Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 10 aprile 2018, n. 8851

Licenziamento disciplinare - Mancata affissione del codice disciplinare - Irrilevanza - Assenza ingiustificata e negligenza nella produzione tale da rendere inutilizzabili i prodotti - Violazione di una norma penale, condotta manifestamente contraria all'etica comune, ovvero notevole inadempimento dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro - Potere di licenziamento derivante direttamente dalla legge

 

Rilevato che

 

1. M. H. M. conveniva Carni s.r.l. dinanzi al giudice del lavoro di Parma perché fosse accertata la nullità, annullabilità e comunque l'invalidità, inefficacia o illegittimità anche per illiceità della causa dei provvedimenti disciplinari adottati nei suoi confronti in data 15 settembre 2009, 19 novembre 2009 e 23 novembre 2009, nonché del licenziamento intimatogli con lettera in data 3 dicembre 2009 e perché conseguentemente la convenuta fosse condannata a reintegrarlo nel posto di lavoro ed a corrispondergli una somma pari alla retribuzione globale di fatto dal licenziamento all'effettiva reintegrazione, nonché alla regolarizzazione contributiva; chiedeva inoltre che fosse accertato che la convenuta aveva tenuto nei suoi confronti una condotta illecita e che conseguentemente fosse condannata a risarcirgli il danno non patrimoniale sofferto nella misura di € 20.000; chiedeva infine che fosse accertata l'illegittimità della trattenuta di € 432 effettuata sulla propria retribuzione, con condanna alla restituzione di tale importo, con gli accessori di legge.

2. La Corte d'appello di Bologna confermava la sentenza del Tribunale di Parma che aveva rigettato tutte le domande del lavoratore.

Risolvendo le questioni proposte con il ricorso in appello, la Corte argomentava in primo luogo che correttamente il primo giudice aveva ritenuto l'irrilevanza della mancata affissione del codice disciplinare, considerato che le contestazioni disciplinari avevano avuto ad oggetto la violazione di obblighi direttamente discendenti dal contratto di lavoro - e specificamente l’assenza ingiustificata e la negligenza nella produzione tale da rendere inutilizzabili i prodotti - e che il lavoratore non poteva non essere a conoscenza della contrarietà delle condotte con le obbligazioni assunte al momento della stipula del contratto di lavoro. Riteneva altresì infondate le censure aventi ad oggetto l'erroneità della valutazione del Tribunale relativa alle dichiarazioni testimoniali in merito alla sussistenza delle condotte contestate e all’assenza di mobbing. Riteneva infine irrilevante l'esiguità del danno sofferto dal datore di lavoro, considerato che pur a fronte di successive contestazioni disciplinari con irrogazione di sanzioni conservative progressivamente più gravi, il dipendente si era reso reiteratamente negligente, così manifestando chiaramente disinteresse rispetto all'utilità del proprio datore di lavoro, tale da legittimare il licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso M. H. M., affidato a quattro motivi; Carni s.r.l. ha resistito con controricorso.

 

Considerato che

 

1. il primo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 7 dello statuto dei lavoratori e dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966, nonché del C.C.N.L. metalmeccanica ed industria, artt. 9 e 10, per avere la Corte d'appello ritenuto l'irrilevanza dell'affissione del codice disciplinare, pur a fronte dell’irrogazione di sanzioni conservative e per fatti che non assumevano rilevanza penale, né potevano essere considerati di gravità tale da costituire un notevole inadempimento ai doveri connessi al rapporto di lavoro;

2. con il secondo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c.e 2697 c.c., nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto rilevante ai fini della decisione e l’errata valutazione delle prove, e si lamenta che la Corte abbia errato nell’effettuare il vaglio delle risultanze istruttorie, erroneamente svalutando alcune deposizioni (De C., indicata dalla Corte territoriale come De Argenterò), valorizzandone altre (Cella) e non considerando le dichiarazioni scritte presentì in atti (E1 Bouachici), il cui contenuto non era stato contestato. Inoltre, in merito all’asserita assenza ingiustificata del 28.8.2009, avrebbe invertito l’onere della prova, considerato che incombeva al datore di lavoro dimostrare la sua ingiustificatezza, in ordine alla quale i testimoni nulla avevano riferito.

3. Come terzo motivo, deduce violazione falsa applicazione dell'articolo 2119 c.c. e 116 c.p.c. e omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in relazione ai fatti addebitati al ricorrente anche in relazione al principio di proporzionalità fra le violazioni contestate e il danno asseritamente subito dal datore di lavoro. Lamenta che la Corte abbia omesso di considerare le circostanze dedotte dalla difesa del ricorrente e confermate in sede testimoniale, che spesso i lavoratori sbagliavano nell'esecuzione delle mansioni per l'utilizzo di materiale e macchinari difettosi, che il M. non era stato oggetto di contestazioni disciplinari in precedenza e che il danno che la società asseriva di aver subito ammontava a soli € 432.

4. Come quarto motivo, deduce violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1345, 2087, 1175 del codice civile e lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto che il licenziamento intimato al ricorrente fosse sorretto da causa lecita e che il signor M. non abbia offerto la prova di essere stato assoggettato a mobbing, laddove la teste De C. aveva sintetizzato le condizioni in cui i lavoratori erano costretti a svolgere le proprie mansioni ed i ritmi serrati di produzione che dovevano seguire.

5. Il primo motivo di ricorso non è fondato, essendosi attenuta la Corte territoriale ai principi reiteratamente affermati da questa Corte, (v. da ultimo Cass. 15-06-2017, n. 14862) secondo i quali l’onere di pubblicità del cd. codice disciplinare, previsto dall' art. 7, comma 1, della legge n. 300 del 1970, si applica al licenziamento disciplinare soltanto nei limiti in cui questo sia stato intimato per una delle specifiche ipotesi di comportamento illecito vietate e sanzionate con il provvedimento espulsivo da norme della contrattazione collettiva o da quelle validamente poste dal datore di lavoro (entrambe soggette all'obbligo della pubblicità per l'esigenza di tutelare il lavoratore contro il rischio di incorrere nel licenziamento per fatti da lui non preventivamente conosciuti come mancanze) e non anche quando, senza avvalersi di una di queste specifiche ipotesi, il datore di lavoro contesti un comportamento che, secondo quanto accertato in fatto dal giudice del merito, integri una violazione di una norma penale, o sia manifestamente contrario all'etica comune, ovvero concreti un grave o comunque notevole inadempimento dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 c.c., poiché in tali casi il potere di licenziamento deriva direttamente dalla legge.

Principio che è stato ribadito anche con riferimento alle sanzioni conservative (v. da ultimo Cass. n. 279 del 9/1/2018, Cass. n. 21032 del 18/10/2016, Cass. n. 1926 del 27/1/2011), sul rilievo che anche in tali ipotesi il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità e gravità della propria condotta.

2. I motivi 2, 3 e 4, al di là della rubrica di stile, richiedono nella sostanza una diversa valutazione delle stesse circostanze fattuali che sono state già esaminate dalla Corte di merito, e sulle quali si è incentrata la sua puntuale analisi, sollecitando una diversa valorizzazione delle deposizioni testimoniali e della documentazione rispetto a quella fatta propria dai giudici di merito. I motivi, così come qualificati sulla base del loro contenuto, sono però sotto tale aspetto inammissibili in quanto non denunciano un vizio censurabile in Cassazione secondo l’ambito di cognizione demandato a questa Corte dal nuovo testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c., come delineato da Cass. S.U 07/04/2014, nn. 8053 e 8054.

3. Inoltre, occorre considerare l'applicabilità, nel giudizio di cassazione, del quinto comma dell'art. 348 ter cod. proc. civ. - introdotto dall’art. 54 comma 1 lett. a) del D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif, nella L. n. 134 dello stesso anno e applicabile, a norma dell’art. 54 comma 2 del medesimo decreto, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione a far data dal 11 settembre 2012 (come chiarito da Cass. n. 26860 del 18/12/2014 e Cass. ord., 24909 del 09/12/2015)- il quale prevede che la disposizione contenuta nel precedente comma quarto - ossia l'esclusione del vizio di motivazione dal catalogo di quelli deducibili ex art. 360 cod. proc. civ. - si applica, fuori dei casi di cui all'art. 348 bis, secondo comma, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado (cosiddetta "doppia conforme", v. Cass. n. 23021 del 29/10/2014).

Nel caso, poiché la ricostruzione delle emergenze probatorie effettuata dal Tribunale è stata confermata dalla Corte d’appello, il ricorrente in cassazione, per evitare l'inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell'art. 360 cod. proc. civ., avrebbe dovuto indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528 del 10/03/2014, n. 26774 del 22/12/2016), ciò che non è stato fatto.

4. Quanto ai residui profili di diritto posti dal secondo motivo, occorre rilevare che la Corte territoriale ha correttamente ritenuto che la mancanza di prova di giustificazione dell’assenza dal lavoro (il permesso ex art. 33 della l. n. 104 del 1002 asseritamente richiesto) ricadesse su lavoratore: quando sia provata l’assenza dal lavoro, infatti, incombe sul lavoratore l’onere di dedurre e dimostrare l’esistenza di una ragione idonea ad alterare il sinallagma contrattuale, e ciò anche quando l’assenza ingiustificata sia assunta a fondamento del licenziamento disciplinare, fermo restando che in tal caso deve comunque sussistere il requisito della proporzionalità della sanzione all’inadempimento.

5. Quanto infine alla critica della valutazione di proporzionalità effettuata nel terzo motivo, si rileva che la soluzione adottata dal giudice di merito è coerente con gli arresti di questa Corte, secondo i quali in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione non già l'assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale, ma la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, in quanto sintomatica dell’ atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti (Cass. n. 8816 del 05/04/2017 Cass. n. 16260 del 19/08/2004, Cass. n. 5434 del 07/04/2003). Prognosi infausta che può anche prevalere nel caso concreto sulla valutazione della corretta condotta anteatta del lavoratore.

6. Per tali motivi, condividendo il Collegio la proposta del relatore, il ricorso, manifestamente infondato, va rigettato con ordinanza in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375, comma 1, n. 5, cod. proc. civ..

7. La regolamentazione delle spese processuali, liquidate come da dispositivo, segue la soccombenza.

8. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 3.500,00 per compensi, oltre ad € 200,00 per esborsi, rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.lgs. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13