Prassi - MINISTERO FINANZE - Risoluzione 14 maggio 2018, n. 2/DF

Imposta comunale sulla pubblicità e diritto sulle pubbliche affissioni (ICPDPA) - Aumenti tariffari ex art. 11, comma 10 della legge n. 449 del 1997, abrogati dall’art. 23, comma 7, del D. L. n. 83 del 2012 - Norma interpretativa di cui all’art. 1, comma 739 della legge n. 208 del 2015 - Sentenza della Corte Costituzionale del 10 gennaio 2018, n. 15

 

Con la nota in riferimento, è stato chiesto un parere in ordine a quanto sancito dalla Corte Costituzionale nella sentenza del 10 gennaio 2018, n. 15, al fine di chiarire gli effetti dell’intervenuta abrogazione della facoltà di disporre gli aumenti dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni (ICPDPA) di cui al capo I del D. Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, sulle tariffe applicate dalle amministrazioni comunali e prorogate in forma espressa o tacita a partire dal 2013, vale a dire successivamente alla data di entrata in vigore della disposizione abrogatrice di cui all’art. 23, comma 7 del D. L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134.

In merito, è opportuno precisare preliminarmente che la Corte Costituzionale è stata investita, con ordinanza del 1° febbraio 2017, dalla Commissione tributaria provinciale di Pescara della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 739, della legge 28 dicembre 2015, n. 208 in riferimento agli artt. 3, 23, 53, 97, 102, 114, 117, sesto comma, in relazione all’art. 4, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131 e 119 della Costituzione.

Nello specifico, la disposizione oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, contenuta nel citato comma 739 dell’art. 1 della legge n. 208 del 2015, prevede che "l'articolo 23, comma 7, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, nella parte in cui abroga l'articolo 11, comma 10, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, relativo alla facoltà dei comuni di aumentare le tariffe dell'imposta comunale sulla pubblicità, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 1 della legge 27 luglio 2000, n. 212, si interpreta nel senso che l'abrogazione non ha effetto per i comuni che si erano già avvalsi di tale facoltà prima della data di entrata in vigore del predetto articolo 23, comma 7, del decreto-legge n. 83 del 2012". Quest’ultima norma ha stabilito che "[d]alla data di entrata in vigore del presente decreto-legge sono abrogate le disposizioni di legge indicate dall'allegato 1, fatto salvo quanto previsto dal comma 11 del presente articolo".

E’ stata, pertanto, per quanto di interesse, sancita l’abrogazione delle disposizioni di cui agli artt. 9 e 11 della legge n. 449 del 1997 (Allegato 1, punto 30), e quindi anche del controverso comma 10 dell’abrogato art. 11, il quale prevedeva che "[l]e tariffe e i diritti di cui al capo I del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, e successive modificazioni, possono essere aumentati dagli enti locali fino ad un massimo del 20 per cento a decorrere dal 1° gennaio 1998 e fino a un massimo del 50 per cento a decorrere dal 1° gennaio 2000 per le superfici superiori al metro quadrato, e le frazioni di esso si arrotondano al mezzo metro quadrato".

L’abrogazione di detta norma ad opera dell’art. 23, comma 7 del D. L. n. 83 del 2012 ha quindi determinato la cessazione ex nunc dei suoi effetti giuridici.

Con la sentenza in esame n. 15 del 2018 la Corte Costituzionale ha dichiarato infondate le questioni sollevate, sulla base delle motivazioni di seguito esposte (NOTA 1) e dalle quali emerge la certezza e la chiarezza del quadro normativo di riferimento.

Ed invero, la Corte Costituzionale nella predetta sentenza ha disposto che "[c]iò premesso, non è corretta l’interpretazione [del Giudice remittente N.D.R.] dell’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015, secondo cui esso ripristinerebbe retroattivamente la potestà di applicare maggiorazioni alle tariffe per i Comuni che, alla data del 26 giugno del 2012, avessero già deliberato in tal senso. La disposizione, invece, si limita a precisare la salvezza degli aumenti deliberati al 26 giugno 2012, tenuto conto, tra l’altro, che a tale data ai Comuni era stata nuovamente attribuita la facoltà di deliberare le maggiorazioni. Era dunque ben possibile che essi avessero già deliberato in tal senso. Di qui la necessità di chiarire gli effetti dell’abrogazione disposta dal d. l. n. 83 del 2012, precisando che la stessa non poteva far cadere le delibere già adottate e che il 26 giugno del 2012 era il termine ultimo per la validità delle maggiorazioni disposte per l’anno d’imposta 2012.

Si tratta, quindi, effettivamente di una disposizione di carattere interpretativo, tesa a chiarire il senso di norme preesistenti ovvero escludere o enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo (sentenze n. 132 del 2016, n. 127 del 2015, n. 314 del 2013, n. 15 del 2012 e n. 311 del 1995). La scelta legislativa, allora, rientra «tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore (ex plurimis: sentenze n. 314 del 2013, n. 15 del 2012, n. 271 del 2011 e n. 209 del 2010)» (sentenza n. 132 del 2016).

Nulla dice il comma 739, invece, sulla possibilità di confermare o prorogare, successivamente al 2012, di anno in anno, le tariffe maggiorate.

Tale facoltà di conferma, esplicita o tacita, delle tariffe, consentita da altra disposizione, non potrebbe tuttavia estendersi a maggiorazioni disposte da norme non più vigenti, come aveva sancito la sentenza del Consiglio di Stato, sezione quinta, 22 dicembre 2014, n. 6201, in riferimento all’art. 23, comma 7, del d.l. n. 83 del 2012, ritenendo che anche il potere di conferma, tacita o esplicita, in quanto espressione di potere deliberativo, debba tener conto della legislazione vigente. Dunque, venuta meno la norma che consentiva di apportare maggiorazioni all’imposta, gli atti di proroga tacita di queste avrebbero dovuto ritenersi semplicemente illegittimi, perché non poteva essere prorogata una maggiorazione non più esistente. Sotto tale profilo, la disposizione oggetto di censura nulla aggiunge.

L’intervento interpretativo, infatti, non introduce alcun doppio regime impositivo e non crea perciò ingiustificate disparità di trattamento tra i Comuni, né pregiudica la progressività insita nella suddivisione degli stessi in diverse fasce, ai fini della determinazione dell’imposta, rientrando invece nei limiti di quella ragionevolezza che deve caratterizzare anche le disposizioni d’interpretazione autentica (ex multis, sentenze n. 132 del 2016, n. 69 del 2014, n. 271 del 2011, n. 234 del 2007, n. 229 del 1999 e n. 311 del 1995)".

La Corte Costituzionale ha dunque chiarito che la norma interpretativa impugnata - ovverosia l’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015 - si è limitata a precisare "la salvezza degli aumenti deliberati al 26 giugno 2012", non potendo l’abrogazione disposta dal D. L. n. 83 del 2012 "far cadere le delibere già adottate", essendo "il 26 giugno del 2012 [...] il termine ultimo per la validità delle maggiorazioni disposte per l’anno d’imposta 2012".

Il comma 739 in esame ha, pertanto, solamente specificato gli effetti dell’abrogazione disposta dall’art. 23 del D. L. n. 83 del 2012 che si producono a far data dall’entrata in vigore dello stesso provvedimento. Non è stato quindi introdotto alcun doppio regine impositivo né sono state create ingiustificate disparità di trattamento.

Anzi la Corte ha inteso evidenziare che il comma 739 non ha disposto nulla in merito alla possibilità di confermare o prorogare, successivamente al 2012, di anno in anno, le tariffe maggiorate; a questo proposito appare oltremodo significativo il richiamo, effettuato dalla Corte stessa, alla sentenza del Consiglio di Stato n. 6201 del 2014, in riferimento all’art. 23, comma 7, del D. L. n. 83 del 2012. La Corte Costituzionale, dunque, rinvia al principio di diritto enucleato dal giudice amministrativo nella predetta pronuncia, secondo cui "anche il potere di conferma, tacita o esplicita, in quanto espressione di potere deliberativo, debba tener conto della legislazione vigente".

Tale ulteriore passaggio è di fondamentale importanza dato che la Corte ha inteso chiarire, valorizzando quanto sostenuto dal Consiglio di Stato nella citata sentenza n. 6201 del 2014, che dalla data di entrata in vigore del D. L. n. 83 del 2012 tutti gli atti di proroga anche tacita delle maggiorazioni devono ritenersi illegittimi, non potendo essere prorogata una maggiorazione non più esistente.

Da quanto sopra esposto risulta di tutta evidenza che il 26 giugno 2012 è la data che segna lo spartiacque tra il vecchio e il nuovo regime.

Conseguentemente, una delibera esplicita approvativa o confermativa delle maggiorazioni in questione, adottata entro il 26 giugno 2012, legittima la richiesta di pagamento delle stesse da parte dell’ente locale; diversamente, una delibera approvativa o confermativa emessa in data successiva a quella predetta non può che ritenersi illegittima, essendo venuta meno - a seguito dell’intervento abrogativo disposto dall’art. 23, comma 7 del D. L. n. 83 del 2012 - la norma di cui all’art. 11, comma 10 della legge n. 449 del 1997, attributiva del potere di disporre gli aumenti tariffari.

Le stesse considerazioni devono estendersi anche al caso di proroga tacita delle tariffe, posto che per l’anno 2012 il termine ultimo di approvazione del bilancio di previsione era stato prorogato al 31 ottobre 2012; per cui solo se il bilancio fosse stato approvato entro il 26 giugno 2012, il comune poteva legittimamente richiedere il pagamento delle maggiorazioni.

In ogni caso, occorre far riferimento alla disciplina particolare che regola le varie fattispecie dell’imposta o del diritto.

Da quanto appena illustrato, è evidente che a partire dall’anno di imposta 2013 i comuni non erano più legittimati a introdurre o confermare, anche tacitamente, le maggiorazioni in questione.

 

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 (1) Per completezza, si fa presente che la Commissione tributaria provinciale di Pescara, sezione prima, si è conformata al dictum della Consulta con sentenza del 12 marzo 2018, n. 134, dichiarando l’illegittimità dell’avviso di accertamento in rettifica relativo all’anno di imposta 2015 e disponendo la restituzione alla società ricorrente di quanto pagato al Comune in eccedenza rispetto alle tariffe di cui al D. Lgs. n. 507 del 1993.