Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 03 marzo 2017, n. 5392

Tributi - Accertamento - Omesse ritenute - Disconoscimento credito

 

Svolgimento del processo

 

L'Agenzia delle entrate ha notificato alla M. s.r.l., poi in liquidazione, avviso di accertamento in rettifica delle dichiarazioni presentate con riferimento all'anno di imposta 2003, al fine del recupero di maggiore i.r.pe.g. per euro 26.644, maggiore i.r.a.p. per euro 4.036, omesse ritenute per euro 6.289, i.v.a. per euro 3.491 con disconoscimento di credito sempre di euro 3.491, oltre sanzioni, a fronte di contestazioni della deducibilità di spese e ammortamenti, omessa effettuazione di ritenute e omesso versamento di i.v.a.

La società ha interposto ricorso innanzi alla commissione tributaria provinciale di Pesaro, che lo ha accolto parzialmente, riconoscendo la deducibilità delle spese promozionali, di manutenzione, di viaggio, per fitti passivi e insegnamento del personale, nonché confermando nel resto l'accertamento.

L'Agenzia delle Entrate in via principale e la contribuente in via incidentale hanno impugnato la sentenza innanzi alla commissione tributaria regionale delle Marche in Ancona, che in parziale accoglimento dell'appello dell'ufficio ha dichiarato dovuto il recupero delle omesse ritenute, rigettando il ricorso principale per il resto e rigettando altresì quello incidentale.

Avverso questa decisione l'Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione, affidato a unico motivo, rispetto al quale la contribuente resiste con controricorso contenente ricorso incidentale basato su sette motivi.

 

Motivi della decisione

 

1. - Con l'unico motivo di ricorso, l'agenzia denuncia, in relazione all'art. 360, co. 1, n. 4, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 132 cod. proc. civ. e 118 cod. proc. civ., in relazione anche all'art. 36 co. 2 n. 4 d. Igs. n. 546 del 1992. Sostiene che, a fronte di dette norme che impongono l'esposizione, seppur concisa, dei motivi in fatto e in diritto della decisione, la sentenza impugnata presenterebbe solo a un primo esame una motivazione "per relationem", mentre in effetti si tratterebbe di una motivazione del tutto assente e meramente apparente, nella parte in cui - a fronte dell'esposizione dettagliata nell'appello delle ragioni a favore delle diverse rettifiche operate dall'Ufficio su "spese promozionali", "manutenzione beni propri ", "fitti passivi", "costo di insegnamento del personale", "omesso versamento di imposta per euro 1450,90" - la stessa motivazione si risolverebbe nell'espressione per cui "per il resto la sentenza di primo grado non deve essere riformata in quanto le parti non hanno offerto argomenti tali da far modificare la decisione appellata ma anzi, alla luce della argomentazioni addotte dalle parti, questa commissione è convinta della correttezza della decisione a cui è pervenuto il giudice di primo grado".

2. - Il motivo è fondato. Nel caso di specie, la sentenza impugnata (alla p. 3) contiene come sua motivazione un paragrafo circa l'effettuazione di ritenute d'acconto, trattando così uno dei molteplici punti sollevato dall'appello dell'ufficio. Segue poi, prima di una motivazione sulle spese, la sola espressione dianzi riportata per cui "per il resto la sentenza di primo grado non deve essere riformata in quanto le parti non hanno offerto argomenti ... ", essendo "la commissione ... convinta della correttezza della decisione a cui è pervenuto il giudice di primo grado".

A fronte di ciò, l'Agenzia lamenta la mancata esposizione delle ragioni che hanno indotto il giudice del gravame ad aderire alla tesi avanzata dalla parte contribuente, disattendendo le questioni prospettate dall'Agenzia stessa (invero parzialmente elencate nella parte narrativa della sentenza, come notato dalla controricorrente), rilevando come non possa essere considerata "motivazione", se non apparente, la mera adesione acritica alla tesi prospettata da una delle parti, seppur ipoteticamente recepita nella sentenza di primo grado (in effetti del tutto carente sul punto), con conseguente nullità della sentenza oggetto di ricorso per cassazione.

Osserva in argomento la Corte che, come recentemente affermato dalle sezioni unite (n. 642 del 2015), nel processo civile e in quello tributario la sentenza la cui motivazione (motivazione "per relationem") si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte o di altri atti processuali o di provvedimenti giudiziari, senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all'organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d'imparzialità del giudice, al quale non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive.

Ciò posto, non può tuttavia essere considerata "motivazione" la mera adesione acritica da parte del giudice di appello alla sentenza di primo grado, in particolare quando, come nel caso di specie, la tesi seguita dalla prima sentenza non sia nemmeno enunciata nel provvedimento né risulti posta a confronto, neppure implicitamente, con le argomentazioni sottoposte dalla parte (nel caso di specie, con l'appello). Non costituisce infatti "motivazione" della sentenza il mero richiamo, dovendo il giudice fornire, anche sinteticamente, le ragioni per le quali la tesi condivisa è preferibile alla tesi opposta, sussistendo in caso contrario la nullità della sentenza per carenza di motivazione. Specificamente, si è affermato (cfr. sez. 6 - 5, n. 28113 del 2013) che è nulla la sentenza della commissione tributaria regionale completamente carente dell'illustrazione delle critiche mosse dall'appellante alla statuizione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle e che si sia limitata a motivare "per relationem" alla sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa, atteso che, in tal modo, resta impossibile l'individuazione del "thema decidendum" e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo e non può ritenersi che la condivisione della motivazione impugnata sia stata raggiunta attraverso l'esame e la valutazione dell'infondatezza dei motivi di gravame.

Come chiarito dalla giurisprudenza, la carenza nell'impianto motivazionale della sentenza di alcuno dei momenti logici necessari configura un "vulnus" al principio generale secondo cui tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati, ai sensi dell'art. 111 Cost., co. 6, vizio che può spaziare, secondo la gravità, dall'insufficienza logica ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5, cod. proc. civ. (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.l. n. 83 del 2012 all’art. 54, co. 1, lett. b, convertito in I. n. 134 del 2012), fino alla totale difformità della sentenza dal modello legale per assenza dell’indicato requisito essenziale, ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 4, cod. proc. civ. in relazione all’art. 132, co. 2, n. 4 cod. proc. civ. e art. 118, co. 1 disp. att. cod. proc. civ. (cfr. sez. 5, n. 12664 del 2012 e Sez. 1, n. 28663 del 2013).

Nel caso di specie non solo non viene, neppure sommariamente, riportato il contenuto dell'atto cui la sentenza fa rinvio, ma manca ogni indicazione, seppur sintetica, delle ragioni per le quali si è ritenuto di condividere le tesi (ove effettivamente espresse, e sui numerosi punti sollevati dall'agenzia) prospettate nella precedente sentenza, rendendosi impossibile di apprezzare l'iter logico-giuridico posto a fondamento della decisione di appello. Ne deriva la mera apparenza di motivazione, rilevante come omissione di essa, con consequenziale nullità della sentenza per "errar in procedendo" ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 4, cod. proc. civ.

Deve peraltro rilevarsi (cfr. ad es. sez. 1, n. 28663 del 2013, cit., e sez. lav. n. 23989 del 2014) che questa Corte, in ragione della funzione nomofilattica a essa affidata dall'ordinamento nonché dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all'art. 111, co. 2, Cost., ha il potere di correggere la motivazione ex art. 384, ult. co., cod. proc. civ., anche in presenza dell’error in procedendo" che ricorre nel caso di motivazione solo apparente, sempre che si tratti di questioni che non richiedano ulteriori accertamenti in fatto.

Nel caso di specie, però, trattandosi di apprezzamenti anche in fatto circa le singole poste sopra elencate, che esulano dalla mera valutazione giuridica, gli stessi vanno effettuati dal giudice di merito; ciò da cui consegue il doversi cassare la sentenza con rinvio.

3. - Con il primo motivo del ricorso incidentale, l'agenzia denuncia, in relazione all'art. 360, co. 1, n. 4 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 132 cod. proc. civ. e 118 cod. proc. civ., in relazione anche all'art. 36 co. 2 n. 4 d. Igs. n. 546 del 1992. Sostiene che, parallelamente a quanto operato in riferimento ai motivi di appello principale dell'agenzia, anche per le contestazioni non accolte in primo grado e riproposte con appello incidentale dalla contribuente la sentenza impugnata ha laconicamente motivato con la surriportata espressione; mentre però le doglianze dell'appellante principale sono indicate nel testo, quelle della contribuente non lo sarebbero.

4. - Il motivo è fondato. Nella sentenza impugnata, per vero, si rintraccia menzione delle doglianze formulate dall'appellante incidentale (in riferimento alle "contestazioni non accolte dai primi giudici relativamente a spese di trasporto, di assicurazione, spese per mostre e stand, spese di acqua e quote di ammortamento"), ma - come detto - segue a tale elencazione l'espressione del tutto acritica sopra riportata, esprimente mera condivisione della decisione anche su tali temi assunta dalla commissione provinciale (ove specificamente sussistente). Anche in relazione a tale motivo, essendo necessari ulteriori accertamenti pure fattuali, la sentenza va dunque cassata con rinvio.

5. - Con il secondo, il terzo, il quarto, il quinto e il sesto motivo di ricorso incidentale, la parte contribuente - in relazione al parametro di cui all'art. 360 co. 1 n. 3 cod. proc. civ. (così dovendo intendersi, tenuto conto del chiaro intento di lamentare una violazione di norma di legge, il riferimento operato, per evidente refuso, al n. 4 della stessa disposizione) - denuncia la violazione dell'art. 75 del d.p.r. n. 917 del 1986 in rapporto alle diverse voci ritenute indeducibili per spese di trasporto, di assicurazione crediti esteri, per mostre e stand, di acqua e per quote di ammortamento (per tale ultima voce anche in riferimento all'art. 2426 cod. civ. e all'art. 110 del d.p.r. cit.). Stante l'avvenuta cassazione sul punto alla luce del precedente motivo, l'esame di tali motivi deve ritenersi assorbito.

6. - Con il settimo motivo, in relazione all'art. 360, co. 1 n. 4 cod.proc. civ. (nuovamente da intendersi come riferimento operato al n. 3), la contribuente lamenta falsa applicazione dell'art. 26 co. 5 del d.p.r. n. 600 del 1973, dell'art. 127 d.p.r. n. 917 del 1986 e dell'art. 67, co. 1, del d.p.r. n. 600 del 1973, per avere la commissione tributaria regionale erroneamente reputato dovute le ritenute di acconto, invece omesse, su interessi passivi derivanti da contratti di finanziamento a breve termine stipulati con altre società; secondo la contribuente, gli interessi in questione sarebbero reddito d'impresa e non di capitale e la loro tassazione costituirebbe doppia imposizione.

7. - Il motivo è fondato. Invero, deve affermarsi il principio di diritto per cui - quando conseguiti dalle società ed enti esercenti attività commerciali residenti di cui all'art. 73, primo comma, lett. a) e b), o dalle stabili organizzazioni di soggetti non residenti di cui alla lett. d) o nell'esercizio di imprese commerciali - gli interessi su mutui, finanziamenti o simili non costituiscono reddito di capitale e vanno qualificati come una delle componenti attive rilevanti per la determinazione del reddito di impresa; non sorge, conseguentemente, per il soggetto erogante l'obbligo di effettuare la ritenuta d'imposta.

8. - Rileva al riguardo la Corte che tanto si ricava del d.p.r. n. 917 del 1986. Tale decreto, che all'art. 44 primo comma indica gli interessi e simili proventi come redditi di capitale, all'art. 48, sotto la rubrica "redditi imponibili ad altro titolo", dispone: al primo comma "non costituiscono redditi di capitale gli interessi, gli utili e gli altri proventi di cui ai precedenti articoli conseguiti dalle società e dagli enti di cui all'articolo 73, comma 1, lettere a) e b), e dalle stabili organizzazioni dei soggetti di cui alla lettera d) del medesimo comma, nonché quelli conseguiti nell'esercizio di imprese commerciali"; e, al secondo comma, "i proventi di cui al comma 1, quando non sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva, concorrono a formare il reddito complessivo come componenti del reddito d'impresa" (v. art. 85 primo comma lett. g) e art. 89 co. 5-7). Correlativamente, nel definire la base imponibile delle società e degli enti commerciali residenti ai fini dell'i.re.s. di cui all'art. 75 del medesimo d.p.r., l'art. 81 sotto la rubrica "reddito complessivo", statuisce che "il reddito complessivo delle società e degli enti commerciali di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell'articolo 73, da qualsiasi fonte provenga, è considerato reddito d'impresa ed è determinato secondo le disposizioni di questa sezione".

9. - Ciò acclarato in ordine alla natura di reddito di impresa costituito da interessi pagati tra società commerciali residenti e soggetti come sopra equiparati, va esaminato altresì quanto disposto dall'art. 26 del d.p.r. n. 600 del 1973, nel testo "ratione temporis" applicabile, il quale - dettando norme in tema di "ritenute sugli interessi e sui redditi di capitale" (dizione questa che tratta separatamente gli interessi - per la loro natura diversificata quale redditi di impresa o capitale - dagli altri redditi di capitale) - prescrive ai primi quattro commi obblighi di effettuazione di ritenute sui proventi della specie che esulano dal caso in esame (quali interessi bancari ecc.), al quale - astrattamente - potrebbe applicarsi, come indicato nel motivo di ricorso, la sola norma residuale del co. 5, stabilisse che: "i soggetti indicati nel primo comma dell'articolo 23 operano una ritenuta del 12,50 per cento a titolo d'acconto, con obbligo di rivalsa, sui redditi di capitale da essi corrisposti, diversi da quelli indicati nei commi precedenti e da quelli per i quali sia prevista l'applicazione di altra ritenuta alla fonte o di imposte sostitutive delle imposte sui redditi. Se i percipienti non sono residenti nel territorio dello Stato o stabili organizzazioni di soggetti non residenti la predetta ritenuta è applicata a titolo d'imposta ed è operata anche sui proventi conseguiti nell'esercizio d'impresa commerciale. La predetta ritenuta è operata anche sugli interessi ed altri proventi dei prestiti di denaro corrisposti a stabili organizzazioni estere di imprese residenti, non appartenenti all'impresa erogante, e si applica a titolo d'imposta sui proventi che concorrono a formare il reddito di soggetti non residenti ed a titolo d'acconto, in ogni altro caso." Tale complessa serie di disposizioni, da un lato, prescrive in generale l'applicazione delle ritenute sui "redditi di capitale", tra cui come detto non rientra il pagamento di interessi tra società commerciali residenti ed enti assimilati, che è reddito di impresa; d'altro lato, estende, con dizione specifica, l'obbligo di effettuazione di ritenute anche sugli interessi e proventi assimilati, ma ciò solo se corrisposti a favore di soggetti specifici, in particolare non residenti. E' evidente, dunque, che la predetta norma - in un più ampio quadro normativo su cui non necessita soffermarsi - faccia da "pendant" alla citata disposizione di cui all'art. 48, secondo comma, d.p.r. n. 917 del 1986, secondo la quale gli interessi concorrono a formare il reddito complessivo come componenti del reddito d'impresa, ad eccezione dei casi in cui siano "soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva". Ne deriva che nessuna ritenuta è prevista, neppure a titolo di acconto, in casi come quello di specie in cui gli interessi sono corrisposti a società residente.

10. - Ciò detto quanto all'esegesi letterale della disciplina, può aggiungersi che anche sotto il profilo sistematico e della "ratio" è ben comprensibile che si applichino ritenute - nei casi rilevanti a titolo di imposta - nei confronti dei soggetti non residenti, in applicazione del principio della tassazione su base territoriale o della fonte ("principle of source"), mentre non è necessaria l'applicazione delle ritenute stesse nei confronti degli enti commerciali residenti, tassati su base mondiale per redditi ovunque prodotti dallo stato della "residenza" ("worldwide principle"), il quale - almeno per quanto concerne l'Italia - dispone di adeguato strumentario per i controlli, stante anche la contestuale ricomprensione nel perimetro di altre tipologie di imposizione (in particolare, ricadendo il contratto da cui deriva la corresponsione di interessi da società a società in ambito i.v.a. anche se in esenzione ex art. 10, primo comma, n. 1) del d.p.r. n. 633 del 1972 ed essendo esso soggetto ad imposta di registro in caso d'uso ex art. 5 secondo comma del d.p.r. n. 131 del 1986).

11. - Nel medesimo senso della operatività della ritenuta d'acconto nel caso di specie si è, del resto, già espressa questa Corte tempo addietro (in riferimento specifico alle disposizioni di cui al d.p.r. n. 597 del 1973, sez. 1, n. 534 del 1996).

12. - In definitiva, va accolto nel suo unico motivo il ricorso principale, nonché accolti il primo e il settimo motivo di quello incidentale, assorbiti gli altri, con (rinvio in relazione ai motivi accolti innanzi a diversa composizione della commissione tributaria regionale della Marche, che fornirà adeguate motivazioni sulle questioni dinanzi evidenziate nonché si atterrà al seguente principio di diritto: "quando conseguiti dalle società ed enti esercenti attività commerciali residenti di cui all'art. 73, primo comma, lett. a) e b) del d.p.r. n. 917 del 1986 o dalle stabili organizzazioni di soggetti non residenti di cui alla lett. d) o nell'esercizio di imprese commerciali, gli interessi su mutui, finanziamenti o simili non costituiscono in base all'art. 48 del medesimo d.p.r. reddito di capitale e vanno qualificati come una delle componenti attive rilevanti per la determinazione del reddito di impresa; non sorge, conseguentemente, per il soggetto erogante l'obbligo di effettuare la ritenuta d'imposta, salvi i casi espressamente previsti dall'art. 26 del d.p.r. n. 600 del 1973."

13. - La commissione regionale, in sede di rinvio, provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso principale nonché il primo e il settimo motivo del ricorso incidentale, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia anche per le spese del giudizio di legittimità alla commissione tributaria regionale delle Marche in diversa composizione.