Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 18 agosto 2016, n. 17166

Licenziamento in tronco - Arresto per detenzione e spaccio - Diritto di difesa

 

Svolgimento del processo

 

1. - Con sentenza dell'11 dicembre 2014, la Corte di Appello di L'Aquila ha confermato la pronuncia di primo grado che, in procedimento regolato dal rito previsto dalla I. n. 92 del 2012, aveva respinto l'impugnativa promossa da D. T. nei confronti della S. Spa in relazione al licenziamento in tronco intimato in data 23 aprile 2013 per essere stato il dipendente tratto in arresto per detenzione e spaccio di ingenti quantità di eroina.

La Corte territoriale, premesso che le circostanze fattuali che avevano condotto al recesso datoriale risultavano "pacifiche tra le parti" e "comunque documentalmente dimostrate", ha rilevato che nella lettera di giustificazioni dell'8 aprile 2013 il T., senza contestare i comportamenti ascritti, aveva inteso esclusivamente sminuirne la rilevanza, sul presupposto della loro estraneità al rapporto di lavoro, e, benché avesse richiesto di essere sentito oralmente allorquando fosse cessato il suo stato di detenzione, i giudici d'appello, "in linea con quanto ritenuto dal primo giudice", hanno ritenuto che detta richiesta "avesse una finalità meramente dilatoria, con la conseguenza che non può dirsi violato l'obbligo datoriale di cui all'art. 7, comma 2, della legge n. 300/1970".

Nel merito la Corte, valutata l'indubbia gravità oggettiva del delitto perpetrato punito con pene assai pesanti, ha ritenuto che "il dipendente potesse di nuovo contravvenire a norme penali (anche in ambito aziendale)" lasciando "in capo al datore di lavoro più che fondate perplessità circa la correttezza del T. ed il puntuale adempimento da parte sua degli obblighi contrattuali e non"; in sentenza si osserva che "siamo in presenza di una ipotesi di detenzione di sostanze stupefacenti la cui natura (eroina) e la cui quantità (grammi 215, già frazionati in dosi) lasciano presumere la sussistenza di un fine di spaccio (tanto è vero che al momento dell'arresto, nel garage del T., era presente un altro soggetto, che si è dileguato alla vista dei militari), e quindi non un mero uso personale, il che evidentemente comporta frequentazioni di gente dedita al traffico di stupefacenti e l'inserimento in un ambiente ben più pericoloso, che certo può costituire una giusta causa del venir meno del rapporto fiduciario".

2. - Per la cassazione di tale sentenza D. T. ha proposto ricorso affidato a sei motivi. La società ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.

 

Motivi della decisione

 

3. - I motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati.

Con il primo si denuncia "violazione ed errata applicazione dell'art. 7 della I. n. 300 del 1970 e dell'art. 32 del Contratto Collettivo specifico di lavoro di primo livello del 29 dicembre 2010 in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3". Si eccepisce che, con le giustificazioni scritte, il T. non aveva "consumato" il suo diritto di difesa, avendo egli chiesto di essere sentito oralmente.

Con il secondo motivo si deduce "violazione ed errata applicazione dell'art. 115 c.p.c." in quanto la Corte territoriale avrebbe ritenuto legittimo il licenziamento "sulla base di sue congetture non fondate su alcun elemento rinvenibile negli atti del processo", sia in ordine alla frequentazione del T. "di ambienti malavitosi dediti al traffico di stupefacenti", sia circa la sussistenza di un danno all'immagine dell'azienda.

Con il terzo motivo si lamenta violazione ed errata applicazione di norme di legge e di contratto collettivo perché in quest'ultimo l'ipotesi contestata non risulterebbe presente tra quelle legittimanti il licenziamento.

Con il quarto motivo si denuncia violazione del contratto collettivo nonché dell'art. 2119 c.c. reputando che "il comportamento extralavorativo del dipendente è di regola irrilevante ai fini della lesione del vincolo fiduciario"; si deduce che una condotta extralavorativa può acquisire rilievo "solo qualora presenti una gravità tale da far ritenere il lavoratore professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto, specialmente quando, per le caratteristiche e le peculiarità della prestazione, si esiga un più ampio margine di fiducia esteso anche alla serietà della condotta della vita privata".

Con il quinto motivo si denuncia ancora violazione ed errata applicazione dell'art. 2119 c.c. per avere la Corte del reclamo formulato un giudizio prognostico circa il futuro adempimento del lavoratore non basato su elementi di fatto chiaramente riscontrabili, stante l'incensuratezza del T., e senza aver in concreto valutato le mansioni operaie dello stesso.

Con l'ultima censura si eccepisce l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dallo svolgimento da parte del T. di mansioni di operaio addetto alla catena di montaggio.

4. - Poiché ai sensi dell'art. 18, comma 6, della I. n. 300 del 1970, come modificato dalla I. n. 92 del 2012, applicabile al presente licenziamento intimato in data 23 aprile 2013, ove il lavoratore, oltre a denunciare la violazione "della procedura di cui all'articolo 7 della presente legge", chieda accertarsi "un difetto di giustificazione del licenziamento", le maggiori tutele di cui all'art. 18, commi quarto, quinto o settimo, operano "in luogo di quelle previste dal presente comma" sesto (cd. tutela indennitaria debole), occorre, per ragioni logiche e giuridiche, esaminare preventivamente i motivi di ricorso che vanno dal secondo al sesto, attinenti alla giustificazione del licenziamento del T., potendo solo successivamente valutarsi il primo motivo, che riguarda una violazione della procedura disciplinare.

Tali mezzi di gravame, congiuntamente scrutinagli per reciproca connessione, non possono trovare accoglimento.

4.1. - In premessa va evidenziato che tutti i fatti che hanno dato origine al processo, così come ricostruiti dai giudici di merito, non possono essere rimessi in discussione in questa sede.

Non hanno ingresso, cioè, tutte quelle censure che attengono alla ricostruzione della vicenda storica, lamentando una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo della critica alla valutazione giudiziale delle risultanze di causa, perché, per le sentenze pubblicate, come nella specie, dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge n. 134 del 2012, di conversione del d.l. n. 83 del 2012, detta ricostruzione è censurabile in sede di legittimità solo nell'ipotesi di "omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti" ai sensi del novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., così come rigorosamente interpretato da questa Corte a Sezioni Unite (v. sent. n. 8053 del 2014).

Detto vizio, inoltre, non è denunciabile, per i giudizi di appello instaurati (nel caso che ci occupa il reclamo è del 22 ottobre 2014) successivamente alla data sopra indicata (art. 54, comma 2, del richiamato d.l. n. 83/2012), qualora il fatto sia stato ricostruito, come nella specie, nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c.) (cfr. Cass. n. 4223 del 2016).

La disposizione è applicabile anche al reclamo disciplinato dall'art. 1, commi da 58 a 60, della legge n. 92/2012, che ha natura sostanziale di appello, dalla quale consegue l'applicabilità della disciplina generale dettata per le impugnazioni dal codice di rito, se non espressamente derogata (in tal senso, tra le altre, Cass. 29.10.2014 n. 23021).

4.2. - Ciò posto, vanno invece delibate quelle doglianze con cui, in varie forme, si denuncia, da parte della sentenza impugnata, la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare dell'art. 2119 c.c.

Occorre dunque ribadire i confini del sindacato di questa Corte a mente dell'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., ove si controverta della giusta causa di licenziamento, ai sensi dell'art. 2119 c.c., ovvero, con diversità solo di grado, di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali che giustifichi il motivo soggettivo di licenziamento con preavviso, ai sensi dell'art. 3 della I. n. 604 del 1966.

In generale l'attribuzione di un contenuto precettivo ad una norma, compreso in un intervallo di interpretazioni plausibili, è operazione che compie ogni giudice nell'assegnare un significato alla disposizione interpretata, ma che compete a questa Corte precisare progressivamente mediante puntualizzazioni, a carattere generale ed astratto, sino alla formazione del cd. diritto vivente (cfr. Cass. n. 18247 del 2009).

Tale operazione di attribuzione di significato non è logicamente dissimile per le norme contenenti le cd. clausole generali o, comunque, concetti giuridici indeterminati, anche se non se ne possono negare le peculiarità legate alla circostanza che in tali disposizioni si richiamano concetti elastici, che necessitano di una integrazione che accentua lo spazio lasciato all'interprete, delegato ad effettuare un giudizio di valore che concretizza la norma oltre i rigidi confini dell'ordinamento positivo.

Tanto accade anche per la giusta causa o per il giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

Si tratta di disposizioni di limitato contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo, mediante la valorizzazione sia di principi che la stessa disposizione richiama sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero al rispetto di criteri e principi desumibili dall'ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare, anche collettiva, in cui si colloca la disposizione.

Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (tra le innumerevoli: Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 25144 del 2010); dunque non si sottrae al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito nell'individuazione dei parametri integrativi, perché, pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici, "tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento" (per tutte v. Cass. n. 434 del 1999), traducendosi in un'attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa (cfr. Cass. n. 5026 del 2004; Cass. n. 10058 del 2005; Cass. n. 8017 del 2006).

Tuttavia è stato evidenziato che l'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005).

Invece, nella specie, parte ricorrente non identifica quali siano i parametri integrativi della clausola generale che sarebbero stati violati dai giudici di merito, limitandosi esclusivamente a ribadire che secondo il suo giudizio - che è solo quello personale della parte che vi ha interesse - il fatto addebitato non costituirebbe giusta causa di licenziamento, per cui, anche per questo profilo, la sentenza impugnata non risulta efficacemente censurata.

4.3. - Le Sezioni Unite di questa Corte poi insegnano (sent. n. 5 del 2001) che il controllo di legittimità non si esaurisce in una verifica dell'attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva di una norma, ma il vizio di cui al n. 3 dell'art. 360, co. 1, c.p.c. comprende anche l'errore di sussunzione del fatto nell'ipotesi normativa.

Tale vizio, sovente inteso come falsa applicazione di legge, si riferisce ad un momento successivo a quello concernente la ricerca e l'interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto e che investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nell'affermazione erronea dell'esistenza o dell'insussistenza di una norma, ovvero della attribuzione ad essa di un contenuto che non ha riguardo alla fattispecie in essa delineata (violazione di legge in senso proprio); la falsa applicazione consiste invece o nell'assumere la fattispecie concreta sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista - pur rettamente individuata e interpretata - non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione (in termini chiari così Cass. n. 18782 del 2005; v. pure Cass. n. 15499 del 2004).

Il vizio di sussunzione è ipotizzabile naturalmente anche nel caso di norme che contengano clausole generali o concetti giuridici indeterminati ma, per consentirne lo scrutinio in sede di legittimità, è indispensabile, così come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di merito; altrimenti si trasmoderebbe nella revisione dell'accertamento di fatto di competenza di detti giudici.

Orbene, in ordine agli elementi fattuali che il giudice deve valutare per verificare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza di questa Corte è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci affermando ripetutamente che, per stabilire in concreto l'esistenza di una "causa che non consenta al prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro" e che deve dunque rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali di tale rapporto, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare.

L'accertamento in ordine alla ricostruzione di detti fatti e del come si siano realizzati nella vicenda storica che origina la controversia compete ai giudici di merito. Ad essi spetta anche la valutazione di tali fatti al fine di esprimere un giudizio complessivo dei medesimi che spieghi le ragioni per cui da essi si sia tratto il convincimento circa la sussistenza o meno della giusta causa di licenziamento.

Trattandosi di giudizi di fatto questa Corte può sottoporli a sindacato nei limiti consentiti - come innanzi già precisato - da una prospettazione del vizio di cui all'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione tempo per tempo vigente.

Inoltre il giudice di legittimità, sempre nei limiti di una censura appropriata, può sindacare la sussunzione operata dall'impugnata sentenza della fattispecie concreta nell'alveo dell'art. 2119 c.c. correttamente interpretato.

Resta fermo però che i dati fattuali di partenza devono essere quelli accertati e valutati dal giudice del merito: rispetto ad essi può essere verificata in sede di legittimità la corretta riconduzione alla fattispecie astratta.

Poiché, come abbiamo visto, gli elementi da valutare ai fini dell'integrazione della giusta causa di recesso sono molteplici occorre guardare, nel sindacato di questa Corte, alla rilevanza dei singoli parametri ed al peso specifico attribuito a ciascuno di essi dal giudice del merito, onde verificarne il giudizio complessivo che ne è scaturito dalla loro combinazione e saggiarne la coerenza della sussunzione nell'ambito della clausola generale.

Trattandosi di una decisione che è il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di sussunzione, non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione dei parametri ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve piuttosto denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali, così come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento.

Altrimenti occorrerà dedurre che è stato omesso l'esame di un parametro tra quelli individuati dalla giurisprudenza ai fini dell'integrazione della giusta causa avente valore decisivo, nel senso che l'elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità; ma in tal caso il vizio è attratto nella sfera di applicabilità dell'art. 360, co. 1, n. 5, con tutti i limiti innanzi ricordati, e solo successivamente potrà essere eventualmente argomentato che l'errata ricostruzione in fatto della fattispecie concreta, determinata dall'omesso esame di un parametro decisivo, ha cagionato altresì un errore di sussunzione rilevante a mente dell'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per falsa applicazione di legge.

Nella specie, invece, parte ricorrente, senza specificare perché quanto accertato e ritenuto dalla Corte di Appello non sarebbe sussumibile nell'ambito dell'art. 2119 c.c., si limita ad indicare una serie di fatti (la frequentazione di ambienti malavitosi, il danno all'immagine dell'azienda, l'incensuratezza del T., l'espletamento di mansioni operaie) che non sarebbero stati correttamente valutati dai giudici territoriali, ma alcuno di detti fatti, anche per la loro stessa pluralità, può ritenersi autonomamente decisivo nel senso sopra specificato, sicché le doglianze in proposito nella sostanza prospettano una generica rivisitazione del giudizio di merito, evidentemente non consentita in questa sede.

4.4. - Pacificamente esclusa, poi, la pur dedotta violazione di norme per il solo fatto che la condotta addebitata non sia espressamente prevista come motivo di licenziamento dalla contrattazione collettiva, attesa la fonte legale della nozione di giusta causa (Cass. n. 5115 del 2012; Cass. n. 4060 del 2011) e sussistendo un vincolo per il giudice solo ove la contrattazione collettiva stabilisca una sanzione meramente conservativa (Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 13353 del 2011), resta da esaminare infine la denuncia di violazione dell'art. 2119 c.c. sull'assunto che "il comportamento extra lavorativo del dipendente è di regola irrilevante ai fini della lesione del vincolo fiduciario".

La censura è infondata in diritto.

E' noto che il concetto di giusta causa non si limita all'inadempimento tanto grave da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, ma si estende anche a condotte extra lavorative che, tenute al di fuori dell'azienda e dell'orario di lavoro e non direttamente riguardanti l'esecuzione della prestazione lavorativa, nondimeno possano essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti.

Infatti anche condotte concernenti la vita privata del lavoratore possono in concreto risultare idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, allorquando abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative d'un futuro puntuale adempimento dell'obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività.

Parimenti comportamenti extralavorativi imputabili al lavoratore possono colpire interessi del datore di lavoro, violando obblighi di protezione: il lavoratore è tenuto, infatti, non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario (cfr. Cass. n. 776 del 2015; Cass. n. 16268 del 2015).

Nondimeno, è pur sempre necessario che si tratti di comportamenti che, per la loro gravità, siano suscettibili di scuotere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro perché idonei, per le concrete modalità con cui si manifestano, ad arrecare un pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali (cfr. Cass. n. 15654 del 2012).

Ancora di recente questa Corte Suprema (Cass. n. 16524 del 2015) ha ribadito, peraltro in fattispecie analoga, che spetta al giudice di merito apprezzare se e in che misura tale condotta extralavorativa abbia leso il vincolo fiduciario tra le parti del rapporto di lavoro.

Nel caso che ci occupa l'accertamento della radicale compromissione del vincolo fiduciario da parte del dipendente dedito alla detenzione ed allo spaccio di ingenti quantità di eroina, conformemente operato dai giudici del doppio grado ed adeguatamente motivato, supera agevolmente la soglia del sindacato di legittimità.

5. - Residua dunque l'esame del primo motivo di ricorso con cui si denuncia la violazione ed errata applicazione dell'art. 7 della I. n. 300 del 1970, anche in riferimento alla contrattazione collettiva applicabile alla fattispecie, in relazione all'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.

Si critica quella parte della sentenza impugnata che ha ritenuto "dilatoria" la richiesta del T. di audizione orale alla cessazione dello stato di detenzione, sostenendosi che questi "non ha mai motivato in alcun modo la sua pervicace volontà di essere sentito oralmente, né ha mai spiegato per quale ragione e sulla base di quali considerazioni le sue giustificazioni rese con lettera dell'8.4.2013, dichiarate non integrabili per iscritto, fossero invece suscettibili di essere oggetto di una integrazione verbale"; da tale assunto la Corte territoriale ha tratto la conseguenza che non era stato violato l'obbligo del datore di lavoro di cui al secondo comma dell'art. 7 della I. n. 300 del 1970.

Nel motivo di gravame si eccepisce, invece, che con le giustificazioni scritte il T. non aveva "consumato" il suo diritto di difesa, avendo egli comunque chiesto espressamente di essere sentito oralmente.

Il motivo risulta fondato nei sensi espressi dalla motivazione che segue.

L'art. 7 della I. n. 300 del 1970 prescrive, come garanzia procedimentale in favore del lavoratore al quale il datore di lavoro intenda applicare una sanzione disciplinare, che quest'ultimo non possa adottare alcun provvedimento disciplinare non solo senza aver preventivamente contestato l'addebito al lavoratore, ma anche "senza averlo sentito a sua difesa".

La giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato che questa specifica garanzia (la previa audizione a difesa) opera non già indistintamente, ma solo se il lavoratore abbia espressamente chiesto di essere sentito (v. Cass. n. 4435 del 2004). Però, una volta che l'espressa richiesta sia stata formulata in modo univoco dal lavoratore (cfr. Cass. n. 12268 del 2000), la sua previa audizione costituisce in ogni caso indefettibile presupposto procedurale (Cass. n. 1661 del 2008; Cass. n. 7848 del 2006; Cass. n. 9066 del 2005), anche nell'ipotesi in cui il lavoratore, contestualmente alla richiesta di audizione a difesa, abbia comunicato al datore di lavoro giustificazioni scritte; le quali, per il solo fatto che si accompagnino alla richiesta di audizione, sono ritenute dal lavoratore stesso non esaustive e destinate ad integrarsi con le giustificazioni che il lavoratore stesso eventualmente aggiunga o precisi in sede di audizione. Quindi non può che ribadirsi il principio di diritto secondo cui "il datore di lavoro, il quale intenda adottare una sanzione disciplinare, non può omettere l'audizione del lavoratore incolpato ove quest'ultimo ne abbia fatto richiesta espressa contestualmente alla comunicazione, nel termine di cui alla I. n. 300 del 1970, art. 7, comma 5, di giustificazioni scritte, anche se queste siano ampie e potenzialmente esaustive" (così Cass. n. 6845 del 2010; conf. a Cass. n. 7006 del 1999).

Erra dunque in diritto il giudice territoriale nel ritenere non violato l'art. 7 della I. n. 300 del 1970 in presenza "di giustificazioni scritte già rese in modo esaustivo" dal lavoratore, atteso che - secondo questa Corte - la richiesta di audizione "non risulta sindacabile dal datore di lavoro in ordine alla sua effettiva idoneità difensiva, per essere tale esito, garantito dall'art. 7, comma 2, non solo conforme alla chiara lettera della norma, ma, ancor prima, funzionale a consentire la piena rispondenza del giudizio disciplinare al principio del contraddittorio fra le parti, e, quindi, alla piena realizzazione del diritto di difesa dell'incolpato", non potendosi dare "ingresso ad una valutazione di compatibilità della facoltà di audizione esercitata dal lavoratore incolpato alla luce delle difese già svolte e della sua idoneità ad utilmente integrare quest'ultime, che non determinerebbe un mero criterio di valutazione dell'esercizio del diritto, ma risulterebbe, in realtà, sostanzialmente conformativa del precetto legale" (in termini Cass. n. 5864 del 2010; conf. Cass. n. 12978 del 2011 e Cass. n. 23528 del 2013).

D'altro canto è costante l'insegnamento di legittimità nel senso che l'esercizio del potere disciplinare, al pari dell'esecuzione di tutti i comportamenti negoziali, non può sottrarsi all'applicazione dei canoni di correttezza e buona fede, affidato comunque allo scrutinio del giudice di merito (cfr. Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 23528 del 2013; Cass. n. 3058 del 2013; Cass. n. 7493 del 2011; Cass. n. 488 del 2005; Cass. n. 19350 del 2003; Cass. n. 4187 del 2002; Cass. n. 10760 del 2001), non potendosi ad esempio pretendere, per criterio di ragionevolezza, che il datore di lavoro protragga sine die la procedura disciplinare nell'attesa dell'ascolto dell'incolpato, allorquando l'impedimento posto a fondamento del rinvio sia però legato ad una durata tale da essere incompatibile con l'interesse stesso alla prosecuzione del rapporto di lavoro ovvero quando la mancata presentazione all'audizione, a prescindere da ogni sindacato sulle giustificazioni scritte già rese, palesi intenti manifestamente dilatori, con un giudizio da effettuarsi ex ante tenendo conto di ogni circostanza rilevante ai fini della valutazione delle ragioni addotte a fondamento della protrazione del procedimento disciplinare.

L'esigenza di un esercizio prudente dal parte del datore di lavoro della negazione del diritto dell'accusato all'audizione appare ancora più sentita nel vigore dell'art. 1, comma 41, I. n. 92 del 2012, secondo cui "il licenziamento intimato all'esito del procedimento disciplinare di cui all'articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, ... , produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato avviato, salvo l'eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva; ... il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura si considera come preavviso lavorato". In tal modo il legislatore, per quanto possibile, ha inteso proprio proteggere l'interesse datoriale da condotte abusive del lavoratore finalizzate a procrastinare nel tempo la possibile estinzione del rapporto di lavoro, senza tuttavia minare il principio fondante di ogni diritto punitivo dell'audiatur et altera pars (cfr. Corte cost. n. 204 del 1982).

Nella specie, poi, sussistendo una detenzione che non rendeva possibile la prestazione lavorativa per la sua durata, era comunque applicabile il principio per il quale, fuori dei casi, previsti dalla legge, in cui è accordata al lavoratore una particolare tutela, non è dovuta retribuzione al lavoratore nell'ipotesi di sopravvenuta impossibilità, per factum principis o per altra ragione, di svolgimento delle mansioni a lui assegnate, sicché a fronte della prestazione lavorativa venuta a mancare non è dovuta la corrispondente retribuzione (Cass. n. 7263 del 1996; Cass. n. 9407 del 2001).

Pertanto la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto e, non dubitandosi che il rilevato difetto del procedimento disciplinare determini una "violazione ... della procedura di cui all'art. 7" della I. n. 300 del 1970, con conseguente operatività della tutela prevista dal sesto comma dell'art. 18 della stessa legge, come novellato dalla I. n. 92 del 2012 - tutela gradatamente richiesta dal T. anche nell'atto di reclamo - occorre rinviare al giudice indicato in dispositivo affinché, come previsto da detto sesto comma, "dichiarato inefficace" il recesso e comunque "risolto il rapporto di lavoro", attribuisca al lavoratore "un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo".

6. - Conclusivamente, accolto il primo motivo e respinti gli altri, la sentenza impugnata va cassata con rinvio al giudice indicato in dispositivo che si uniformerà a quanto statuito, provvedendo altresì sulle spese.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per la regolazione delle spese, alla Corte di Appello di L'Aquila in diversa composizione.