Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 10 giugno 2016, n. 11975

Licenziamento - Divieto fino al compimento del primo anno di età del bambino - Violazione - Deroga

Svolgimento del processo

 

La Corte d'appello di Lecce ha confermato la sentenza del Tribunale di Brindisi con cui era stata dichiarata la nullità del licenziamento di P.S. comminato dalla soc. A. in violazione del divieto di licenziamento fino al compimento del primo anno di età del bambino.

La Corte ha rilevato che la società nel costituirsi aveva eccepito che la domanda della lavoratrice non poteva trovare accoglimento in quanto basata sulla violazione dell'art. 54, comma 2, lett. C) (ultimazione della lavorazione per la quale la lavoratrice era stata assunta ); che invece il licenziamento era stato comminato ai sensi dell'art. 54 citato lett. B) per cessazione del ramo d'azienda e che la lavoratrice aveva introdotto alla prima udienza la domanda nuova di declaratoria del licenziamento ai sensi dell'art. 54 citato lett. B).

Secondo la Corte l'eccezione di novità della domanda era infondata. Ha affermato, infatti, che il licenziamento era stato impugnato per violazione delle norme che vietano di disporre il licenziamento fino al compimento di un anno del bambino al di là delle motivazioni adottate; che del resto la domanda della lavoratrice non poteva avere a fondamento la violazione del citato art. 54 lett. C) in quanto tale disposizione prevedeva una deroga al divieto di licenziamento che avrebbe dovuto essere fatta valere dal datore di lavoro su cui gravava I'onere di allegare e dimostrarne la fondatezza con la conseguenza che non poteva ritenersi contenuta nella domanda della lavoratrice.

Avverso la sentenza ricorre la società con un motivo ulteriormente illustrato con memoria ex art. 378 cpc.

Resiste la lavoratrice.

 

Motivi della decisione

 

La ricorrente , con un unico motivo, denuncia violazione degli artt. 112 e 414 cpc.

Osserva che vi era stato da parte della lavoratrice un vero e proprio mutamento della domanda e non soltanto una semplice "emendatio libelli " e che la Corte d'appello era pervenuta alla erronea conclusione che la declaratoria di nullità del licenziamento per violazione dell'art. 54 lett. c), formulata originariamente dalla lavoratrice contenesse in sé quella di declaratoria di nullità del licenziamento per violazione dell'art. 54 , lett. B), del dlgs n. 151/2001, successivamente richiamata dalla lavoratrice ed accolta dalla Corte.

Il motivo è infondato non essendo ravvisabile la violazione delle disposizioni citate.

Pur dovendosi rilevare che è sostanzialmente corretto quanto affermato dalla società ricorrente secondo cui la legittimità o meno di un licenziamento deve essere valutata sulla base dei motivi indicati dal lavoratore con l'impugnativa del licenziamento stesso, tale principio non risulta violato dalla Corte territoriale che ha sottolineato come nella specie il motivo di nullità.denunciato dalla lavoratrice, e per il quale essa aveva chiesto l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento, era l'avvenuto licenziamento in violazione del divieto di cui all'art. 54 del dlgs n 151/2001 secondo cui "le lavoratrici non possono essere licenziate dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino" . La Corte territoriale ha esposto , infatti, che la P. con il ricorso aveva denunciato che il figlio era nato il 29/11/2009 e che era stata licenziata l'8/3/2010.

La Corte territoriale ha interpretato la domanda della lavoratrice come volta ad affermare l'illegittimità del licenziamento a prescindere dal richiamo all'art. 54 lett. c) in quanto tale disposizione, prevedendo l'ammissibilità del licenziamento per cessazione dell'opera alla quale la lavoratrice madre è addetta, costituiva un'eccezione alla regola generale del divieto di licenziamento la cui sussistenza era onere del datore di lavoro allegare e provare con la conseguenza che non poteva ritenersi contenuta nella domanda attorea.

Costituisce principio affermato da questa Corte che l’interpretazione della domanda giudiziale è operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera congrua e adeguata, avendo pertanto riguardo all'intero contesto dell’atto, senza che ne risulti alterato il senso letterale e tenendo conto della sua formulazione testuale nonché del contenuto sostanziale, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire (cfr Cass. 9011/2015).

Secondo la Corte la lavoratrice denunciando la violazione dell'art. 54 citato nessuna ulteriore motivazione doveva fornire dell'illegittimità del licenziamento ed ottenere una sentenza ad essa favorevole spettando invece al datore di lavoro provare la sussistenza di una delle ipotesi previste dall'art. 54 citato che consentivano il licenziamento. Come correttamente affermato dalla Corte il richiamo alla lett. c) contenuto nel ricorso iniziale della P. era del tutto ininfluente e l'esame della sussistenza delle condizioni di cui alla lett. b) dell'art. 54 citato idonee a giustificare il licenziamento non aveva comportato una modifica della causa petendi della domanda della lavoratrice che era rimasta immutata e da ravvisarsi nell'avvenuto licenziamento in violazione dell'art. 54.

La difesa del datore di lavoro fin dal primo grado era volta, infatti, proprio a dimostrare la legittimità del licenziamento in quanto sussisteva l'ipotesi della lett. b) dell'art. 54 citato di esternalizzazione del servizio di contabilità e dunque di cessione del ramo. Lo stesso datore di lavoro ha dunque introdotto in giudizio tale tema di indagine con la conseguenza che correttamente i giudici di merito hanno esaminato la fondatezza della domanda della lavoratrice sotto tale profilo.

Poiché non ha formato oggetto di censure l'esclusione dell'ipotesi della cessione del ramo d'azienda idoneo a giustificare il licenziamento, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese di causa seguono la soccombenza.

Avuto riguardo all'esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui all'art. 13, comma 1 quater, dpr n 115/2002.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare le spese processuali liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre 15% per spese generali ed accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater del dpr n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.