'illegittimo rifiuto del datore di lavoro di ricevere la prestazione, deve escludersi il diritto del lavoratore alla pensione di anzianità in ragione della incompatibilità di questa con il rapporto di lavoro. La sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge il diritto al pensionamento con efficacia ex tunc e sottopone l'interessato all'azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto erogatore della pensione.

6. Dunque, la sentenza di reintegra emessa il 25.2.2014 dalla Corte di appello di Bologna nel giudizio di rinvio, avente effetto ex tunc dalla data del licenziamento illegittimo del 17.5.2000, ha comportato la ricostituzione del rapporto e l'efficacia giuridica dello stesso alla dell'esercizio medio tempore del diritto alla pensione di anzianità da parte del P., conseguente operatività della disciplina dettata dall'art. 18 L. n. 300/70, restando tuttavia l'interessato esposto all'azione di recupero dell'indebito da parte dell'INPS, come correttamente affermato dalla sentenza impugnata.

7. Né all'esercizio di tale diritto può attribuirsi il significato di espressione della volontà del lavoratore di recedere dal rapporto ex art. 2118 c.c., non potendo attribuirsi tale valenza ad un comportamento intervenuto prima della sentenza che ordina la reintegra nel posto di lavoro. Nel caso di specie, tale momento non è identificabile nella sentenza rescindente n. 6846/2010 emessa da questa Corte, la quale ha solo enunciato la regola di giudizio cui il giudice di rinvio si sarebbe dovuto conformare ai fini della identificazione del regime giuridico applicabile nella fattispecie (se la tutela reale o quella obbligatoria). Al comportamento tenuto dal P. nel 2010 non poteva attribuirsi alcun significato concludente, non potendo ipotizzarsi la consapevolezza dell'effettività della reintegra nel posto di lavoro prima della sentenza emessa all'esito del giudizio di rinvio, ora impugnata. Né è in discussione nella fattispecie che l'esercizio dell'opzione per l'indennità sostitutiva sia intervenuto successivamente alla definizione del giudizio di rinvio e non in corso di causa.

8. Per completezza, giova ribadire che, sempre secondo quanto ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte, la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4, nel testo sostituito dalla L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 1 (anteriore alla riforma introdotta dalla Legge 28 giugno 2012, n. 92), nel prevedere, in caso di invalidità del licenziamento, la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per effetto del licenziamento stesso, mediante corresponsione di una indennità commisurata alla retribuzione non percepita, stabilisce una presunzione iuris tantum di lucro cessante, il cui presupposto, costituente una specificazione del generale principio della responsabilità contrattuale, è l'imputabilità al datore di lavoro dell'inadempimento, fatta eccezione per la misura minima del risarcimento, consistente in cinque mensilità di retribuzione, la quale è assimilabile ad una sorta di penale, avente la sua radice nel rischio di impresa (cfr., Cass. nn. 8364/2004; 1950/2011).

9. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell'art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

9.1. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, il rigetto del ricorso) per il versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.