Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 31 ottobre 2017, n. 25967
Fondo di previdenza aziendale - Liquidazione coatta amministrativa - Crediti vantati dai lavoratori - Fondo costituito senza contribuzione dei prestatori di lavoro - Responsabilità diretta e non solidale del datore di lavoro
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 21.3.2011, la Corte d'appello di Genova, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, condannava la Fondazione Teatro C.F. di Genova a corrispondere, per quanto qui rileva, a L.D., C.L., A.L., F.T., D.Z. e M.G. somme per crediti da loro vantati nei confronti del Fondo di previdenza integrativa in favore del Personale dell'Ente Autonomo Teatro Comunale dell'Opera di Genova, i quali non erano stati (ancora) pagati nell'ambito della procedura di liquidazione coatta amministrativa cui il Fondo stesso era stato sottoposto.
La Corte, per quanto qui interessa, avallava il ragionamento del primo giudice in ordine alla natura non autonoma del Fondo rispetto alla Fondazione e ne confermava la statuizione anche per ciò che concerneva la responsabilità diretta (e non già solidale) della Fondazione per i debiti del Fondo medesimo.
Contro tale pronuncia ricorre la Fondazione Teatro C.F. con due motivi, il secondo dei quali svolge in realtà plurimi profili di censura.
L.D., C.L., A.L., F.T., D.Z. e M.G. resistono con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione dell'art. 100 c.p.c., nonché vizio di motivazione, per avere la Corte di merito ritenuto l'ammissibilità dell'azione degli odierni controricorrenti nonostante che, non essendosi ancora chiusa la procedura di liquidazione coatta amministrativa del Fondo di previdenza, il preteso credito da loro vantato (e pari alla differenza tra l'importo ammesso al passivo e le somme ricevute in occasione del primo riparto parziale) fosse soltanto eventuale ed ipotetico.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione degli artt. 38, 2117, 2740 e 1294 c.c., nonché vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale ritenuto che il Fondo di previdenza non costituisse associazione non riconosciuta e che la Fondazione, in quanto datore di lavoro, dovesse rispondere dei suoi debiti con il proprio patrimonio.
Deduce altresì nullità della sentenza per ultrapetizione, per avere la Corte di merito affermato la sua responsabilità diretta, laddove gli odierni controricorrenti avevano chiesto esclusivamente di accertarne la responsabilità solidale per i debiti del Fondo.
Tale ultimo motivo viene logicamente in rilievo anteriormente al primo, trattandosi non soltanto di delimitare l'oggetto della domanda, ma altresì di verificare se la sentenza impugnata presenti realmente dei vizi nella parte in cui ha escluso qualsiasi autonomia del Fondo di previdenza rispetto alla Fondazione ricorrente: un problema di interesse ad agire, infatti, può sorgere solo presupponendo che si tratti di soggetti differenti e che, rispetto alle obbligazioni assunte dal Fondo, sussista una responsabilità sussidiaria della Fondazione; diversamente, ci si troverebbe semplicemente in presenza di un'azione di adempimento promossa dal creditore nei confronti del debitore inadempiente, la sussistenza dell'interesse alla quale non potrebbe ovviamente essere revocata in dubbio.
Ciò posto, deve anzitutto escludersi che, nell'affermare la responsabilità diretta e non solo solidale della Fondazione ricorrente, la sentenza impugnata sia incorsa nel vizio di ultrapetizione: vero è che a pag. 5 del ricorso introduttivo del giudizio (debitamente trascritta a pag. 25 del ricorso per cassazione) si legge che la Fondazione sarebbe «obbligata in solido» al soddisfacimento dei crediti vantati dagli odierni controricorrenti nei confronti del Fondo di previdenza, ma non è dubbio che la complessiva argomentazione sviluppata alle successive pagg. 8-9, in cui ci si sofferma sull'assenza di autonomia del Fondo rispetto alla Fondazione, depone nel senso che essi abbiano inteso piuttosto affermare la diretta responsabilità di quest'ultima per i debiti in questione.
Nel resto, tuttavia, il motivo è fondato.
Giova premettere che, come osservato autorevolmente in dottrina, la riconducibilità di un fondo di previdenza aziendale ai c.d. fondi interni, privi di alcuna distinzione rispetto al patrimonio dell'imprenditore (salvo che ai fini di cui all'art. 2117 c.c., ossia al fine di escludere che essi possano essere distratti dal fine per il quale sono destinati e possano formare oggetto di esecuzione da parte dei creditori del datore o del prestatore di lavoro), postula che detto fondo sia costituito senza contribuzione dei prestatori di lavoro: solo in questo caso, infatti, il fondo può assumere la veste di patrimonio separato e dunque costituire - come già rilevato da Cass. n. 3630 del 2002 - una garanzia ulteriore rispetto a quella prevista dall'art. 2740 c.c., giacché il fenomeno della separatio bonorum si verifica tipicamente allorché entro la sfera di uno stesso soggetto giuridico si costituiscono nuclei patrimoniali autonomi e insensibili l'uno alle vicende dell'altro.
Diverso discorso, tuttavia, deve farsi con riguardo ai fondi che, pur non essendo dotati di personalità giuridica, risultino anche dalla contribuzione dei prestatori di lavoro. Posto infatti che un patrimonio separato può configurarsi solo allorché un insieme di rapporti giuridici patrimoniali attivi e passivi facenti capo ad un unico titolare vengano unificati in vista di una peculiare destinazione, è agevole rilevare che il presupposto dell'unicità del titolare difetta strutturalmente laddove il fondo sia alimentato dai contributi dei lavoratori, giacché in questo caso la massa patrimoniale risulta costituita dall'apporto di più soggetti.
Conseguentemente, rispetto a tali fondi, non è configurabile alcuna titolarità esclusiva da parte del datore di lavoro: egli non può godere e disporre dei relativi beni e su di lui grava, semmai, un obbligo di corretta amministrazione, in modo che sia garantita la destinazione impressa al patrimonio.
Proprio per ciò, fondi del genere si prestano ad essere inquadrati più propriamente nell'alveo delle associazioni non riconosciute (cfr. in tal senso Cass. n. 2492 del 1982): si tratta infatti di patrimoni che hanno quale substrato una soggettività distinta da quella del datore di lavoro, ossia un centro autonomo di imputazione di rapporti giuridici, che come tale risponde autonomamente delle obbligazioni assunte, salva la responsabilità personale e sussidiaria di coloro che hanno agito in suo nome e per suo conto (art. 38 c.c.). E proprio per ciò, è solo rispetto a tali fondi che va senz'altro ribadito il principio secondo cui l'obbligo di prestazione previdenziale o assistenziale grava sul fondo e non sul datore di lavoro (Cass. n. 7755 del 2003): argomentare diversamente, ossia estendere tale principio anche ai fondi costituiti senza contribuzione dei lavoratori, equivarrebbe a trasformare la garanzia apprestata dall'ordinamento mediante l'art. 2117 c.c. in una limitazione indebita della responsabilità patrimoniale del debitore prevista dall'art. 2740 c.c., la cui portata generale non può viceversa soffrire eccezioni che non siano ricavabili dalla legge.
Ciò posto, è agevole osservare che la Corte territoriale, nell'attribuire al Fondi di previdenza natura di fondo interno, ha precisamente omesso di considerare il fatto che, secondo quanto è dato desumere dalla sentenza impugnata (cfr. pagg. 9-10), esso è stato costantemente alimentato anche dai contributi dei lavoratori, il che l'ha logicamente portata a non attribuire alcun rilievo alla successiva formalizzazione del rapporto associativo giusta atto notarile del 17.4.1997 (formalizzazione, peraltro, non necessaria in precedenza, ben potendo un vincolo associativo risultare per facta concludentia, ma resa obbligatoria a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 18, d.lgs. n. 124/1993). E non v'ha dubbio che la mancata considerazione di tale fatto, che indubbiamente riveste efficacia potenzialmente decisiva, non può che viziare l'opzione della Corte territoriale a favore della ricostruzione assunta in sentenza, il vizio di motivazione consistendo precisamente nel non avere il giudice considerato un altro fatto che rendeva possibile un'altra opzione (così, da ult., Cass. n. 7916 del 2017).
Conseguentemente, assorbito il primo motivo, la sentenza impugnata va cassata e la causa va rinviata per nuovo esame alla Corte d'appello di Genova, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Accoglie per quanto di ragione il secondo motivo di ricorso, assorbito il primo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d'appello di Genova, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.