Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 15 marzo 2019, n. 7388

Imposte dirette - IRPEG - Processo tributario - Sistema della maggiorazione di conguaglio - Eccedenza dell'utile distribuito

 

Fatti di causa

 

Con istanza del 3 settembre 1985 la società Italiana per il Gas per Azioni presentava all'Intendenza di Finanza di Torino una domanda volta ad ottenere il rimborso della <<maggiorazione di conguaglio>> prevista dall'art. 2 della legge 25 novembre 1983, n. 649, versata unitamente all'Irpeg dovuta a saldo per l'esercizio sociale 1984.

Formatosi il silenzio-rifiuto, la società proponeva ricorso dinanzi alla Commissione tributaria di primo grado, la quale lo accoglieva.

In esito all'appello principale interposto dall'Ufficio, la Commissione tributaria di secondo grado accoglieva l'eccezione di inammissibilità dell'appello, proposta dalla contribuente, perché presentato oltre il termine annuale previsto dall'art. 327 cod. proc. civ. vigente ratione temporis.

Avverso tale decisione ricorreva l'Ufficio dinanzi alla Commissione tributaria centrale, sostenendo l'inapplicabilità dell'art. 327 cod. proc. civ. al processo tributario nella disciplina prò tempore vigente.

Con decreto n. 38/2011 la Commissione tributaria Centrale - Sezione di Torino, ritenendo sussistenti le condizioni di fatto e di diritto di cui all'art. 3, comma 2 bis, lett. a) del d.l. 23 marzo 2010, n. 40, convertito in legge 22 maggio 2010, n. 73, dichiarava l'automatica definizione della controversia tributaria pendente.

Avverso tale decreto di estinzione proponeva reclamo la Italgas s.p.a, evidenziando che il citato art. 3 del d.l. n. 73/2010 escludeva espressamente la possibilità di definire con decreto <<le controversie aventi ad oggetto istanze di rimborso>>.

Con la decisione indicata in epigrafe, la Commissione Tributaria Centrale ha confermato la sentenza di secondo grado ed << ordinato il rimborso di quanto richiesto dal contribuente >>, affermando in motivazione la inapplicabilità al processo tributario dell'art. 327 cod. proc. civ., vigente ratione temporis, ostandovi la disposizione contenuta nell'art. 72, comma 2, del decreto n. 546 del 1992.

L'Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.

La contribuente resiste con controricorso e propone ricorso incidentale affidato a due motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo, la difesa erariale deduce la nullità della sentenza impugnata per contraddittorietà tra il dispositivo e la motivazione, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., nella parte in cui la Commissione Tributaria Centrale, dopo avere dichiarato, in motivazione, l'inapplicabilità dell'art. 327 cod. proc. civ. ed avere ritenuto rispettato il termine di sessanta giorni dalla notifica della sentenza per la impugnazione, ha confermato, nel dispositivo, la decisione di secondo grado che aveva dichiarato improcedibile l'appello proposto dall'Ufficio perché tardivo.

2. Con il secondo motivo, l'Agenzia delle Entrate, per l'ipotesi in cui si ritenesse prevalente il dispositivo sulla motivazione, censura la decisione della Commissione tributaria Centrale, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell'art. 327 cod. proc. civ., degli artt. 22 e 38 del d.P.R. n. 636/1972 e degli artt. 38 e 72, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992, e sostiene che il termine lungo per appellare di cui all'art. 327 cod. proc. civ. non può trovare applicazione nel processo tributario, vigente il d.P.R. n. 636/1972, poiché questo non contiene alcun rinvio alle norme del codice di procedura civile, ed in particolare all'art. 327 cod. proc. civ., con la conseguenza che non è estensibile per analogia o per interpretazione con validità retroattiva un termine decadenziale che limita comunque l'esercizio di un diritto.

Richiamando a sostegno della tesi difensiva la sentenza n. 10456 del 30 ottobre 1990 di questa Corte, la ricorrente principale precisa che l'Ufficio ha ricevuto la comunicazione della sentenza in data 8 maggio 1992, di cui ha chiesto il 13 maggio 1991 copia autentica, e che il successivo 11 giugno ha proposto appello, secondo le disposizioni a quel tempo vigenti che ponevano a carico della segreteria della Commissione l'onere di comunicazione del dispositivo, con conseguente decorrenza dei termini per impugnare unicamente da tale comunicazione.

3. Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 2 della legge n. 649 del 1983, nonché dell'art. 105 del t.u.i.r. (applicabile retroattivamente ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. n. 42 del 1988) nel testo vigente ratione temporis prima dell'abrogazione attuata dal d.lgs. n. 467 del 1997, nonché violazione e falsa applicazione dell'art. 67 del d.P.R. n. 600/1973, chiede la cassazione della decisione gravata nella parte in cui la Commissione tributaria centrale, statuendo <<nel merito>>, ha affermato che <<i correttivi prevedono il riporto della eccedenza di franchigia al lordo delle perdite riportate e delle variazioni in diminuzione senza una specifica collocazione temporale>>.

Nell'evidenziare che oggetto del contendere è la determinazione dell'utile di esercizio ai fini del calcolo della maggiorazione di conguaglio introdotta dall'art. 2 della legge n. 649 del 1983, poi trasfuso nell'art. 105 del t.u.i.r. fino alla definitiva abrogazione per effetto del d.lgs. n. 467/1997, la difesa erariale sottolinea che secondo la posizione difensiva della contribuente il sistema della maggiorazione di conguaglio, nella determinazione dell'eccedenza dell'utile distribuito rispetto al 64 per cento del reddito imponibile della società, deve prendere in considerazione anche i fatti economici negativi verificatisi negli esercizi precedenti, ma divenuti valutabili solo nel periodo di vigenza dell'istituto, pena una ingiustificata duplicazione del prelievo fiscale in violazione dell'art. 67 del d.P.R. n. 600/1973, mentre secondo la tesi difensiva dell'Ufficio il sistema della maggiorazione di conguaglio decorre esclusivamente dalla data di entrata in vigore della legge istitutiva e non consente di prendere in esame gli elementi reddituali relativi ad esercizi precedenti, per i quali, peraltro, era in vigore una diversa aliquota Irpeg ed un differente sistema di credito d'imposta.

Addebita, quindi, alla Commissione centrale di avere reso una decisione in violazione di legge, in quanto, <<anziché applicare l'automatico conteggio sull'imponibile dichiarato nell'esercizio 1984 secondo le previsioni di cui all'art. 2 della legge n. 649 del 1983, ha ritenuto ammissibile la richiesta del contribuente di rideterminare la franchigia e, di conseguenza, aumentare l'imponibile della società azzerando l'eccedenza su cui calcolare la maggiorazione di conguaglio da versare, considerando, ai fini della determinazione dell'eccedenza rispetto al 64 per cento del reddito imponibile, componenti negativi di reddito che, verificatisi in esercizi precedenti alla introduzione della legge n. 649 del 1983, erano divenuti fiscalmente deducibili solo negli esercizi successivi>>, con conseguente riconoscimento di un diritto al rimborso non spettante.

In particolare, la ricorrente spiega che la legge n. 649 del 1983, dopo avere previsto al primo comma dell'art. 2 l'aumento dell'aliquota dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche dal 30 al 36 per cento, ha disposto altresì l'aumento del credito d'imposta di cui all'art. 1 della I. n. 904 del 1977, fissando lo stesso nella misura di nove sedicesimi (pari al 56,25 per cento) degli utili che concorrono alla formazione del reddito imponibile dei soci; il secondo comma dell'art. 2 della medesima legge ha, quindi, previsto che quando la somma distribuita sull'utile di esercizio, diminuita della parte assegnata alle azioni di risparmio al portatore, è superiore al 64 per cento del reddito imponibile, calcolato al lordo solo delle perdite riportate da precedenti esercizi, dichiarato dalla società ai fini Irpeg, l'imposta stessa deve essere aumentata, a titolo di conguaglio, di un importo pari ai nove sedicesimi della differenza.

Qualora, invece, gli utili distribuiti risultino inferiori al 64 per cento del reddito imponibile, è stato riconosciuto dapprima in via interpretativa e,  successivamente, con l’art. 105 del t.u.i.r., che deve applicarsi in favore della società la cd. <<franchigia>>, ovvero una esenzione a fronte della differenza tra l'imposta versata dalla società rispetto all'imposizione a carico del socio.

La decisione della Commissione Tributaria Centrale, ad avviso della ricorrente, è quindi errata poiché, con riguardo alla maggiorazione di conguaglio non è consentito elevare il reddito imponibile e calcolare la franchigia al lordo delle variazioni in diminuzione, determinate da componenti negativi del reddito verificatesi in esercizi precedenti l'entrata in vigore della legge n. 649 del 1983, anche se fiscalmente deducibili in esercizi successivi.

4. In via incidentale, con il primo mezzo, la controricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 327 cod. proc. civ. e nullità della sentenza, per non avere la Commissione centrale dichiarato inammissibile l'appello dell'Ufficio, perché tardivo per decorrenza del termine lungo di impugnazione previsto dall'art. 327 cod. proc. civ., stante l'applicabilità di detto ultimo termine anche al processo tributario sotto la vigenza del d.P.R. n. 636/1972.

Pur non soggiacendo il ricorso incidentale ad inammissibilità per mancata formulazione del quesito di diritto - atteso che la sentenza impugnata è stata pubblicata dopo l'abrogazione dell'art. 366-bis cod. proc. civ., ad opera dell'art. 47, comma 1, lett. d) I. 18 giugno 2009, n. 69 - la controricorrente ha formulato il seguente quesito di diritto: << Dica codesta S.C. se l'art. 327 cod. proc. civ. si interpreta nel senso che la medesima disposizione enuncia un principio di carattere generale applicabile in tutto l'ordinamento processuale; perciò anche le sentenze delle commissioni tributarie di primo e di secondo grado, nel vigore del d.P.R. n. 636/1972 non possono più essere impugnate ove sia decorso un anno dalla loro pubblicazione, che si perfeziona con il deposito della sentenza stessa senza che occorra la comunicazione dell'avviso di cancelleria di cui al 2° comma dell'art. 133 cod. proc. civ.. Ha errato pertanto la Commissione Tributaria Centrale nel rilevare invece "l'inapplicabilità al processo tributario dell'art. 327 cod. proc. civ. che prevedeva la decadenza dell'anno alla proposizione del ricorso" viste "le norme transitorie art. 72 comma 2 decreto 546/1992 che stabiliscono il termine da quale è attuata la normativa" e che "non producono decadenza nel termine  annuale ma nei sessanta giorni dalla notifica della sentenza che nel caso risultano rispettati >>.

5. Con il secondo motivo del ricorso incidentale, la contribuente censura la decisione per insufficiente motivazione su un fatto decisivo e controverso per il giudizio costituito dalla tempestività o meno dell'appello presentato dall'Ufficio ben oltre il termine cd. "lungo" di cui all'art. 327 cod. proc. civ. e si duole del fatto che, a fronte delle specifiche allegazioni dirette a mettere in luce la corretta lettura sistematica del d.P.R. n. 636/1972, la Commissione Centrale ha omesso la disamina delle ragioni, da essa addotte, che rendevano inapplicabile alla fattispecie in esame il disposto dell'art. 72, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992.

6. Va, preliminarmente, esaminato il secondo motivo del ricorso principale, considerato che l'eventuale rigetto della censura preclude l'esame nel merito della controversia.

7. Il motivo è infondato.

7.1. Il d.P.R. n. 636 del 1972 stabilisce all'art. 38: << La decisione è resa pubblica nella motivazione mediante deposito nella segreteria della commissione tributaria entro trenta giorni dalla data della deliberazione. Il segretario fa risultare l'avvenuto deposito, apponendo sulla decisione la propria firma e la data. Il dispositivo è comunicato alle parti entro dieci giorni dal deposito di cui al primo comma. La segreteria rilascia entro dieci giorni dalla richiesta della parte copia autentica della decisione. Le parti hanno facoltà di provvedere direttamente alla notificazione della decisione....>>.

7.2. L'art. 22 del medesimo decreto prevede : << L'appello può essere proposto nel termine di sessanta giorni decorrenti, rispettivamente, dalla notificazione o dalla comunicazione previste dal terzo comma dell'art. 38 >> e l'art. 39 dispone che << Al procedimento dinanzi alle commissioni tributarie si applicano, in quanto compatibili con le norme del presente decreto e delle leggi che disciplinano le singole imposte, le norme contenute nel Libro I del codice di procedura civile, con esclusione degli articoli da 61 a 67, dell'art. 68, primo e secondo comma, degli articoli da 90 a 97 >>.

7.3. La questione dibattuta nell'odierno ricorso è stata per la prima volta affrontata da questa Corte con sentenza n. 10456 del 1990, la quale, aderendo ai principi già espressi dalle Sezioni Unite con sentenza del 26 gennaio 1978 n. 3451, ha affermato : << La decadenza dall'impugnazione per decorso di un anno dalla pubblicazione della sentenza, prevista dall'art. 327 cod. proc. civ., non opera con riguardo alle impugnazioni delle pronunce delle commissioni tributarie di primo e di secondo grado, considerato che dette impugnazioni, nella disciplina di cui al d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636 (e successive modificazioni), trovano autonoma e completa regolamentazione, con la fissazione di specifici termini, decorrenti dalla comunicazione del dispositivo a cura della segreteria, o dalla notificazione a cura della parte interessata, ovvero, con riguardo al ricorso alla Corte d'appello, dalla scadenza del termine per adire la commissione centrale, e che, pertanto, anche alla luce delle ragioni giustificative di detta regolamentazione del processo tributario (accelerazione del passaggio in giudicato delle decisioni), resta esclusa la possibilità di un'applicazione, sia diretta che analogica, del citato art. 327 cod. proc. civ. >> (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10456 del 30/10/1990).

7.4. Tale orientamento non è stato seguito dalle Sezioni Unite di queste Corte che, con sentenza n. 668 del 1992, hanno in primo luogo rilevato che non può equiparsi la pubblicazione (di cui all'art. 327 cod. proc. civ.) alla comunicazione del dispositivo, << solo per la circostanza estrinseca che entrambi sono atti di soggetti estranei, rispetto alle parti in causa >>, dato che << la pubblicazione è l'atto senza il quale la sentenza non viene a giuridica esistenza, mentre la comunicazione è un atto estraneo e indifferente, rispetto all'esistenza della decisione, sulla quale essa non incide >>, con la conseguenza che, << mentre la pubblicazione è un atto indefettibile, la comunicazione - pur essendo doverosa - resta sempre connotata da un carattere di accidentalità, non attenendo alla perfezione della decisione >>.

Nella richiamata pronuncia le Sezioni Unite hanno, in particolare, chiarito che la comunicazione viene posta in essere <<entro dieci giorni>> dal deposito (art. 38 del d.P.R. n. 636/1972), ma l'inosservanza di tale termine (al di là di una teorica responsabilità della segreteria) non ha alcuna conseguenza, sul piano della perfezione della decisione, di guisa che una comunicazione effettuata oltre quel termine produce gli effetti che le sono propri ed una comunicazione mai effettuata rende impossibile il prodursi di quegli effetti; poiché si tratta di un atto doveroso, ma pur sempre legato alla diligenza della segreteria, il problema della stabilità della decisione rimane aperto.

Hanno a tal proposito precisato : << nella legge processuale deve trovarsi il rimedio a qualsiasi situazione patologica ed inosservanza della legge stessa, che impedisca di raggiungere il risultato a cui il processo è preordinato, cioè la cosa giudicata, entro tempi definiti e sottratti al potere dispositivo delle parti e/o alla disfunzione degli organi ausilari. Se tale rimedio si trova all'interno del processo, non vi è alcun ostacolo a rinvenirlo nell'ambito di quel modello generale che è costituito dal codice di procedura civile. Rispetto a tale operazione, non è di ostacolo l'art. 39 già citato, che richiama solo (con il limite della compatibilità) il primo libro, con esclusione di alcune norme. Non si può ritenere che il riferimento alle sole norme del primo libro del codice di procedura civile escluda tassativamente la possibilità di applicare le norme contenute negli altri libri (e segnatamente nel secondo), non essendo codificato alcun divieto dell'analogia, pur essendo necessario che di tale procedimento ricorre il presupposto, e cioè che non esista una precisa disposizione che regola il caso. Nell'ambito del procedimento tributario esiste una disciplina autonoma della decorrenza dei termini per l'impugnazione, ma tale disciplina non è esauriente, perché non prevede il caso che non si ponga in essere l'atto (comunicazione o notificazione) indispensabile per il decorso del termine. Nell’ordinamento processuale comune esiste una norma (l'art. 327 cod. proc. civ.) che assicura la soddisfazione dell'esigenza di attribuire certezza alle situazioni giuridiche definite nell'ambito del contenzioso tributario e, pertanto, ai sensi dell'art. 12, secondo comma, disp. prel. cod. civ., la lacuna riscontrata può essere colmata con il ricorso a tale norma...>>.

Sottolineando, altresì, che già in altri casi si era ritenuto di applicare l'art. 327 cod. proc. civ., pur essendo prevista una notificazione o comunicazione (da cui decorre il termine per l'impugnazione) affidata all'Ufficio e quindi sottratta alla iniziativa delle parti, hanno affermato: << esiste, insomma, una tendenza giurisprudenziale a ritenere l'operatività dell'art. 327 cod proc. civ. ogni volta che è necessario garantire quel principio generale di cui la norma costituisce positiva manifestazione, per cui la regola della decadenza è applicabile in casi diversi da quelli espressamente menzionati, purché siano espressione della medesima esigenza. Tale tendenza va seguita, perché la notificazione dell'ufficio non soddisfa la predetta esigenza, mentre il decorso di un termine da un evento obiettivo (la pubblicazione, senza la quale non esiste neppure la sentenza impugnabile) è il solo strumento sicuro per raggiungere il risultato della rimozione, in tempi ragionevoli, dello stato di incertezza che accompagna la persistente impugnabilità del provvedimento. Nell'ambito dell'art. 327 cod. proc. civ., ciò che produce la decadenza è il fatto stesso della pubblicazione, non già l'avviso del cancelliere, previsto dal secondo comma dell'art. 133 cod. proc. civ., sicché la sua mancanza non rileva...Di conseguenza, non ha rilievo che il d.P.R. n. 636 disciplini la comunicazione in modo diverso, rispetto al codice di procedura civile...>>.

7.5. Tali principi di diritto sono stati ulteriormente ribaditi dalle sentenze successive (Cass. nn. 4372 del 1994; n. 7155 del 1/8/1994; n. 6724 del 14/6/1995; n. 17498 del 9/12/2002; n. 5278 del 4/4/2003; n. 3902 del 26/2/2004; n. 18551 del 10/8/2010; n. 11621 del 15/5/2013; n. 14506 del 10/7/2015).

7.6. Le ragioni addotte dalla Agenzia delle Entrate non consentono, dunque, di discostarsi dall'insegnamento impartito dalle Sezioni Unite con le sentenze nn. 668 e 669 del 2002 e, pertanto, va ribadito che l'art. 327 cod proc. civ. è applicabile - in quanto espressione di un principio comune all'ordinario giudizio civile di cognizione e al processo tributario di cui al d.P.R. n. 636 del 1972 - anche alle impugnazioni avverso le decisioni delle Commissioni tributarie di primo e di secondo grado.

8. All'applicazione dei suddetti principi non osta la disposizione - pure richiamata dalla Commissione tributaria centrale - contenuta nell'art. 72, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992 (nel testo modificato dal d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 427) circa l'inapplicabilità dell'art. 327, comma 1, cod. proc. civ. << per i termini di impugnazione delle decisioni di primo e secondo grado e, in ogni caso, per le controversie pendenti >>, essendo l'operatività di tale norma legata all'insediamento delle nuove commissioni tributarie provinciali e regionali (art. 72, primo comma) differito al primo ottobre 1995 (art. 15, comma primo bis del d.l. 29 aprile 1994 n. 260 nel testo modificato dalla legge di conversione 27 giugno 1994, n. 413) e non essendo possibile attribuire alla disposizione stessa una valenza generale, profondamente innovativa del sistema, trattandosi di norma dettata in funzione di esigenze specifiche, correlata alla situazione transitoria da regolare e che in nessun caso può essere invocata al di fuori del contesto considerato (Cass. 14 giugno 1995 n. 6724; n. 9897 del 20/7/2001).

9. Nel caso di specie, è pacifico che la comunicazione della decisione effettuata dalla segreteria della Commissione tributaria di primo grado e la proposizione dell'appello da parte dell'Ufficio sono avvenute in data antecedente all'insediamento delle Commissioni tributarie, quando il termine previsto dall'art. 327 cod. proc. civ. era già ampiamente scaduto, per cui la disposizione invocata dalla Agenzia delle Entrate non è applicabile alla fattispecie in esame.

10. Essendo incontestato, come peraltro emerge dalla stessa sentenza impugnata, che la sentenza di primo grado pronunciata in data 14 gennaio 1987 è stata notificata in data 8 maggio 1991 e che l'appello è stato presentato in data 10 giugno 1991, non risulta rispettato il termine cd. lungo di cui all'art. 327 cod. proc. civ., con conseguente inammissibilità dell'appello dell'Ufficio.

La sentenza impugnata non si è uniformata ai principi sopra richiamati, ma poiché il dispositivo è conforme a diritto, ai sensi dell'art. 384 cod. proc. civ., deve procedersi alla sola correzione della motivazione della decisione.

11. Il rigetto del secondo motivo del ricorso principale consente di dichiarare assorbiti i restanti motivi del ricorso principale ed il ricorso incidentale.

Le spese del giudizio di legittimità seguono il criterio della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il secondo motivo del ricorso principale e dichiara assorbiti i restanti motivi del ricorso principale ed il ricorso incidentale.

Condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 10.200,00 per compensi, oltre agli esborsi liquidati in euro 200,00, alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento ed agli accessori di legge.