Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 10 marzo 2017, n. 6308

Licenziamento - Mansioni di dirigente di livello inferiore - Reintegrazione - Successivo licenziamento - Ragioni disciplinari

 

Svolgimento del processo

 

Il Tribunale di Salerno con sentenza n.1403/2003 accoglieva il ricorso proposto da P.S. nei confronti della ... volto a conseguire declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare senza preavviso irrogatogli in data 7/4/2000 dalla M.I. s.r.l. alle cui dipendenze aveva svolto attività lavorativa con qualifica dirigenziale, e lo reintegrava nel posto di lavoro condannando la società al risarcimento del danno sul rilievo essenziale che il lavoratore avesse svolto mansioni di dirigente di livello inferiore e mai di dirigente apicale.

La sentenza relativa a detto licenziamento veniva confermata dalla Corte d'Appello di Salerno, con sentenza pubblicata il 16/1/2006. Detta pronuncia veniva riformata da questa Corte con sentenza n. 897/2011, che disponeva rinvio alla Corte d'Appello di Napoli affinchè verificasse la sussistenza, in capo al P., del ruolo di dirigente ovvero di pseudo-dirigente. Nel secondo caso avrebbero dovuto rinvenire applicazione le garanzie procedurali previste dall'art. 7 St. lav, primi tre commi e le conseguenze previste per qualsiasi lavoratore subordinato; nel primo caso, le garanzie procedurali previste dall'art. 7, primi tre commi, quale che fosse il livello del dirigente (apicale, medio, minore), mentre le conseguenze sarebbero state differenziate in base al trattamento previsto dalla contrattazione collettiva.

Il giudice designato, sul rilievo che il P. rivestisse all'interno dell'assetto organizzativo aziendale, un ruolo di vero e proprio dirigente, con sentenza n. 4147/2012 dichiarava l'illegittimità del licenziamento 7/4/2000 e condannava la società esclusivamente al risarcimento del danno, nella misura di venti mensilità ed al pagamento della indennità sostitutiva del preavviso pari a dodici mensilità.

Medio tempore il lavoratore, reintegrato nel posto di lavoro in data 30/12/2002, era stato nuovamente licenziato con lettera 30/1/2003 per ragioni disciplinari.

Il Tribunale di Salerno, con sentenza in data 3/2/2009, dichiarava illegittimo detto licenziamento, ordinava la reintegra del ricorrente nel posto di lavoro e condannava la M.I. s.r.l. al risarcimento del danno nella misura di sei mensilità della retribuzione globale di fatto. Tale pronuncia veniva impugnata dalla società e dai medesimo lavoratore il quale chiedeva, con appello incidentale, il conseguimento di tutte le retribuzioni maturate dal licenziamento fino alla effettiva reintegra.

La Corte d'Appello di Salerno con pronuncia resa pubblica il 13/1/2014, dichiarava estinto il giudizio per cessazione della materia del contendere.

La Corte distrettuale perveniva a tali conclusioni sul rilievo che, a seguito della pronuncia della Corte d'Appello di Napoli in sede di rinvio, era stata definitivamente accertata la risoluzione del rapporto di lavoro inter partes alla data del 7/4/2000 con applicazione della sola tutela risarcitoria ed il venir meno della successiva reintegra del lavoratore disposta dalla società.

Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione il P., affidato ad unico motivo illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c.

Resiste con controricorso la società intimata.

 

Motivi della decisione

 

1. Con unico motivo si deduce omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia ex art. 360 n. 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 2105- 2106 c.c., art. 7 e 18 L. 300/70, 115 e 116 c.p.c., 111 Cost.

Il ricorrente lamenta che la Corte di merito, nel dichiarare cessata la materia del contendere, abbia omesso di pronunciarsi su un fatto decisivo per la soluzione della controversia insorta fra le parti a seguito del secondo licenziamento comminato. Deduce che gli approdi ai quali è pervenuto il giudice dell'impugnazione non siano coerenti con i principi affermati da questa Corte secondo i quali la pronuncia di cessazione della materia del contendere postula il venir meno di ogni motivo di contrasto, laddove nello specifico, detto requisito era da ritenersi carente, avendo egli manifestato il perdurante interesse alla conferma della illegittimità anche del secondo licenziamento intimatogli.

2. Il motivo è privo di pregio per plurime concorrenti ragioni.

Non può tralasciarsi di considerare innanzitutto che le modalità espositive del ricorso, articolato mediante riproduzione integrale di tutti gli atti del giudizio di merito, riecheggiano le forme proprie del cd. "ricorso farcito" già definito in termini di inammissibilità, dalla giurisprudenza di questa Corte.

In numerosi approdi è stato infatti affermato che ai fini del requisito di cui all'art. 366 c.p.c., n.3, la pedissequa riproduzione dell'intero, letterale contenuto degli atti processuali (come verificatosi nella specie) è, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso (vedi Cass. 30/09/2014 n. 20589, Cass. S.U. 11/4/2012, n. 5698). In particolare, in materia di ricorso per cassazione, la pedissequa riproduzione di atti processuali e documenti, ove si assuma che la sentenza impugnata non ne abbia tenuto conto o li abbia mal interpretati, non soddisfa il requisito di cui all'art. 366 c.p.c., comma 1, n.3, in quanto costituisce onere del ricorrente operare una sintesi del fatto sostanziale e processuale, funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure, al fine di evitare di delegare alla Corte un'attività, consistente nella lettura integrale degli atti assemblati finalizzata alla selezione di ciò che effettivamente rileva ai fini della decisione, che, inerendo al contenuto del ricorso, è di competenza della parte ricorrente e, quindi, del suo difensore (cfr. ex plurimis, Cass. 9/7/2013, n. 17002, Cass. 21/11/2013, n. 26277). D'altra parte, il rispetto del canone della chiarezza e della sinteticità espositiva rappresenta l’adempimento di un preciso dovere processuale il cui mancato rispetto, da parte del ricorrente per cassazione, lo espone al rischio di una declaratoria d'inammissibilità dell'impugnazione (Cass. 22/6/2006 n. 19100), principalmente in quanto esso collide con l'obiettivo di attribuire maggiore rilevanza allo scopo del processo costituito dalla tendente finalizzazione ad una decisione di merito, al duplice fine di assicurare un'effettiva tutela del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., nell'ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all'art. 111, comma 2, e in coerenza con l'art. 6 CEDU, nonché di evitare di gravare sia lo Stato sia le parti di oneri processuali superflui.

3. Peraltro, la doglianza, con la quale si stigmatizza l'impugnata sentenza per omessa motivazione su di un punto decisivo per la controversia, è priva di fondamento ove si consideri che la Corte distrettuale ha specificamente argomentato anche in relazione al provvedimento espulsivo intimato il 30/1/2003.

Al riguardo non può mancarsi di considerare che il nuovo testo dell'art.360 cod. proc. civ., n.5 applicabile alla fattispecie ratione temporis, introduce nell'ordinamento un vizio specifico che concerne l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

La parte ricorrente deve dunque indicare - nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e all'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), - il "fatto storico", i! cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui ne risulti l'esistenza, il "come" e il "quando" (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la "decisività" del fatto stesso" (Cass. sez. un. 22/9/2014 n. 19881). Nella riformulazione dell'art. 360 c.p.c., n. 5 è dunque scomparso ogni riferimento letterale alla "motivazione" della sentenza impugnata e, accanto al vizio di omissione (seppur cambiato d'ambito e di spessore), non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà. Ciò a supporto della generale funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.

In questa prospettiva, proseguono le Sezioni Unite, la scelta operata dal legislatore è quella di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto dall'art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per "mancanza della motivazione". Pertanto, l'anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità quale violazione di legge costituzionalmente rilevante attiene solo all'esistenza della motivazione in se, e si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili", nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile".

4. Applicando i suddetti principi alla fattispecie qui scrutinata, non può prescindersi dal rilievo che lo specifico l'iter motivazionale seguito dai giudici dell'impugnazione non risponde ai requisiti dell'assoluta omissione, della mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell'illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l’esercizio del sindacato di legittimità.

La Corte di merito ha infatti accertato che il rapporto di lavoro inter partes era definitivamente cessato alla data del primo licenziamento, in seguito alla sentenza passata in giudicato con la quale la Corte d'Appello di Napoli, in sede di rinvio, aveva acclarato l'illegittimità di detto licenziamento e condannato la M. s.r.l. alla sola tutela risarcitoria.

5. Gli approdi ai quali è pervenuta la Corte distrettuale sono conformi a diritto, perché coerenti con i dieta di questa Corte secondo cui, nell'ipotesi in cui il lavoratore riammesso al lavoro a seguito di declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli venga successivamente ancora licenziato ed impugni il nuovo licenziamento, il giudice chiamato a giudicare sul secondo recesso deve emettere sentenza di cessazione della materia del contendere ove accerti che, nelle more, il primo licenziamento sia poi stato ritenuto legittimo dal giudice dell'impugnazione, giacché quest'ultimo, riformando la sentenza di primo grado che aveva ordinato la reintegrazione del lavoratore, ha restituito a quel primo licenziamento la sua piena efficacia estintiva del rapporto, rendendo non più necessaria una decisione sul secondo licenziamento, intervenuto solo in quanto il rapporto era stato di fatto riattivato in seguito alla pronuncia poi riformata in sede di impugnazione. Ciò senza che possa neppure venire in considerazione la richiesta di risarcimento del danno relativamente al secondo recesso, atteso che l'accertamento giudiziale dell'intrinseca ingiustizia del primo ordine di reintegrazione travolge tutti gli effetti che in quell'ordine trovavano fondamento e che non può essere invocato il disposto dell'art. 2126 cod. civ., tale norma trovando applicazione solo con riferimento alle retribuzioni maturate dal lavoratore dopo la reintegrazione e non alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella dell'ordine di reintegra e liquidate a titolo risarcitorio (vedi Cass. 27/6/2000 n. 8751).

5. I principi enunciati si attagliano alla fattispecie qui scrutinata, giacché, per effetto della sentenza emessa in sede di rinvio dalla Corte d'Appello di Napoli e passata in giudicato, il rapporto inter partes si era definitivamente risolto in seguito al licenziamento intimato il 7/4/2000, in relazione alla cui illegittimità era stata accordata al lavoratore esclusivamente una tutela di tipo risarcitorio. Quale corollario di detti principi discende l'assorbimento di ogni questione inerente al provvedimento di reintegra del lavoratore, successivo al secondo licenziamento intimato in data 30/1/2003 a seguito del pregresso ripristino in sede giudiziale del rapporto stesso, e la incensurabilità della pronuncia impugnata.

7. In definitiva, alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.

Il governo delle spese inerenti al presente giudizio di legittimità segue il regime della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata.

Infine si dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell'art. 13 comma 1 quater d.p.r. n. 115 del 2002.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 2.500,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15%, ed accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.