Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 22 dicembre 2017, n. 30857

Nesso causale tra patologia ed esposizione all'amianto sotto il profilo della quantità e durata dell'esposizione - Condotta colposa di omissione delle misure di sicurezza - Non adeguata informazione ed istruzione dei lavoratori circa l'uso dei dispositivi di sicurezza - Liquidazione di una rendita in favore del de cuius da parte dell'Inail - Danno biologico differenziale a carico del datore di lavoro - Risarcimento che eccede l'indennizzo dovuto in base all'assicurazione obbligatoria, ove il fatto costituisca reato perseguibile d'ufficio - Sussiste - Differenza rispetto alla rendita erogata dall'Inail ai superstiti che esclude la copertura assicurativa alla componente di danno biologico

Fatti di causa

 

1. Il Tribunale di Bergamo condannò la N.S. s.r.l. al pagamento in favore degli eredi di L.B., dipendente della società dal 1963 al 1993 deceduta per un mesotelioma del peritoneo, della somma di € 435.000,00 in relazione al danno non patrimoniale sofferto in vita dalla B. ed al pagamento della somma di € 225.000,00 ciascuno in favore di P. e L.B. e di € 150.000,00 in favore di D.B. per il danno non patrimoniale da essi sofferto in conseguenza del decesso della loro congiunta (moglie e madre).

2. La Corte di appello di Brescia, investita del gravame da parte della società, ha:

- confermato la legittimazione passiva della società ed il nesso causale tra il mesotelioma del peritoneo e l'esposizione all'amianto sotto il profilo della quantità e durata dell'esposizione;

- ritenuto provata la condotta colposa di omissione delle misure di sicurezza sia sotto il profilo della mancata riduzione della polverosità dell'ambiente di lavoro, non essendo state predisposte idonee misure di sicurezza per abbattere la polverosità degli ambienti e ridurre l'esposizione alle fibre di amianto con l'installazione di aspiratori efficaci, sia in relazione alla mancata imposizione di dispositivi di protezione individuale, alla pulizia dei locali delle attrezzature e degli impianti ed alla tempistica nella sostituzione di filtri e maschere;

- accertato che non era stata apprestata una adeguata informazione ed istruzione dei lavoratori circa l'uso dei dispositivi di sicurezza, quando pure erano stati messi a disposizione dei lavoratori. Il giudice di appello ha infatti riscontrato che l'adozione dei presidi di sicurezza era stata solo suggerita e non imposta e che, di fatto, era emerso che in concreto non erano utilizzati;

- escluso che la società, sulla quale gravava il relativo onere probatorio, avesse offerto la prova dell'esistenza di cause extralavorative alle quali collegare l'insorgenza della malattia;

- riconosciuto ai ricorrenti iure ereditario il danno conseguente alla consapevolezza, da parte della lavoratrice loro dante causa, della gravità della patologia e dell'approssimarsi della morte, liquidando a titolo di danno biologico, esistenziale e morale la somma di € 299.000,00 oltre interessi legali sulla somma annualmente devalutata a decorrere dalla diagnosi del 14.8.2002 ed utilizzando quale parametro la misura massima dell'inabilità temporanea (€ 1300,00 al giorno) e moltiplicandola per la durata della malattia (230 giorni);

- rigettato le censure che investivano il danno non patrimoniale riconosciuto ai congiunti (marito e figli) che ha ritenuto provato presuntivamente e correttamente liquidato anche con riguardo al calcolo degli accessori.

3. Per la cassazione della sentenza ricorre la N.S. s.r.l. ed articola nove motivi ulteriormente illustrati con memoria cui resistono con controricorso B. P., B.D. e B.L..

 

Ragioni della decisione

 

4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata l'omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo per il giudizio in relazione all'art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ., nel testo antecedente le modifiche apportate dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012.

4.1. Espone la ricorrente di avere eccepito, sin dal primo grado, la propria carenza di legittimazione passiva sulle domande di risarcimento del danno biologico iure hereditatis per essere legittimato l'Inail ai sensi del d.lgs. 23 febbraio 2000 n. 38.

4.2. Sottolinea che in appello era stato evidenziato che il Tribunale aveva trascurato che era stata documentata la liquidazione di una rendita da parte dell'Istituto assicurativo, ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, e che nella componente danno biologico era compresa la liquidazione del danno esistenziale, morale. A fronte di tale specifico rilievo la Corte di appello non avrebbe spiegato perché tali voci di danno non erano comprese nella liquidazione del danno biologico e non rientravano nelle tabelle ministeriali emesse in applicazione del citato art. 13.

5. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell'art. 13 d.lgs. 23 febbraio 2000 n. 38 per non avere considerato il giudice di appello che nel danno biologico disciplinato dalla citata disposizione rientrano tutti i danni alla persona e non solo quello alla salute.

5.1. Ad avviso della società ricorrente in tal senso depone, oltre al tenore letterale della disposizione, anche l'interpretazione datane dalla giurisprudenza della cassazione che ha differenziato II danno liquidato dall'INAIL prima del d.lgs. n. 38 del 2000 da quello liquidato successivamente a tale data, comprensivo del danno biologico inteso come danno alla persona nella sua globalità con esonero di responsabilità del datore di lavoro.

5.2. Rileva ancora che la definizione di danno biologico prevista dall'art. 13 è sostanzialmente analoga a quella prevista dagli artt. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni (d. Igs. n. 209 del 2005) che individuano il danno biologico nella lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona con riflessi sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla capacità di reddito.

6. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell'art. 13 d.lgs. 23 febbraio 2000 n. 38 e dell'art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965 sempre in relazione all'art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ..

6.1. Sostiene la ricorrente che la sentenza della Corte di appello, nel ritenere persistente la responsabilità del datore di lavoro, avrebbe violato il ricordato art. 13 in base al quale il danno deve essere liquidato in base alle tabelle delle menomazioni comprensive degli aspetti dinamico relazionali. Il legislatore avrebbe posto a carico dell'INAIL una liquidazione globale di tal che non vi sarebbero elementi per ritenere che di seguito a tali modifiche legislative il danno biologico liquidato dall'INAIL indennizzerebbe solo una parte del pregiudizio con un residuo danno differenziale da porre a carico dell'INAIL.

7. Con il quarto motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. per avere la Corte d'appello ritenuto esaustiva la consulenza medica che, invece, non aveva risposto al quesito postole, così sopperendo la Corte alle lacune dell'elaborato peritale.

7.1. Evidenzia inoltre che il giudice di appello non ha tenuto nella dovuta considerazione il fatto che il consulente, con valutazione astratta, è pervenuto al convincimento che l'esposizione, se pure c'era stata, era stata minima poiché non erano state rinvenute tracce di quelle patologie che conseguono ad esposizioni più consistenti.

7.2. Sottolinea che la consulenza - nel dare atto dell'esistenza di due distinti periodi di esposizione, il primo quale filatrice dal 1958 al 1963 ed il secondo presso la convenuta, ciascuno causalmente idoneo a determinare la malattia - ha evidenziato che una volta avvenuta la contaminazione questa diviene irreversibile, con conseguente irrilevanza di ulteriori contaminazioni. In tal modo, ad avviso della società ricorrente, non sarebbero stati offerti al giudice elementi di certezza per ricondurre alla N.S. la responsabilità per la malattia. In relazione alla compatibilità del periodo di latenza con la responsabilità di entrambe le società,infatti, erroneamente la Corte avrebbe escluso la responsabilità della prima società tessile (per la quale la B. aveva lavorato dal 1958 al 1963) così confondendo la latenza minima (15 anni) con quella media (30-40 anni) ed affermando, contro ogni logica medico scientifica, che la dose innescante doveva essere differita ad un periodo successivo al 1963.

8. Con il quinto motivo di ricorso è poi denunciata l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ..

8.1. Sostiene la ricorrente che la Corte territoriale avrebbe utilizzato strumentalmente la consulenza in alcune sue affermazioni, salvo poi disattenderne altre, per ritenere dimostrato il nesso causale tra la patologia da cui era affetta la B. e l'ambiente di lavoro in cui aveva lavorato presso la N.S. s.r.l. e non aveva però spiegato perché aveva aderito ad una e non all'altra delle due tesi prospettate dal consulente.

8.2. Sottolinea che alla luce dell'orientamento più recente della Cassazione in sede penale (sentenze n. 43786 e 38991 del 2010) ciò che deve essere privilegiato ai fini della sussistenza del nesso causale è l'utilizzazione di un criterio di probabilità logica, accanto a quello di probabilità statistica, rispetto al quale il giudice è tenuto a motivare in modo idoneo la sussistenza di una responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio.

8.3. Al contrario, secondo la ricorrente, la Corte di appello non aveva chiarito perché il mesotelioma sarebbe "dose-correlato" e perché l'esposizione presso la N.S. avrebbe concorso ad anticipare l'evento.

9. Con il sesto motivo di ricorso poi è lamentata la violazione degli artt. 40 e 41 cod. pen. e dell'art. 1292 cod. civ.. Evidenzia la società ricorrente che, una volta accertato il concorso causale tra le due datrici di lavoro, la Corte avrebbe dovuto procedere ad una ripartizione, anche in via equitativa, delle percentuali di responsabilità.

9.1. Sottolinea che nel caso in esame la Corte di merito aveva applicato la nozione di concausa ad una fattispecie in cui, più che a causare la malattia si era semmai concorso ad anticiparne gli effetti e dunque la Società avrebbe dovuto essere chiamata a rispondere solo del maggior danno a lei addebitabile in via esclusiva.

9.2. Evidenzia che erroneamente la Corte di merito aveva ritenuto solidalmente responsabile, in base all'art. 1292 cod. civ., la società convenuta che era tenuta, semmai, solo nei limiti dell'aggravamento delle conseguenze lesive dell'evento lesivo causato da altri.

10. Con il settimo motivo di ricorso è denunciata la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ..

10.1. Sostiene la ricorrente che la sentenza nel ritenere provata la colpa della società avrebbe violato le citate norme in quanto, diversamente da quanto affermato, era contestata la rilevante esposizione ad asbesto della B. di tal che la stessa avrebbe dovuto essere provata. Inoltre, in disparte la situazione ambientale, i ricorrenti avrebbero dovuto provare che la stessa aveva concorso a determinare la malattia.

10.2. Precisa che l'utilizzazione dell'asbesto non era, all'epoca, vietata e la società aveva rispettato i limiti di esposizione ritenuti compatibili e consigliati dalla letteratura scientifica allora disponibile sottolineando che ancor oggi non sarebbe possibile determinare il livello di esposizione al di sotto del quale l'amianto non comporta rischi di malattia.

10.3. Evidenzia che la polverosità dell'ambiente lavorativo, riferita dai testi, non ha alcun rilievo nel determinismo della patologia riscontrata posto che solo l'inalazione di fibre ultrasottili di amianto non visibili (e non della componente cementizia) potevano semmai essere rilevanti.

10.4. Erroneamente, allora, la Corte avrebbe valorizzato indagini e dichiarazioni testimoniali riferite alla polverosità dell'ambiente che, in concreto, non consentivano di valutare l'esposizione nociva della lavoratrice a fibre idonee a causare il mesotelioma svalutando, per altro verso, la circostanza acclarata che nessuna altra patologia asbesto correlata era stata riscontrata.

11. Con l'ottavo motivo di ricorso è denunciata la violazione degli artt. 40 e 41 cod. pen. e dell'art. 2087 cod. civ. in relazione all'art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ.

11.1. Sostiene la società che la sentenza, in seguito all'erronea ricostruzione dei fatti ed all'errata valutazione delle prove, ha ritenuto provato il nesso causale tra l'ambiente lavorativo e la patologia che aveva poi determinato la morte della B. e la conseguente responsabilità della datrice di lavoro in considerazione di una ritenuta prevedibilità e prevenibilità dell'evento.

11.2. Cosi facendo però la sentenza sarebbe incorsa in una errata applicazione delle norme in tema di nesso causale atteso che I' evento, sulla base delle conoscenze tecnico scientifiche dell'epoca, non era prevedibile e dunque non era possibile riconoscere una responsabilità ex art. 2087 cod. civ. della datrice di lavoro posto che ciò che era noto, fino alla fine degli anni ottanta, era la pericolosità dell'amianto in relazione ad elevate esposizioni e non anche nel caso di basse esposizioni tanto che l'uso era in talune ipotesi addirittura imposto ed il rischio di contrarre la malattia non era né prevedibile né prevenibile al momento in cui la condotta è stata posta in essere seppur con una "prognosi postuma".

12. Con l'ultimo motivo di ricorso, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2056, 2059 e 2697 cod. civ. in relazione all'art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ., la S. si duole del fatto che nel liquidare il danno per l'invalidità temporanea si è immotivatamente preso a parametro un importo (€ 1300,00 al giorno) senza considerare che in una percentuale il danno era stato già liquidato essendo stata riconosciuta una rendita alla de cuius, seppure liquidata successivamente al decesso agli eredi. Inoltre ribadisce che a lei poteva essere addebitata a titolo di concausa la comparsa precoce della malattia e dunque le poteva essere imputato solo il danno connesso all'aggravamento. Tali principi dovevano poi essere applicati anche al danno rivendicato iure proprio dagli eredi che, invece, era stato riconosciuto per intero, seppur liquidato in via equitativa, confermando la sentenza di primo grado e senza detrarre la rendita ai superstiti ex art. 85 del T.U. n. 1124 del 1965.

12.1. Da ultimo poi si duole della conferma della sentenza di primo grado nella parte in cui aveva riconosciuto sulle somme spettanti a titolo risarcitorio gli interessi legali sulle somme via via rivalutate, eccezion fatta per quelle attribuite a titolo di risarcimento del danno iure hereditatis per le quali la rivalutazione è stata riconosciuta dalla data della pronuncia. Sostiene la ricorrente che la rivalutazione non era dovuta sulle somme riconosciute a titolo risarcitorio poiché gli importi in base ai quali le somme erano state liquidate in via equitativa (le Tabelle del Tribunale di Milano) erano già rivalutati e comunque, esclusa la natura di credito di lavoro, era onere dei richiedenti allegare e dimostrare l'esistenza di un maggior danno conseguente alla perdita di valore del danaro rispetto agli interessi comunque corrisposti.

13. Tanto premesso ritiene il Collegio che ragioni di ordine logico impongano di trattare con precedenza le censure articolate nei motivi dal quarto all'ottavo che investono, sotto diversi profili, il tema della riferibilità ad una responsabilità della società S. della malattia e del decesso della sua dipendente e si riflettono quindi sul diritto stesso degli eredi ad essere risarciti in tutto o in parte dalla società convenuta in giudizio. Tali censure sono in parte inammissibili ed in parte infondate.

13.1. Laddove infatti ci si duole di un preteso intervento correttivo da parte della Corte di appello in relazione a lacune dell'elaborato peritale del consulente medico, che a dire della società ricorrente non avrebbe risposto al quesito posto in maniera esaustiva (quarto motivo) in realtà si chiede, inammissibilmente, alla Corte di Cassazione di sostituire la valutazione operata dal giudice di merito delle risultanze della consulenza con altra e diversa considerazione dell'incidenza dell'esposizione e del periodo di latenza della malattia.

13.2. Osserva il Collegio che, a fronte di una puntuale e approfondita motivazione da parte della Corte di appello circa I' importanza della esposizione alle polveri nel lungo periodo di lavoro della B. per la S. e l'incidenza di tale esposizione nell'insorgenza della malattia, la censura si risolve in una non consentita diversa valutazione delle risultanze della consulenza.

13.3. Del pari inammissibile è la denunciata insufficienza e contraddittorietà della motivazione conseguente ad un uso strumentale e parziale degli approdi ai quali era pervenuto il consulente medico (quinto motivo). La Corte territoriale ha infatti attentamente ricostruito le ragioni in base alle quali ha ritenuto provato il nesso di causalità tra il mesotelioma e l'esposizione alle polveri di amianto presso la S. spiegando, in maniera esauriente e logica, l'opzione scientifica in base alla quale tale efficienza causale non poteva essere riconosciuta alla possibile e di molto risalente esposizione (dal 1958 al 1963) presso altro datore di lavoro. A fronte di tale coerente e analitica spiegazione la censura si presenta, ancora una volta, come una non consentita richiesta di procedere ad una nuova valutazione dei fatti accertati.

13.4. Quanto all'esistenza di un mero concorso nell' aggravamento della malattia da parte della S. s.r.l. la cui responsabilità era imputabile piuttosto alla precedente e risalente datrice di lavoro va sottolineato che la Corte di merito ha accertato, per il tramite della consulenza, che non vi erano evidenze che dimostrassero l'esistenza di un'esposizione all'amianto presso la prima datrice di lavoro, essendo restato indimostrato che la lavoratrice nello svolgere le mansioni di "filatrice" avesse utilizzato dispositivi contenenti amianto. Tale accertamento di fatto assorbe e rende inutile l'ulteriore argomentazione, sviluppata ad abundantiam dalla Corte territoriale, che ha accertato comunque una responsabilità quanto meno solidale. Ne segue che la censura con la quale ci si duole del riconoscimento della responsabilità solidale non scalfisce il contenuto della decisione che resta integra per effetto del mancato accertamento di una sicura esposizione all'amianto nel primo periodo di lavoro.

13.5. Neppure la sentenza è incorsa nella violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. denunciata nel settimo motivo di ricorso posto che da un canto la violazione dell'art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità non in riferimento all'apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, come pretende di fare l'odierna ricorrente, ma solo sotto due profili: qualora il medesimo, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale (cfr. tra le tante Cass. 11/10/2016 n. 20382).

In sostanza con il ricorso per cassazione non si può porre una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest'ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d'ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. 27/12/2016 n. 27000). Poiché nella specie non solo non si è verificata una tale violazione ma neppure risulta essere stata in tali termini censurata la sentenza pretendendosi invece un diverso e più favorevole apprezzamento delle emergenze istruttorie rispetto alla ricostruzione ampia ed analitica operata dalla Corte di merito, la censura si palesa inammissibile.

13.6. Con riguardo ancora una volta alla violazione degli artt. 40 e 41 cod. pen. e dell'art. 2087 cod. civ. in relazione all'art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ. ed alla pretesa erronea ricostruzione dei fatti ed errata valutazione delle prove con riguardo alla prova dell'esistenza di un nesso causale tra l'ambiente lavorativo e la patologia che aveva poi determinato la morte della B. ed alla conseguente responsabilità della datrice di lavoro in considerazione di una ritenuta prevedibilità e prevenibilità dell'evento va ancora una volta rimarcato che la Corte di merito, con ampia ed approfondita motivazione, ha accertato che negli anni in cui la B. ha prestato servizio presso la S. era ben nota la pericolosità dell'amianto e la correlazione fra esposizione all'amianto e possibilità di contrarre il mesotelioma;del pari ha ritenuto che la elevata polverosità degli ambienti di lavoro in cui era presente l'amianto e la mancanza di misure destinate ad abbattere tale polverosità, doverose ma non attuate, giustificava la correlazione tra la situazione lavorativa e la patologia sviluppata e la conseguente imputazione della responsabilità.

14. Venendo all'esame dei primi tre motivi di ricorso e del nono, laddove si duole della mancata considerazione nella liquidazione del danno iure ereditario della rendita riconosciuta alla lavoratrice, ritiene il Collegio che questi debbano essere trattati congiuntamente e siano fondati per le ragioni che di seguito si espongono.

14.1. Va premesso che, come ripetutamente affermato da questa Corte (cfr. anche recentemente Cass. 14/10/2016 n. 28807), a norma dell' art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ., nella formulazione vigente prima delle modifiche apportate dal d.l. n. 83/2012 ed applicabile ratione temporis in ragione della data di pubblicazione della sentenza d’appello, alla Corte di cassazione non è attribuito il potere di riesaminare e valutare il merito della controversia ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’ esame e la valutazione operata dal giudice del merito. Solo a quest'ultimo compete l'individuazione delle fonti del proprio convincimento, la valutazione delle prove, il controllo dell'attendibilità e della concludenza, e, conclusivamente, la scelta tra le varie risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. Per configurare il vizio di motivazione su un asserito fatto decisivo della controversia, è necessario che si ravvisi un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia tale da far ritenere che quella circostanza, se considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un fatto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, sicché la ratio deriderteli venga a trovarsi priva di base (cfr. oltre a Cass. ult. cit. anche, e tra le tante, Cass. 26/05/2004 n. 10156 e Cass. 24/10/2013 n. 24092). Si è in presenza di una motivazione insufficiente allorché si riscontri una obiettiva carenza nel procedimento logico che ha indotto il giudice del merito, sulla base degli elementi acquisiti, a pervenire al suo convincimento e non anche laddove vi sia una mera difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato da attribuire agli elementi valutati. In tale ultimo caso infatti la censura si risolve in un'inammissibile richiesta di nuova pronuncia sul fatto estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (cfr. oltre alla già citata Cass. n. 28807 del 2016 già Cass. s.u. 25/10/2013, n. 24148).

14.2. Tanto premesso è ammissibile la censura formulata con il primo motivo di ricorso che denuncia l'omessa valutazione, prima da parte del Tribunale e poi anche da parte del giudice di appello, dell'avvenuta liquidazione di una rendita in favore del de cuius da parte dell'Istituto assicurativo, ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000. Tale carenza si riverbera altresì in una errata applicazione dell'art. 13 del citato decreto legislativo.

14.3. Occorre rammentare che per danno differenziale deve intendersi quella parte di risarcimento che eccede l’importo dell'indennizzo dovuto in base all'assicurazione obbligatoria e che resta a carico del datore di lavoro ove il fatto costituisca reato perseguibile d'ufficio. Si tratta di un danno che, pur rientrando nel tipo già considerato dall'assicurazione obbligatoria in ragione del carattere indennitario di questa, può presentare delle differenze di valore monetario rispetto al danno civilistico per la diversa valutazione del grado di inabilità in sede INAIL rispetto a quella operata nel diritto comune, dove il grado di invalidità permanente viene determinato con criteri non imposti dalla legge ma elaborati dalla scienza medico legale, oltre che per il diverso valore del punto di inabilità (cfr. Cass. 10/04/2017 n. 9166 in motivazione).

14.4 Va del pari rammentato che nel calcolo del danno biologico differenziale dall'ammontare complessivo del danno biologico deve essere detratto il valore capitale della quota della rendita costituita dall'INAIL destinata a ristorare il danno biologico.

Nel sistema assicurativo INAIL delineato con il d.lgs. n. 38 del 2000, art. 13, il danno biologico è pacificamente compreso nell'indennizzo e, conseguentemente, per tale voce di danno il datore di lavoro è esonerato da responsabilità civile (Cassazione civile sez. lav., 29 gennaio 2002, n. 1114). Con il decreto legislativo n. 38 del 2000 sono stati innovati i criteri di determinazione dell'indennizzo per invalidità permanente. I danni vengono valutati in base ad una specifica "tabella delle menomazioni" comprensiva degli aspetti dinamico-relazionali prevista dallo stesso testo normativo e successivamente approvata con D.M. del Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale del 12 luglio 2000 (pubblicato nella G.U. del 25 luglio 2000). I postumi dell'infortunio o della malattia, se inferiori al 6% sono in franchigia, non danno diritto ad indennizzo e possono essere eventualmente cumulati con menomazioni provocate da altri eventi infortunistici o malattie professionali. Ove compresi tra il 6% e il 15% vengono considerati danno biologico ed indennizzati in capitale. Se determinano menomazioni dal 16% al 100% danno luogo all' erogazione di una rendita, nella misura indicata nell'apposita "tabella indennizzo danno biologico", di cui allo stesso D.M. 12 luglio 2000. Un'ulteriore quota di rendita è poi commisurata al grado della menomazione, alla retribuzione dell'assicurato e al coefficiente di cui all'apposita "tabella dei coefficienti". L'articolo 13 del d.Igs. n. 38/2000, comma due lettera b) dispone che tali coefficienti "costituiscono indici di determinazione della percentuale di retribuzione da prendere in riferimento per l'indennizzo delle conseguenze patrimoniali, in relazione alla categoria di attività lavorativa di appartenenza dell'assicurato e alla ricollocabilità dello stesso". Nel caso di menomazione indennizzata in rendita, dunque, una quota della rendita indennizza il danno biologico e un'ulteriore quota, rapportata alla retribuzione dell'assicurato ed alla sua capacità lavorativa specifica, indennizza il danno patrimoniale. La liquidazione delle due poste è distinta e deriva dalla applicazione di tabelle diverse: la "tabella indennizzo danno biologico" per il danno biologico e la "tabella dei coefficienti" per il danno patrimoniale. In sostanza I' indennizzo in forma di rendita "ha veste unitaria ma duplice contenuto": con quell'indennizzo, infatti, l'INAIL compensa sia il danno biologico, sia il danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro e di guadagno (cfr. Cass. 26/06/2015 n. 13222).

14.5. Chiarita la distinzione ai fini dell'indennizzo assicurativo delle voci di danno risulta conseguente che tale distinzione deve essere riprodotta nella liquidazione del risarcimento del danno c.d. differenziale. A partire dalle sentenze "gemelle" di questa Corte dell'anno 2003 (Cass. 31/05/2003 nn. 8827 e 8828) si è delineato nel nostro ordinamento, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod.civ., un sistema "bipolare" di risarcimento del danno che ha trovato riconoscimento in successive pronunzie di questa Corte (cfr. tra le altre Cass. 12/07/2006 n. 15760, 20/04/2007 n. 9514 e 27/06/2007 n. 14846) ed un definitivo chiarimento e consacrazione nella sentenza a Sezioni Unite 11 novembre 2008 n. 26972, nella quale si è affermato che la rilettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ., norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell'ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043 cod.civ.) e danno non patrimoniale (art. 2059 cod.civ.).

14.6. Sul piano della struttura dell'illecito le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso giacché il danno patrimoniale "ingiusto", di cui all'art. 2043 cod.civ., deriva dalla lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante laddove la risarcibilità del danno non patrimoniale è connotata da tipicità. L'articolo 2059 cod.civ. statuisce in proposito che tale danno è risarcibile nei soli casi determinati dalla legge, nei quali, in conformità agli indirizzi giurisprudenziali sopra citati, vanno compresi gli eventi di lesione di specifici diritti inviolabili della persona, necessariamente presidiati, alla stregua della costituzione, dalla minima tutela risarcitoria (Cass. s.u. n. 26972 del 2008 cit.). Per il danno non patrimoniale vi è dunque una selezione degli interessi dalla cui lesione consegue la risarcibilità o a livello normativo (allorché è la legge a prevedere la risarcibilità del danno non patrimoniale) o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato a verificare la lesione, alla stregua dei parametri costituzionali, di uno specifico diritto inviolabile della persona. Le ulteriori sottocategorie enucleate dalla giurisprudenza nell'ambito del danno non patrimoniale (danno biologico, danno esistenziale, danno morale, danno da perdita del rapporto parentale ed altre)hanno invece valenza puramente descrittiva del danno conseguenza risarcito ma non individuano autonome categorie di danno.

14.7. La configurazione bipolare del danno, seppure enucleata dalla disciplina dell'illecito aquiliano, rappresenta un sistema di carattere generale, riferibile anche alla responsabilità contrattuale: non si rinvengono disposizioni contrarie negli articoli 1218 e seguenti del codice civile, cui deve essere assicurata una lettura costituzionalmente orientata. Nella richiamata sentenza delle sezioni unite di questa Corte n. 26972 del 2008 si è affermato che l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ. consente di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali nei casi in cui gli interessi compresi nell'area del contratto presentino (anche) carattere non patrimoniale e siano presidiati da diritti inviolabili della persona. Dal bipolarismo del danno sin qui argomentato deriva quale corollario la necessità di una distinzione delle poste anche nella liquidazione del danno-conseguenza.

14.8. Fatte queste doverose premesse ritiene la Corte che sia conseguente affermare che ai fini della liquidazione del danno c.d. differenziale dall'importo del danno non patrimoniale/biologico debba essere detratto quanto eventualmente indennizzato dall'INAIL alla lavoratrice per le conseguenze non patrimoniali dell'infortunio.

14.9. A diverse conclusioni si deve pervenire invece per quanto concerne la rendita erogata dall'Inail ai superstiti. Come recentemente affermato da questa Corte, infatti, "la rendita ai superstiti erogata dall'INAIL, anche successivamente alle modifiche introdotte con il d.lgs. n. 38 del 2000, costituisce una prestazione autonoma all'interno del sistema assicurativo obbligatorio, sicché va considerata fuori dall'ambito di applicabilità dell'art. 13 del medesimo d.lgs. che ha esteso la copertura assicurativa alla componente di danno biologico; la posizione specifica e differenziata dei superstiti, rafforzata dall'art. 73 del d.lgs. predetto e dall'art. 1, comma 130, della I. n. 147 del 2013, rende conforme al canone di razionalità di cui all'art. 3 Cost. la scelta del legislatore di attrarre il danno biologico all'interno dell'oggetto dell'assicurazione con riferimento alla prestazione del solo assicurato, lasciando all'area esterna del diritto civile la tutela dei diritti risarcitori degli eredi." (cfr. Cass. 10/04/2017 n. 9166).

14.10. Nel caso in esame la Corte di merito, discostandosi dai principi su esposti ed incorrendo nel vizio motivazionale denunciato, nel liquidare il danno c.d. differenziale non ha tenuto conto della componente del danno biologico della rendita liquidata alla lavoratrice seppure erogata in concreto agli eredi.

14.11. Ne consegue che in relazione a tale specifico aspetto è necessario che la Corte di merito, alla quale la sentenza cassata va rinviata, verifichi l'avvenuta liquidazione di una rendita all'assicurata, e se del caso per lei ai suoi eredi, e ne tenga conto nella determinazione del danno c.d. differenziale.

15. Alla Corte del rinvio è, del pari, rimessa la liquidazione degli accessori sulle somme eventualmente riconosciute a titolo di danno differenziale.

15.1. Resta da valutare la censura che investe la liquidazione degli accessori sulle somme liquidate iure proprio ai congiunti. Si osserva in proposito che la Corte di merito ha ritenuto infondate le censure mosse alla sentenza di primo grado con riguardo ai "criteri adottati per il calcolo di rivalutazione ed interessi" osservando che "la devalutazione dalla data a cui viene riferito il danno deriva dall'essere stata effettuata la liquidazione in valori attuali". Aggiunge poi che "trattandosi di credito di valore" la rivalutazione deve essere "calcolata per il periodo successivo alla pronuncia". La sentenza di primo grado aveva stabilito che su tutte le somme spettanti a titolo risarcitorio (sia iure proprio che iure hereditatis) erano dovuti soltanto gli interessi legali "dal dovuto al saldo, previa devalutazione e progressiva rivalutazione della somma annua secondo i criteri sanciti dalla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 1712/95". Sostiene la società ricorrente che con riguardo al danno liquidato ai congiunti iure proprio gli importi indicati nelle tabelle del Tribunale di Milano, concretamente applicate, sono già attualizzati e dunque non occorreva procedere ad una devalutazione degli stessi e ad una maggiorazione per interessi sulle somme via via rivalutate.

15.2. Rileva al riguardo il Collegio che le censure non colgono il senso della decisione. Il Tribunale prima e la Corte di appello poi hanno riconosciuto gli interessi legali calcolati applicando esattamente il meccanismo previsto dalle sezioni unite nella citata sentenza n. 1712 del 1995 in base alla quale "gli interessi non possono essere calcolati (dalla data dell'illecito) sulla somma liquidata per il capitale, definitivamente rivalutata, mentre è possibile determinarli con riferimento ai singoli momenti (da stabilirsi in concreto, secondo le circostanze del caso) con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero in base ad un indice medio."

15.3. Proprio perché è stato utilizzato un parametro di liquidazione attualizzato, allora, correttamente per procedere al calcolo degli interessi legali, che decorrono dal momento in cui si è verificato il danno, il Tribunale prima e la Corte poi, hanno devalutato la somma riconosciuta applicando le Tabelle del Tribunale di Milano basate su parametri attualizzati alla data della liquidazione e, conseguentemente, hanno proceduto al calcolo degli interessi sulle somme progressivamente rivalutate.

15.4. Per tale aspetto, pertanto, la sentenza, relativamente alle somme liquidate iure proprio ai congiunti ed ai relativi interessi legali, deve essere confermata.

16. In conclusione in accoglimento del primo, secondo, terzo ed ultimo motivo di ricorso nei limiti sopra indicati, rigettate le altre censure, la sentenza della Corte di appello di Brescia deve essere cassata in relazione alle censure accolte e rinviata alla Corte di appello di Milano che verificherà l'esistenza e la consistenza del danno differenziale accertando previamente se alla B., o per lei ai suoi eredi, sia stata erogata dall'Inail una rendita e disporrà, conseguentemente, sugli accessori.

16. Alla Corte del rinvio è rimessa altresì la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie i primi tre motivi di ricorso e l'ultimo nei sensi di cui in motivazione, rigettate nel resto le altre censure. Cassa la sentenza in relazione alle censure accolte e rinvia alla Corte di appello di Milano che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.