Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 08 settembre 2016, n. 17805

Lavoro - Permesso retribuito - Fruizione - Festività del 2 giugno - Ripristino

 

Fatto e diritto

 

La causa è stata chiamata all'adunanza in camera di consiglio del 23 giugno 2016, ai sensi dell'art. 375 cod, proc. civ., sulla base della seguente relazione redatta a norma dell'art. 380 bis cod. proc. civ.:

"La Corte di appello di Napoli, in riforma della decisione di primo grado, in accoglimento della domanda proposta dall’odierno intimato, ha dichiarato il diritto di A. G. V. a fruire, in relazione agli anni 2003/2007, di un ulteriore giorno di permesso retribuito annuo, permesso unilateralmente ridotto dalla società datrice di lavoro a seguito del ripristino, ex lege n. 336 del 2000, della festività del 2 giugno.

Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso l’Ente Autonomo V. s.r.l. sulla base di un unico motivo. Ritualmente evocata in giudizio la parte intimata non ha svolto attività difensiva. Con l’unico motivo di ricorso EAV ha dedotto "non corretta interpretazione delle norme di diritto applicabili alla fattispecie/insufficiente e inadeguata motivazione su un punto decisivo della controversia". Ha preliminarmente eccepito la inapplicabilità ai rapporti dedotti degli accordi interconfederali invocati dal lavoratore in quanto stipulati da organizzazioni sindacali delle quali non era aderente la originaria datrice di lavoro, poi confluita in EAV, la quale all’epoca aderiva alla FENIT. Nel merito ha sostenuto, anche mediante richiami alla teorica della presupposizione, che dall’Accordo nazionale 27.2.1979 era evincibile la stretta correlazione tra la soppressione ex lege di alcune festività civili e religiose e l’attribuzione delle giornate di congedo o permesso retribuito; in conseguenza, del tutto legittima si configurava la unilaterale riduzione disposta dalla società datrice di un giorno di permesso retributivo, per effetto del ripristino, ex legge n. 336 del 2000; della festività civile del 2 giugno.

La preliminare eccezione di inapplicabilità degli accordi interconfederali (da individuarsi - stante il riferimento in ricorso quali parti stipulanti alla CISPEL e alla Federazione unitaria CGIL CISL e UIL - negli Accordi 27.7.1978 e 14.11.1978 ) richiamati nella sentenza impugnata non si confronta con le effettive ragioni alla base del decisum di appello. Invero, il giudice di secondo grado, in dichiarata adesione alle difese della parte datrice, ha ritenuto applicabile al rapporto dedotto non già gli accordi interconfederali del 1978 bensì l’accordo nazionale del 22.2.1979, sottoscritto da diverse Associazioni datoriali fra le quali la FENIT; ha dato altresì atto, con affermazione rimasta incontestata, che il contenuto dell’accordo del 1979 era sostanzialmente riproduttivo di quello degli accordi del 1978.

Il motivo che investe la corretta interpretazione dell’Accordo del 14.2.1978 è improcedibile.

Come di recente chiarito dalle sentenze di questa Corte di legittimità, nn. 6335 e 7385 del 2014 (seguite da numerose decisioni conformi), la denuncia di violazione o di falsa applicazione dei "contratti o accordi collettivi di lavoro" è stata aggiunta D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2 (sostitutivo del precedente testo dell'art. 360 cod. proc. civ. ed in particolare modificativo del suo comma 1, n. 3) a quella delle "norme di diritto": così parificando i primi alle seconde sul piano processuale. Tale disposizione, che si accompagna all'introduzione dell'art. 420-bis cod. proc. civ. (ad opera dell'art. 18 d.lgs. cit.), in coerente simmetria con quanto già previsto dal d.lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 5 e art. 64, in materia di controversie nel lavoro pubblico contrattualizzato, segna il punto di approdo del movimento di distacco (sul piano processuale) del contratto collettivo dallo schema del negozio giuridico con conseguente allontanamento dall' "assolutismo legislativo" ed estensione della funzione nomofilattica della Corte di cassazione a quella che è stata definita quale "tutela dello svolgimento ragionevole e ragionevolmente prevedibile dell'intero ordinamento della collettività, in tutte le sue espressioni normative".

Ciò comporta, come è stato precisato, la necessità di ascrivere la doglianza all'errore di diritto, direttamente denunciabile per cassazione senza (più) la necessità di indicazione, a pena di inammissibilità della doglianza stessa, del criterio ermeneutico violato (artt. 1362 ss. cod.civ.), cosi come analoga indicazione non e necessaria per le altre norme di diritto (con riferimento, in particolare, all'art. 12 disp. prel. cod. civ.) - cfr. le citate sentenze nn. 6335 e 7385 del 2014, che, con un percorso argomentativo coerente con l'allontanamento dall' "assolutismo legislativo" di cui si è detto, si pongono, invero, in contrasto rispetto al diverso orientamento espresso da Cass. nn. 9070 e 9054 del 2013, n. 17168 del 2012 e n. 13242 del 2010, secondo cui l'interpretazione di una norma contrattuale, com'è quella contenuta in un contratto collettivo di diritto comune, è operazione che si sostanzia in un accertamento di fatto, come tale riservato al giudice di merito ed incensurabile in cassazione se non per vizi attinenti ai criteri legali di ermeneutica o ad una motivazione carente o contraddittoria.

Di certo la parificazione, sul piano processuale, dei "contratti o accordi collettivi di lavoro" alle "norme di diritto" ad opera del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2 comporta, per la cassazione della sentenza impugnata per violazione del c.c.n.l., l'enunciazione del principio di diritto ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 1, e la decisione della causa nel merito, ai sensi del comma 2, quando non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto.

A tale enunciazione la Corte di legittimità può pervenire anche esaminando altre clausole (diverse da quella specificamente oggetto dì rilievo) del c.c.n.l. ovvero attraverso una interpretazione mediante collegamento con altri contratti collettivi, conclusi in tempi diversi.

Il suddetto materiale interpretativo è tuttavia conoscibile d'ufficio dalla Corte di legittimità solo in quanto ufficialmente pubblicato (così i c.c.n.l. del pubblico impiego). Per il resto è necessario che la norma pattizia (oggetto di diretta interpretazione ovvero elemento interpretativo esterno) non solo risulti ritualmente acquisita al fascicolo di parte nel giudizio di merito ma, laddove il ricorso per cassazione si fondi su di essa, che venga anche prodotta in uno con il ricorso stesso (art. 369, n. 4, c.p.c.; cfr., da ultimo, Cass. 4350/2015).

Parte ricorrente nell'illustrazione dei mezzi di impugnazione non ha fornito adeguata indicazione dei dati necessari al reperimento, nelle pregresse fasi di merito, dell’invocato accordo nazionale né questo risulta allegato al ricorso per cassazione, conseguendone la improcedibilità del motivo.

Infine, la censura con la quale si denunzia il vizio di motivazione della sentenza di appello non è articolata in termini coerenti con la attuale configurazione del motivo di ricorso per cassazione di cui all’art. 360 comma primo n. 5 cod.proc.civ., secondo la interpretazione data da questa Corte (Cass. n. 8053 del 2014) come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Parte ricorrente non ha individuato il fatto storno, avente carattere di decisività, che ha costituito oggetto di discussione fra le parti ed il cui esame è stato omesso dal giudice di appello.

In base alle considerazioni che precedono si conclude per il rigetto del ricorso.

Si chiede che il Presidente voglia fissare la data per l’adunanza camerale."

Ritiene questo Collegio che le considerazioni svolte dal Relatore sono del tutto condivisibili siccome coerenti alla ormai consolidata giurisprudenza in materia. Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, comma 1°, n. 5 cod. proc. civ., per la definizione camerale.

A tanto consegue il rigetto del ricorso. Non si fa luogo al regolamento delle spese di lite non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.