Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 03 novembre 2016, n. 22318

Pensione di reversibilità - Convivente "more uxorio"

Svolgimento del processo

 

Si controverte del diritto di M.C. ad usufruire o meno della reversibilità della pensione di inabilità della quale era titolare la convivente "more uxorio" S.F., a seguito di domanda inoltrata all'Inps il 3 maggio 2005 successivamente al decesso della compagna.

Con sentenza dell'1/7 - 14/12/2009, la Corte d'appello di Roma, nel confermare la sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda del C., ha rigettato l'impugnazione proposta da quest'ultimo dopo aver rilevato che l'attuale sistema previdenziale non prevede una pensione di reversibilità in favore del convivente "more uxorio" e dopo aver escluso l'appartenenza del trattamento in questione al novero dei diritti inviolabili dell'uomo, con conseguente insussistenza di profili di incostituzionalità della disciplina vigente.

Per la cassazione della sentenza ricorre il C. con due motivi.

Resistono con controricorso l'Inps ed il Ministero dell'Economia e delle Finanze.

Il ricorrente e l'Inps depositano memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1. Col primo motivo il ricorrente, nel lamentarsi della esclusione della riconoscibilità della pensione di reversibilità al convivente more uxorio, evidenzia che attraverso lo strumento interpretativo l'autorità giudiziaria può, in armonia con lo sviluppo sociale e nel rispetto dei parametri costituzionali, oltrepassare ciò che non è specificamente previsto, offrendo a tutti gli individui forme di tutela e garanzia nel godimento dei diritti e nell'esplicarsi dei doveri, anche in virtù dell'obbligo costituzionale di interpretazione conforme dell'ordinamento nazionale ai principi internazionali richiamati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo nella lettura fornitane dalla Corte Europea di Strasburgo, il cui rispetto è imposto dall'art. 117 della Costituzione.

Al riguardo il ricorrente cita diverse disposizioni di legge che, a suo giudizio, offrirebbero all'interprete spunti di riflessione per enucleare dal sistema normativo vigente elementi utili al riconoscimento del diritto invocato nella sussistenza della accertata stabilità della convivenza "more uxorio" e nell'ambito della tutela approntata dall'ordinamento alla famiglia di fatto, come ad esempio la legge n. 54 dell'8/2/2006 in materia di separazione dei genitori e di affidamento condiviso dei figli, gli artt. 330, 342-bis e 417 cod. civ., l'art. 4 della legge n. 53/2000, l'art. 30 della legge n. 354/1975, l'art. 815 c.p.c., l'art. 609-quater cod. pen., l'art. 199 cod. proc. pen., il d.lgs n. 151/2001 art. 53, l'art. 1 della I. n. 405/75, l'art. 3 della I. n. 91/1999, la legge n. 40/2004, gli artt. 24, 26, 43, 82 e 105 del d.lvo n. 196/2003, nonché gli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo. Quindi, secondo il ricorrente, non sussisterebbe alcuna ragionevole giustificazione in base alla quale l'assegno di reversibilità dovrebbe essere riconosciuto al coniuge legittimo e non al convivente "more uxorio" che avesse intrapreso una relazione stabile e duratura, fondata sull'affetto reciproco e sulla continua assistenza morale e materiale.

2. Col secondo motivo il ricorrente deduce l'illegittimità costituzionale dell'art. 13 del Regio decreto-legge n. 636 del 14.4.1939, convertito con modificazioni nella legge 6.7.1939 n. 1272 e successive modifiche, in relazione agli artt. 2 e 3 della Costituzione, nella parte in cui non include tra i beneficiari della pensione di reversibilità il convivente more uxorio, nonché in relazione all'art. 117 Cost., per il combinato disposto degli artt. 8 e 14 e dell'art. 1 del Protocollo n. 1 e dell'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, alla luce delle sentenze nn. 348 e 349 del 24 ottobre 2007 della Corte Costituzionale.

Osserva la Corte che il primo motivo è inammissibile in quanto lo stesso non ha per oggetto una specifica denunzia di violazione di legge in cui sarebbero incorsi i giudici di merito nel momento in cui hanno respinto la domanda, ma semplicemente la doglianza per il fatto che questi ultimi non si sarebbero posti il problema di interpretare nel loro insieme le norme sopra indicate, che a giudizio del ricorrente avrebbero potuto fare da supporto alla domanda, al fine di accertare la fondatezza della pretesa azionata in giudizio. In sostanza il ricorrente imputa ai giudici d'appello di non aver adeguatamente esercitato il loro potere interpretativo in ordine alle disposizioni di legge che a suo giudizio delimitavano l'ambito normativo in cui poter ricercare le ragioni della fondatezza della domanda, ma in tal modo il medesimo finisce per addebitare agli stessi giudici una sorta di mancata indagine normativa di tipo ricognitivo che avrebbe dovuto tendere all'accertamento del diritto azionato in giudizio, senza indicare, tuttavia, quale sarebbe stato l'errore dai medesimi commesso nel seguire il ragionamento interpretativo logico-giuridico che li aveva indotti a ritenere infondata la domanda e quale avrebbe dovuto essere la specifica regula iuris alla quale gli stessi avrebbero dovuto attenersi.

Infatti, la Corte d'appello ha chiaramente affermato che l'attuale sistema previdenziale non prevede una pensione di reversibilità in favore del convivente more uxorio e che la convivenza rileva nel nostro ordinamento ad altri fini, aggiungendo che il rispetto dell'art. 29 della Costituzione, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale, impedisce un'assimilazione totale tra il convivente more uxorio ed il coniuge, cui solo compete la pensione di reversibilità in virtù di un effettivo rapporto giuridico preesistente. Nel contempo la Corte d'appello di Roma ha anche posto in rilievo che la Convenzione Europea, nell'affermare in via di principio l'inesistenza di differenze tra la famiglia legittima e quella di fatto, ha perseguito lo scopo precipuo di eliminare discriminazioni afferenti i diritti fondamentali della persona, fra i quali non può ricomprendersi il diritto alla pensione di reversibilità.

A tal riguardo è interessante rilevare che la Corte di Giustizia Europea, nel pronunciarsi con ordinanza emessa nel procedimento C-217/08 - avente ad oggetto una controversia tra una cittadina italiana che agiva in proprio nome e in quanto titolare della potestà genitoriale sul figlio minore nei confronti dell'Inail che le aveva negato l'attribuzione di una rendita in seguito al decesso del suo convivente, vittima di un infortunio sul lavoro - ha stabilito che per quanto concerne l'art. 13 CE, tale norma attribuisce al Consiglio dell'Unione europea il potere di prendere provvedimenti per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali e, sulla base di tale articolo, è stata adottata la direttiva 2000/78 al fine di stabilire, conformemente ai suoi artt. 1 e 2, un quadro generale per la lotta alle discriminazioni dirette o indirette fondate sulla religione o sulle convinzioni personali, sugli handicap, sull'età o sulle tendenze sessuali. Nella stessa ordinanza si legge che, tuttavia, secondo la giurisprudenza della Corte, l'art. 13 CE non è di per sé idoneo a collocare nell'ambito di applicazione del diritto comunitario, allo scopo di vietare qualsiasi discriminazione fondata sull'età, situazioni che non rientrano nell'ambito delle misure adottate sulla base di detto articolo e, in particolare, della direttiva 2000/78. Invero, si è chiarito che l'ambito di applicazione di tale direttiva non può, tenuto conto della formulazione dell'art. 13 CE, essere esteso al di là delle discriminazioni fondate sui motivi elencati tassativamente all'art. 1 di tale direttiva al fine di dare attuazione, negli Stati membri, al principio della parità di trattamento, per cui il diritto comunitario non contiene un divieto di qualsiasi discriminazione di cui i giudici degli Stati membri devono garantire l'applicazione allorché il comportamento eventualmente discriminatorio non presenta alcun nesso con il diritto comunitario.

E', inoltre, infondato il secondo motivo col quale è denunziata la illegittimità costituzionale dell'art. 13 del R.D. n. 636/1939 sulla pensione di reversibilità.

Invero, la Corte Costituzionale ha già avuto modo di pronunziarsi a tal riguardo con la sentenza n. 461 del 2000 nella quale si è statuito quanto segue: "Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636, convertito nella legge 6 luglio 1939, n. 1272 e dell'art. 9, secondo e terzo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (come sostituito dall'art. 13 della legge 6 marzo 1987, n. 74), impugnati, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, nella parte in cui non includono il convivente "more uxorio" tra i soggetti beneficiari del trattamento pensionistico di riversibilità, anche quando la convivenza abbia acquistato gli stessi caratteri di stabilità e certezza propri del vincolo coniugale. Infatti, la mancata inclusione del convivente "more uxorio" tra i soggetti beneficiari del trattamento pensionistico di riversibilità trova una sua non irragionevole giustificazione nella circostanza che il suddetto trattamento si collega geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico che, nel caso considerato, manca. Ne consegue che la diversità delle situazioni poste a raffronto giustifica una differenziata disciplina delle stesse. Nemmeno può dirsi violato il principio di tutela delle formazioni sociali in cui si sviluppa la persona umana in quanto la riferibilità del suddetto principio alla convivenza di fatto "purché caratterizzata da un grado accertato di stabilità" - più volte affermata da questa Corte - non comporta un necessario riconoscimento al convivente del trattamento pensionistico di riversibilità (che non appartiene certo ai diritti inviolabili dell'uomo presidiati dall'art. 2 Cost.)."

D'altra parte, come puntualmente evidenziato dalla difesa dell'Inps, neppure rileva nel caso di specie l'entrata in vigore, in data 5.6.2016, della legge n. 76 del 20 maggio 2016, contenente la regolamentazione delle unioni civili tra le persone dello stesso sesso e la disciplina delle convivenze, atteso che tale nuova normativa, valida solo per il futuro, non prevede in favore del convivente "more uxorio" la pensione di reversibilità, a differenza dell'ampia previsione dei trattamenti riconosciuti al ventesimo comma dell'art. 1 alla parte della "unione civile" disciplinata nelle forme previste dalla stessa legge.

In definitiva, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di € 3600,00 nei confronti dell'Inps, di cui € 3500,00 per compensi professionali, e di € 2600,00 nei confronti del Ministero dell'Economia e delle Finanze, di cui € 2500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.