Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 06 novembre 2017, n. 26286

Tributi - Accertamento analitico induttivo - Impresa di costruzione - Vendita immobili - Prezzo definitivo difforme da quello pattuito nel preliminare - Ribasso del prezzo - Legittimità

 

Fatto e diritto

 

Costituito il contraddittorio camerale ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., come integralmente sostituito dal comma 1, lett. e), dell’art. 1 - bis del d.l. n. 168/2016, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 197/2016; dato atto che il collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della presente motivazione in forma semplificata, osserva quanto segue:

Con sentenza n. 2072/9/2015, depositata il 23 novembre 2015, non notificata, la CTR della Toscana accolse l’appello proposto dalla società E. S.r.l. (di seguito società), nei confronti dell’Agenzia dell’Entrate avverso la sentenza di primo grado della CTP di Pisa, che aveva rigettato il ricorso della contribuente avverso avviso di accertamento per IRES, IVA ed IRAP relativamente all’anno d’imposta 2005.

Avverso la pronuncia della CTR l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

La società resiste con controricorso.

Con il primo motivo l’Amministrazione finanziaria denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., laddove il giudice di merito ha ritenuto nella fattispecie in esame non fondato l’accertamento presuntivo analitico — induttivo nei confronti della società di costruzione.

L’Amministrazione finanziaria, in particolare, si duole al riguardo dell’affermazione resa dalla sentenza impugnata secondo cui esiste l’astratta possibilità che il prezzo convenuto in preliminare sia difforme da quello poi indicato nel contratto definitivo a causa di fatti sopravvenuti.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia nullità della sentenza impugnata per carenza di motivazione, in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c..e 1, comma 2, e 36, comma 2, n. 4, del d. lgs. n. 546/1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., laddove la CTR, denegando valore probatorio agli elementi presuntivi addotti dall’Ufficio, ha affermato che i mutui concessi dalla banche e le perizie effettuate per conto delle medesime al fine di stabilire il valore di un alloggio non avrebbero valore probatorio in quanto «le banche prima della crisi erano di manica larga».

Con il terzo motivo, infine, la ricorrente, sempre in relazione alla statuizione della CTR appena trascritta, denuncia nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 115, comma 2, c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. laddove con la censurata affermazione la pronuncia impugnata abbia inteso richiamare un fatto "notorio", poiché, così procedendo, il giudice di merito avrebbe posto a base della decisione impugnata una nozione di fatto notorio difforme da quella prevista dall’art. 115, comma 2, c.p.c. e comunemente interpretata.

Il primo motivo è inammissibile.

Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. 7 aprile 2014, n. 8053) hanno chiarito che la nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., applicabile, ratione temporis, al presente giudizio, impone che ciò che debba essere oggetto di denuncia come vizio specifico denunciabile per cassazione ai sensi di detta disposizione, sia l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo, nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia, avendo altresì precisato che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Nel caso di specie l’elemento noto da cui muovere ai fini del ragionamento inferenziale è costituito dalla differenza, al ribasso, rispetto al prezzo, del prezzo definitivo rispetto a quello dei rispettivi preliminari, riscontrata in tre su quattro operazioni di compravendita precedute appunto da preliminare sulle nove compiute nell’anno di verifica.

Orbene, detto fatto storico è stato esaminato dalla sentenza impugnata, che lo ha ritenuto insufficiente a legittimare la conclusione dell’Ufficio, avendo la CTR affermato che «per i contratti cui viene fatto riferimento al compromesso, si deve tener conto del fatto che, di norma, questo atto preliminare viene redatto e sottoscritto su progetto o quando ancora il manufatto è ancora allo stato grezzo, quindi vengono inserite delle opzioni, che poi potrebbero essere lasciate cadere di comune accordo», proseguendo quindi la pronuncia nella disamina delle condizioni che possono giustificare siffatta divergenza.

Ciò rilevato, appare evidente, alla stregua del principio affermato dalle Sezioni Unite come sopra richiamato, che la censura di cui al primo motivo esuli dall’ambito del nuovo art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. finendo l’Amministrazione ricorrente col denunciare non l’omesso esame di fatto storico decisivo per il processo, ma l’insufficienza motivazionale della sentenza, che non avrebbe valutato appieno gli elementi indiziari concorrenti legittimanti l’accertamento presuntivo, come ad esempio l’intrinseca inattendibilità di talune dichiarazioni rese dai terzi acquirenti in sede di contraddittorio endoprocedimentale o il fatto che non fossero assistite da documenti muniti di data certa, ovvero il cattivo esercizio del potere di apprezzamento da parte del giudice tributario della prova presuntiva offerta dall’Ufficio (cfr. anche Cass. sez. 3, 11 aprile 2017, n. 9253; Cass. sez. 3, 10 giugno 2016, n. 11892), la qual cosa non è consentita in sede di legittimità.

Il secondo ed il terzo motivo possono essere congiuntamente esaminati, essendo riferiti alla medesima statuizione della sentenza impugnata.

Essi sono infondati.

In primo luogo, riguardo al secondo motivo, deve precisarsi che l’anomalia motivazionale talmente grave da giustificare la prospettazione del vizio in termini di violazione di legge costituzionalmente rilevante deve riguardare la sentenza nel suo (unitario) percorso logico — giuridico, nel senso cioè che non sia riconoscibile la ratio decidendi sottesa alla pronuncia del giudice di merito (oltre alla già citata Cass. n. 8053/2014, si vedano ancora le ulteriori pronunce delle Sezioni Unite di questa Corte 5 agosto 2016, n.16599 e 22 settembre 2014, n. 19881).

Non è corretto, pertanto, ai fini della prospettazione del vizio, estrapolare dal contesto motivazionale della pronuncia impugnata, che fa riferimento, come si è visto, ad una serie di circostanze, un’unica affermazione, indubbiamente manifestata sul piano prettamente linguistico in forma discutibile, ma non priva in sé di valenza che, nel contesto degli ulteriori elementi presi in considerazione dal giudice tributario d’appello, faccia comprendere la ratio decidendi quanto al diniego dell’effettiva valenza presuntiva dei fatti addotti dall’Ufficio al fine di supportare i maggiori ricavi determinati con l’accertamento induttivo.

Né la critica coglie nel segno in relazione al terzo motivo, sia per il carattere in sé non decisivo del preteso fatto notorio ai fini della decisione assunta, sia perché è da escludersi che la relativa statuizione della CTR sia riconducibile ad opinioni sociologiche meramente soggettive, atteso che la pronuncia impugnata si è limitata in proposito ad evidenziare un dato di fatto largamente condiviso nell’esperienza comune, secondo cui l’erogazione dei finanziamenti immobiliari, prima della crisi economica del sistema bancario derivata dalla crisi dei Subprimes negli USA (2007-2008) di cui tuttora si risentono le conseguenze, fosse più agevole, nel 2005, anno dell’accertamento per cui è causa, di quanto non lo sia stato successivamente.

Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1- quater del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge, se dovuti.