Prassi - CONSIGLIO NAZIONALE DOTT COMM E ESP CON - Nota 05 giugno 2017, n. 30

Documento "La chiusura del fallimento dopo la riscrittura dell’art. 118 L.F."

 

Ho il piacere di informarLa che il Consiglio Nazionale, ha pubblicato il documento "La chiusura del fallimento dopo la riscrittura dell’art. 118 L. Fall." nel quale vengono affrontate le tematiche connesse alla chiusura anticipata del fallimento.

Il documento propone una sintesi delle problematiche emerse a seguito della modifica apportata all’art. 118 l.f. dal d.l. n. 83/2015, convertito dalla legge n. 132/2015, e un'analisi ragionata delle eventuali proposte di modifica che potrebbero essere recepite in occasione di progetti di riforma delle procedure concorsuali.

La formulazione del secondo comma dell'art. 118 l.f., infatti, è all'origine di molteplici questioni relative agli adempimenti che il curatore deve porre in essere al verificarsi delle menzionate ipotesi. Testualmente, il secondo comma dell'art. 118 l.f. prevede che la chiusura della procedura di fallimento nel caso di cui al n. 3) - vale a dire quando è compiuta la ripartizione dell'attivo, - e nei casi di cui al n. 4) - vale a dire quando la continuazione della procedura non consente di soddisfare neppure in parte i creditori - ove si tratti di fallimento di società, comporta la cancellazione della stessa dal registro delle imprese.

La stessa disposizione aggiunge che, nel caso di ripartizione dell'attivo, la chiusura del fallimento non è impedita dalla pendenza di giudizi. Il curatore, in questo caso, può mantenere la legittimazione processuale anche nei successivi stati e gradi del giudizio, fino alla definitiva conclusione della lite.

La norma disciplina, quindi, le modalità con cui tali vicende possono proseguire post chiusura del fallimento, stabilendo la gestione delle spese e degli introiti relativi ai giudizi pendenti, con eventuali riparti successivi. Non sono da trascurare le previsioni di cui all'art. 120 l.f., ultimo comma, in forza delle quali, in pendenza di giudizi pendenti, il giudice delegato e il curatore restano in carica per gli adempimenti necessari.

Sin da una sommaria lettura delle disposizioni, risultano evidenti le importanti ricadute che l'applicazione delle previsioni contenute nell'art. 118, comma secondo, l.f. può comportare, sia per quanto concerne gli aspetti civilistici, sia per quanto attiene agli aspetti fiscali (chiusura del conto corrente intestato alla procedura, chiusura della partita IVA, accantonamenti per spese future in considerazione della definizione dei giudizi pendenti, liquidazione di un ulteriore compenso per il liquidatore).

Il documento si sofferma sulle pronunce della giurisprudenza e sulle istruzioni diramate dai Tribunali, mettendo in luce come una "gestione" prudente da parte del curatore debba comportare un'attenta valutazione delle ipotesi riconducibili alle fattispecie di cui all'art. 118, comma secondo, n. 3, l.f., al fine di ottenere espressa autorizzazione, nel decreto di chiusura emesso dal Tribunale, a non provvedere alla cancellazione della società dal registro delle imprese, alla chiusura del conto corrente del fallimento, alla chiusura della partita IVA.

Il documento è anche reperibile sul sito internet vwwv.commercialisti.it nella sezione "Documenti, Studi e Ricerche" dell'Area Istituzionale.

 

Allegato

LA CHIUSURA DEL FALLIMENTO DOPO LA RISCRITTURA DELL’ART. 118 L. FALL.

Riflessioni e suggerimenti operativi

 

Premessa

1. Cancellazione ed estinzione della società in ambito civilistico

2. Cancellazione ed estinzione della società in ambito civilistico: la successione nelle posizioni passive

3. Chiusura del fallimento ed estinzione della società in presenza di giudizi pendenti: la nuova formulazione degli artt. 118 e 120 L.F.

3.1. Le liti pendenti

3.2. Attività di liquidazione svolta dal curatore

3.3. Estinzione della società cancellata .

3.4. Rendiconto e compenso del curatore

3.5. Applicazione dell’art. 182, comma 2 L.F. - le prassi dei Tribunali

4. La chiusura del fallimento con giudizi pendenti - profili fiscali

4.1. Imposte dirette .

4.2. IVA

4.3. Ritenute

5. Sintesi delle posizioni e proposte operative

6. Una possibile evoluzione normativa

Modifiche normative

 

Premessa

La possibilità di addivenire alla chiusura di un fallimento in presenza di giudizi ancora pendenti rappresenta senza dubbio una delle modifiche più rilevanti fra quelle introdotte dal Legislatore con il D.L. 27 giugno 2015, n. 83, non fosse altro che per il numero di procedure potenzialmente coinvolte.

Spinto dall’esigenza di uniformarsi ai principi dettati in ambito comunitario in tema di ragionevole durata del processo, il Legislatore nazionale, oltre ad aver approvato una legge specifica in materia (L. 24 marzo 2001, n. 89), ha tentato di recepire i valori sovranazionali anche nel caso di fallimento con la modifica dell’art. 118 L.F. Testualmente, il secondo comma dell’art. 118 L.F., prevede che la chiusura della procedura di fallimento nel caso di cui al n. 3) - vale a dire quando è compiuta la ripartizione dell’attivo, - e nei casi di cui al n. 4) - vale a dire quando la continuazione della procedura non consente di soddisfare neppure in parte i creditori - ove si tratti di fallimento di società, comporta la cancellazione della stessa dal registro delle imprese.

La stessa disposizione aggiunge che, nel caso di ripartizione dell’attivo, la chiusura del fallimento non è impedita dalla pendenza di giudizi. Il curatore, in questo caso, può mantenere la legittimazione processuale anche nei successivi stati e gradi del giudizio, fino alla definitiva conclusione della lite.

La norma disciplina, quindi, le modalità con cui la vicenda può proseguire post chiusura del fallimento, stabilendo la gestione delle spese e degli introiti relativi ai giudizi pendenti, con eventuali riparti successivi.

La stessa norma va messa in relazione con quanto disposto dall’art. 120 L.F., ultimo comma, dove, con riferimento ai profili organizzativi, si specifica che, in pendenza di giudizi pendenti, il giudice delegato e il curatore restano in carica per gli adempimenti necessari.

È evidente come la norma in esame abbia tentato di affrontare in poche righe, e peraltro in modo non adeguato (NOTA 1), un problema complesso per le notevoli ricadute sia in ambito civilistico che fiscale.

Occorre pertanto chiarire:

- se la chiusura del fallimento rappresenti solo una fictio iuris ovvero abbia un’efficacia sostanziale;

- se, in base al tenore letterale dell’art. 118, secondo comma, L.F., una volta intervenuto il decreto di chiusura emesso dal Tribunale ai sensi dell’art. 119 L.F., il curatore sia tenuto a chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese da cui discenderà la successiva estinzione di quest’ultima.

Da un punto di vista procedurale, poi, andranno comprese le modalità di gestione dei giudizi pendenti e la imputazione/destinazione dei risultati relativi, nonché il loro trattamento fiscale ai fini IVA, ai fini delle imposte dirette e delle relative ritenute. Ciò in particolar modo in caso di soddisfacimento integrale dei creditori, in relazione alla destinazione degli eventuali avanzi.

 

1. Cancellazione ed estinzione della società in ambito civilistico

In presenza di chiusura del fallimento di società per ripartizione dell’attivo, il curatore, in virtù di quanto precisato dall’art. 118, secondo comma, L.F. è tenuto a chiedere la cancellazione dal registro delle imprese della stessa.

Come è noto, infatti, alla cancellazione dal registro consegue l’estinzione della società.

Una tale disposizione, dal punto di vista letterale, risulta applicabile anche in presenza di giudizi pendenti, risultando quest’ultima una variante del caso di chiusura in presenza di riparto dell’attivo, anzi una semplice specificazione del caso generale. In altre parole, la chiusura in presenza di giudizi pendenti non pare costituire un’autonoma fattispecie e neppure una fictio iuris.

Si badi bene che la società si estingue per effetto della cancellazione in quanto, stando all’interpretazione letterale della disposizione, non è consentito al curatore, né al registro delle imprese esprimersi circa l’opportunità o meno della cancellazione all’atto di compilazione della domanda, essendo quest’ultima un atto dovuto.

Le disposizioni fallimentari evidenziano, quindi, che la chiusura del fallimento con giudizi pendenti rappresenta un’ipotesi di chiusura per ripartizione finale dell'attivo, senza deroghe o eccezioni, con il conseguente riespandersi dei diritti dei creditori (e dei soci).

Da quanto sopra esposto in ordine alle conseguenze riconducibili all’iscrizione della cancellazione della società dal registro delle imprese, sembra opportuno svolgere una sommaria analisi della disciplina codicistica.

L’art. 2495 c.c.prevede che:

"Approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese.

Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valer i loro crediti nei confronti dei soci, fino a concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi.

La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società ".

Nonostante la lettera della norma potesse apparire di facile interpretazione, anche all’indomani della riforma del diritto societario dottrina e giurisprudenza si sono divise fra quanti ritenevano che ad essa dovesse attribuirsi efficacia costitutiva (NOTA 2), e quanti sostenevano che la stessa avesse, invece, efficacia meramente dichiarativa (NOTA 3).

Solamente a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite (NOTA 4)è stato possibile superare tali contrasti, sconfessando quella corrente di pensiero secondo la quale la società poteva conservare una legittimazione processuale e sostanziale fino alla completa definizione di tutti i rapporti pendenti.

L’intervento delle Sezioni Unite ha, altresì, chiarito che, ancorché le regole declinate nel codice civile siano indirizzate unicamente alla liquidazione e alla successiva iscrizione della cancellazione dal registro delle imprese delle società di capitali, l’effetto costitutivo della cancellazione rappresenta un principio generale, e come tale valevole per tutti i tipi di società, in quanto, ferme restando le specificità del procedimento di liquidazione all’evidenza differente nelle società di persone, occorre comunque garantire la parità di trattamento dei creditori e la certezza delle situazioni giuridiche venutesi a creare a seguito del compimento della liquidazione (NOTA 5).

È dunque chiaro che alla cancellazione della società corrisponde la sua estinzione, né la legge ammette una sua reviviscenza e una riapertura della liquidazione nel caso in cui dovessero emergere sopravvenienze.

Il definitivo abbandono delle posizioni della giurisprudenza vigenti ante riforma del diritto societario, secondo le quali non vi sarebbe estinzione fino a quando vi siano rapporti ancora da definire, è stato chiarito successivamente sempre dalle Sezioni Unite (NOTA 6), le quali hanno ulteriormente precisato come, una volta cancellata dal registro delle imprese, la società si considera estinta con la conseguenza di non poter più agire, né essere convenuta in giudizio. Laddove all’estinzione della società, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non dovesse corrispondere il venire meno di ogni rapporto giuridico dell’ente oramai estinto, si determina, secondo la Suprema Corte, un fenomeno di tipo successorio tale per cui:

a. le obbligazioni residue si trasferiscono in capo ai soci nei limiti di quanto incassato per effetto della liquidazione ovvero, se tale era il loro regime di responsabilità per le obbligazioni sociali in pendenza di società, illimitatamente;

b. i beni e diritti noti si trasferiscono ai soci in regime di comunione (o di contitolarità) indivisa, anche se non compresi nel bilancio finale di liquidazione;

c. le c.d. "mere pretese" (NOTA 7)si considerano come rinunciate.

 

2. Cancellazione ed estinzione della società in ambito civilistico: la successione nelle posizioni passive

L’emersione delle c.d. sopravvenienze passive (NOTA 8)è disciplinata dalla legge.

L’art. 2495, secondo comma, c.c., contempla l’ipotesi in cui i creditori possano restare insoddisfatti anche a seguito dell’estinzione della società - che resta comunque ferma - stabilendo che in tal caso questi ultimi possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino a concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e, nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi ultimi.

Sul presupposto che non può consentirsi al debitore di spogliare unilateralmente il creditore del suo diritto di credito, è stato escluso innanzitutto che l’estinzione della società possa estinguere anche i debiti non liquidati (NOTA 9).

In altre parole l’estinzione della società determina solo l’interruzione di eventuali procedimenti giudiziari iniziati e ancora in corso, i quali potranno proseguire nei confronti degli ex soci, in questo modo verrebbe recuperato il generale principio di cui all’art. 303 c.p.c., e la posizione dei soci equiparata, quanto agli effetti processuali, a quella di coloro che succedono alla persona fisica deceduta.

In linea generale è noto che i soci rispondono delle obbligazioni sociali in funzione del tipo di società e nei limiti di quanto percepito dalla liquidazione.

Nell’eventualità di mancata percezione di un residuo attivo da parte dei soci - ipotesi tutt’altro che infrequente - il socio si verrà a trovare nella stessa situazione in cui si potrebbe trovare un erede: in caso di riconoscimento del credito azionato, la condanna opererebbe nei riguardi degli ex soci, ma questi ultimi, non avendo percepito nulla, non potranno incorrere in ipotesi di responsabilità di tipo patrimoniale (pur succedendo nei rapporti societari) mancandone il presupposto fondamentale. In sostanza, non si genera nessun effetto estintivo né sul processo, né sulla legittimazione passiva degli ex soci, i quali, dunque, succederanno comunque nel processo (e sempre che il creditore non intenda abbandonare l’azione).

L’unica vera prospettiva di realizzo, a quel punto, rimarrebbe l’avvio di una successiva autonoma azione legale nei confronti degli ex soci dimostrando l’esistenza di ulteriori sopravvenienze attive non considerate nel bilancio di liquidazione, con conseguente aumento del residuo attivo "effettivamente" incassabile, a discapito dei creditori sociali.

 

3. Chiusura del fallimento ed estinzione della società in presenza di giudizi pendenti: la nuova formulazione degli artt. 118 e 120 L.F.

La possibilità di addivenire alla chiusura di un fallimento in pendenza di un giudizio rappresenta senza dubbio una delle modifiche più discusse fra quelle introdotte dal Legislatore nel corso degli ultimi anni.

Testualmente, il secondo comma dell’art. 118 L.F. nell’attuale formulazione dispone che "La chiusura della procedura di fallimento nel caso di cui al n. 3) non è impedita dalla pendenza di giudizi...".

Il successivo art. 120 L.F., a completamento della disciplina, dispone che, nell’ipotesi di chiusura in pendenza di giudizi, "(omissis)... il giudice delegato e il curatore restano in carica ai soli fini di quando ivi previsto... (omissis)".

Queste norme, unitamente considerate con le modifiche apportate agli artt. 43 (NOTA 10)e 104 ter (NOTA 11)L.F., palesano la grande attenzione del Legislatore verso il tema della ragionevole durata del processo.

Le disposizioni in esame necessitano però di essere coordinate con quelle che impongono al curatore di cancellare la società dal registro imprese a seguito della chiusura (NOTA 12). Infatti, come già visto, poiché l’ipotesi della chiusura in presenza di giudizi pendenti è una declinazione del caso generale di chiusura a seguito di riparto dell’attivo, e non sono poste dalla normativa eccezioni di sorta al proposito, non dovrebbero aversi differenze fra le due fattispecie, con la conseguenza che il curatore deve chiedere la cancellazione dal registro delle imprese della società ai sensi dell’art. 118 L.F., mentre la persona fisica ritorna ad essere debitrice per i debiti non soddisfatti dalla procedura fallimentare, ad eccezione del caso di esdebitazione.

La circostanza che l’art. 118 L.F. contenga un ulteriore e specifico caso di chiusura della procedura, sembra trovare conferma nell’ultimo comma, ultimo periodo, dell’art. 120 L.F., dove si precisa che "...In nessun caso i creditori possono agire su quanto è oggetto dei giudizi medesimi". Se la procedura fosse ancora aperta, non sarebbe necessaria tale precisazione, stante le regole concorsuali.

Ancora, la disposizione in esame, evidenzia che, anche in presenza di sopravvenienze attive, non si origina la riapertura del fallimento di cui all’art. 121 L.F., risultando conseguentemente la chiusura "definitiva".

A ben guardare, la fattispecie comporta una più approfondita applicazione di quanto già previsto nell’art. 117, secondo comma del RD n. 267/1942. Tale disposizione, che non ha subito cambiamenti con l’introduzione della novella, indica che nell’ambito del piano di riparto finale alcuni importi possono essere "congelati" in attesa del verificarsi della condizione o della decorrenza del termine ai fini della definitività del provvedimento (NOTA 13). Ed anche in tale ipotesi può esservi un riparto supplementare, con relativa attività del curatore (NOTA 14).

Tali accantonamenti non impediscono la chiusura della procedura.

Con le modifiche dell’art. 118 L.F. , dal punto di vista sostanziale, nulla si è modificato in tal senso.

È infatti chiaro che, anche in precedenza, si poteva avere una chiusura della procedura, pur in presenza di operazioni non ancora perfezionate in via definitiva.

Ancora, va osservato come il CAP - codice assicurazioni private - (D.Lgs. 7.9.2005, n. 209), all’art. 261, già prevede quanto è stato oggetto di innovazione da parte della legge fallimentare con l’art. 118, secondo comma, secondo periodo (NOTA 15).

Nel complesso, la disposizione in esame origina una serie di dubbi che di seguito si illustrano con evidenza anche di possibili soluzioni.

 

3.1. Le liti pendenti

Numerosi sono stati i dibattiti sorti in dottrina riguardo a tale nozione. A tal proposito ci si è chiesto se tali debbano intendersi solo i procedimenti aventi ad oggetto situazioni soggettive attive o anche quelle passive ovvero se, fra quelle attive, debbano considerarsi solamente quelle inerenti a rapporti preesistenti al fallimento (ad esempio risarcimenti danni), o solo quelle di pertinenza della massa (ad esempio le azioni revocatorie), ovvero ancora se potevano considerarsi anche le azioni esecutive nelle quali il curatore fosse subentrato (ad esempio perché promosse da un creditore fondiario o per dare esecuzione a pregresse sentenze di condanna rese a carico di terzi soggetti, debitori del fallimento), oppure in caso di costituzione quale parte civile in un giudizio penale.

Chi si è occupato del tema (NOTA 16), ha avuto modo di osservare come, distinguere fra azioni della massa ed azioni derivanti dal patrimonio del fallimento, in realtà, determini un notevole svuotamento di significato della norma e, soprattutto, un evidente passo indietro rispetto al suo vero obiettivo, rappresentato dalla volontà di arginare la marea di ricorsi depositati in applicazione della Legge Pinto.

A riprova dell’esattezza di una simile prospettazione, è stato osservato come l’art. 120, comma 2 preveda l’improcedibilità, per effetto della chiusura del fallimento, delle "...azioni esperite dal curatore per l’esercizio dei diritti derivanti dal fallimento."

Poiché la continuazione delle liti pendenti è riferita alla sola ipotesi di chiusura di cui al nr. 3 dell’art. 118 L.F., mentre l’art. 120, comma 2 parla genericamente di azioni derivanti dal fallimento, è evidente che quest’ultima disciplina troverà applicazione rispetto ai soli numeri 1), 2) e 4) dell’art. 118 L.F.

Parte della dottrina ha tracciato una linea di confine fra tutti quei procedimenti che abbiano quale effetto sperato il rientro diretto di denaro nell’attivo della procedura da quelle che, invece, tendono a far rientrare nel patrimonio solo i beni (e che, quindi, necessitino di una successiva attività liquidatoria per dare concreta attuazione alle sentenze).

L’espressione letterale utilizzata pare alludere a nozioni tipiche delle procedure cognitive ma totalmente estranee a quelle esecutive, in cui il riferimento classico è al procedimento.

Seppure non si registri unanimità di vedute, si tende a obiettare che l’esclusione delle azioni esecutive per motivi di carattere letterale vanificherebbe la funzione dell’istituto stesso.

Il dibattito ha avuto origine dall’analisi della disciplina recata dall’art. 41 TUB in materia di credito fondiario in caso di fallimento: trattasi, senza dubbio, di azioni esecutive pendenti su beni già appresi all’attivo del fallimento.

L’art. 116 L.F., si è detto, prevede la presentazione del conto della gestione fallimentare solamente allorché sia stata ultimata la liquidazione dell’attivo.

Dunque, onde pervenire al riparto finale (previsto dal n .2 dell’art. 118 L.F.), è necessario aver liquidato tutti gli elementi già acquisiti all’attivo della procedura, potendosi allora rinviare la liquidazione di quanto non ancora incassato.

Immaginare che il fallimento possa chiudersi in pendenza di queste azioni equivarrebbe ad ammettere che si possa chiudere pur non avendo già liquidato l’attivo disponibile, in netto contrasto con gli artt. 116 e 117 L.F.

Analogamente, anche nel caso in cui si sia già ottenuta una sentenza di condanna favorevole e si avvii un procedimento teso alla sua concreta attuazione, ammettere la possibilità di chiusura ex art. 118 n. 2 L.F.

potrebbe originare un evidente contrasto con gli stessi artt. 116 e 117 L.F.

Se il credito è già stato accertato, significa che esso figura fra gli elementi dell’attivo fallimentare; di conseguenza, ammettere la possibilità di chiudere il fallimento in pendenza di un’azione esecutiva significherebbe ipotizzare una possibile chiusura senza aver prima liquidato l’intero attivo disponibile.

 

3.2. Attività di liquidazione svolta dal curatore

La disposizione in commento non prevede nulla in ordine ai poteri liquidatori concessi agli organi sopravvissuti alla chiusura (giudice delegato e curatore); la norma si sofferma unicamente sulla ripartizione di eventuali sopravvenienze attive.

Tale circostanza ha causato l’apertura di un dibattito circa la possibilità di addivenire ad una fase liquidatoria post chiusura del fallimento.

Secondo alcuni commentatori (NOTA 17), mancando questi poteri, non potrebbe aver luogo nessuna liquidazione, con evidenti ripercussioni restrittive sul perimetro delle possibili azioni che legittimerebbero la chiusura della stessa procedura.

Se cosi fosse, dovrebbero allora essere escluse tutte quelle azioni aventi ad oggetto la possibile retrocessione di beni nella disponibilità del fallimento.

Deve però tenersi in debita considerazione che il legislatore utilizza una terminologia alquanto ampia e generica sia nella formulazione dell’art. 118, comma 2 (NOTA 18), che dell’art.120 (NOTA 19), circostanza che pone una tale ricostruzione in netto contrasto con il dettato normativo.

A parte la sua infelice formulazione testuale, per dare risposta al problema sollevato è necessario prendere le mosse dalla ratio della norma: se lo spirito della norma mira a consentire al curatore di conseguire un risultato utile per la massa dei creditori e se, pacificamente, si ammette che egli possa agire esecutivamente per tentare di dare esecuzione ad una condanna rimasta priva di spontanea attuazione, allora è indubbio che quest’ultimo possa avviare anche ad una attività di liquidazione.

Qualsiasi ragionamento contrario, svuoterebbe di significato l’intera disposizione, arrivando, addirittura, a conclusioni a dir poco paradossali.

Se, infatti, ottenuta una sentenza di condanna ed esperita con esito favorevole una successiva azione esecutiva, il curatore non potesse liquidare i beni pignorati, si dovrebbe concludere che gli stessi tornerebbero nella disponibilità del debitore perché sottratti dallo stesso art. 118 comma 2 (NOTA 20)a possibili nuove azioni esecutive da parte dei creditori.

Pare invece ammissibile la rinuncia all’attività di liquidazione ad opera del curatore laddove le relative attività si presentino manifestamente non convenienti ex art. 104 - ter comma 8 L.F.

Nel silenzio della legge, sembrerebbe ragionevole che debba essere il Tribunale, nel decreto di chiusura, a determinare quali debbano essere le modalità della liquidazione.

 

3.3. Estinzione della società cancellata

L’art. 10 L.F. ammette la possibilità di chiedere (e dichiarare) il fallimento di una società benché cancellata dal registro delle imprese a condizione che l’istanza pervenga entro un anno dalla cancellazione.

Onde fugare il campo da possibili dubbi interpretativi, si possono richiamare in argomento i precedenti delle tre sentenze gemelle delle Sezioni Unite del 2013 (n. 6070; 6071 e 6072).

In tale occasione, infatti, la Corte ha chiarito che non vi è perdita da parte della società della capacità di stare in giudizio nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, e che "la possibilità espressamente contemplata dalla legge fallimentare, art. 10, che una società sia dichiarata fallita entro l’anno dalla sua cancellazione dal registro, comporta, necessariamente, che tanto il procedimento per dichiarazione di fallimento quanto le eventuali fasi di impugnazione continuino a svolgersi nei confronti della società (e per essa del suo legale rappresentante), ad onta della sua cancellazione dal registro; è giocoforza ritenere che anche nel corso della conseguente procedura concorsuale la posizione del fallito sia sempre impersonata dalla società e da chi legalmente la rappresenta. È una fictio iuris che postula come esistente, ai soli fini del procedimento concorsuale, un soggetto oramai estinto (come del resto accade anche per l’imprenditore persona fisica che venga dichiarato fallito entro l’anno dalla morte) e dalla quale non si potrebbero trarre argomenti sistematici da utilizzare in ambiti processuali diversi".

Come accennato più volte, altro passaggio di rilievo riguarda la cancellazione, con la chiusura del fallimento da parte del curatore, della società dal registro delle imprese. Dal testo della legge sembra evincersi che l’effetto della cancellazione è "automatico" ed è previsto dall’art. 118 L.F. comma 2 (NOTA 21). Sono evidenti le ricadute sul socio illimitatamente responsabile della questione (NOTA 22)e l’efficacia costitutiva per le società di capitali.

Il punto pare di assoluto rilievo, ai fini delle conseguenze fiscali, ma anche fallimentari.

A favore dell’applicazione della disposizione, e quindi della cancellazione della società dal registro delle imprese, sta il fatto che il disposto introdotto non deroga espressamente alla previsione che obbliga la cancellazione. Ne conseguirebbe l’obbligo per il curatore in tal senso. Tale conclusione pare altresì in linea con la precisazione in base alla quale la procedura è chiusa e il fallimento non viene riaperto neppure in presenza di sopravvenienze attive. Che il fallimento non si riapra neppure qualora si originino sopravvenienze attive a seguito della conclusione dei giudizi pendenti, permette di confermare la necessità della cancellazione dal registro delle imprese al ricorrere dei presupposti di cui all’art. 118, n. 3) e n. 4), L.F., con l’opportuna precisazione che il fallimento è chiuso e pertanto non prosegue, pur proseguendo le liti pendenti e pur mantenendo il curatore legittimazione processuale per queste ultime, anche nei successivi stati e gradi del giudizio ai sensi ex art. 43 L.F., e pur essendo prevista dalla legge l’ultrattività delle funzioni anche per il giudice delegato ai sensi dell’art. 120, comma 5, L.F.

A ben vedere l’art. 118 L.F. prevede unicamente l’obbligo per il curatore di chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese subordinatamente alla ricorrenza delle condizioni di cui ai numeri 3) e 4).

Stando all’interpretazione letterale della disposizione, non è consentito al curatore, né al registro delle imprese di esprimersi circa l’opportunità della cancellazione all’atto di compilazione della domanda, essendo quest’ultima un atto dovuto. Con il corollario che, una volta divenuto efficace il decreto del tribunale di chiusura emesso ai sensi dell’art. 119 L.F., il curatore è tenuto a chiedere la cancellazione da cui discenderà la successiva estinzione della società per quanto previsto dall’art. 2495 c.c.

Occorre chiarire, senza alcuna pretesa di esaustività, che il procedimento declinato nell’art. 118 L.F. è relativo alla cancellazione e non all’estinzione della società a seguito della cancellazione. Con il corollario che la specialità della legge fallimentare si pone in questo contesto relativamente al procedimento di cancellazione per la cui attivazione agisce il curatore della società, chiuso il fallimento, e non gli organi di amministrazione.

 

3.4. Rendiconto e compenso del curatore

Il curatore, in sede di chiusura del fallimento con giudizi pendenti dovrà considerare, nell’ambito della rendicontazione e della pianificazione del riparto, le uscite ancora da sostenere al fine di gestire la fase dei "giudizi pendenti" ed illustrare le valutazioni a tal proposito compiute. Il curatore dovrà porre in essere una stima puntuale di tali spese, anche considerando il proprio ulteriore compenso. Alla chiusura dei giudizi pendenti si dovrà procedere nuovamente alla rendicontazione finale ed al piano di riparto. In relazione ad eventuali riparti intermedi si applicheranno le ordinarie regole di cui all’art. 110 e ss. L.F. (NOTA 23).

 

3.5. Applicazione dell’art. 182, comma 2 L.F. - le prassi dei Tribunali

Come più volte sottolineato, la nuova formulazione dell’art. 118 L.F. ha fatto sorgere notevoli difficoltà interpretative a cui anche le prassi dei Tribunali hanno cercato di dare risposta.

Innanzitutto è necessario chiarire i casi in cui è possibile procedere alla "chiusura anticipata" del fallimento.

Come accennato in precedenza, la norma stabilisce che ciò possa avvenire solo in seguito alla ripartizione dell’attivo e, di conseguenza, sono da scartare le ipotesi d’applicazione per i casi nn. 1) e 2) dell’art. 118 L.F., poiché la procedura non avrebbe interesse a proseguire dei giudizi in mancanza di creditori da soddisfare.

Differente è il caso n. 4) dell’art. 118 L.F., secondo il quale sembrerebbe che, nei casi in cui la procedura non disponga ancora di liquidità da distribuire ai creditori, pur in presenza di giudizi attivi pendenti, non si possa procedere alla "chiusura anticipata". In realtà, recente giurisprudenza (Tribunale di Forlì, 3 Febbraio 2016) ha stabilito, sulla base di un’interpretazione letterale della norma, che è possibile procedere alla chiusura anticipata del fallimento anche nel caso di mancanza attuale dell’attivo, poiché è necessario tener conto che i giudizi attivi in corso permettono di avere future potenzialità di ripartizione e, quindi, non è giusto considerare una tale procedura strettamente riferibile al caso n. 4) dell’art. 118, comma 1, L.F. La ratio di questa scelta è nell’evidente disparità di trattamento che si verrebbe a creare "rispetto ai fallimenti che siano invece in grado di distribuire anche solo pochi spiccioli ai propri creditori".

A questo punto, occorre individuare i "giudizi pendenti" che non impediscono la chiusura anticipata del fallimento.

L’art. 118, comma 2, L.F. afferma che il curatore "può mantenere la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi di giudizio, ai sensi dell’articolo 43". Tale articolo attribuisce al curatore la sola legittimazione a stare in giudizio "nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento". L’interpretazione letterale e la combinazione dei due articoli succitati porterebbe a ritenere che i soli giudizi pendenti, che non dovrebbero impedire la chiusura anticipata del fallimento, siano quelli aventi ad oggetto i diritti del fallito preesistenti al fallimento, ma l’interpretazione teleologica che si è imposta in dottrina ritiene, invece, di ricomprendere in questo ambito anche le azioni "di massa" che derivano dal fallimento (azioni revocatorie, azioni dichiarative di inefficacia dei pagamenti).

I Tribunali di merito (Trib. Messina circolare 18.11.2015), inoltre, hanno già ritenuto possibile la chiusura anticipata del fallimento in presenza di procedure esecutive promosse dalla curatela o promosse dal fallito e proseguite dalla curatela. Tale impostazione è controversa, soprattutto, nel caso in cui, ai sensi dell’art. 107, comma 6, L.F., vi sia il subentro del curatore nelle procedure esecutive incardinate nei confronti del fallito, poiché l’attività di liquidazione dell’attivo fallimentare non risulterebbe ancora terminata e ciò andrebbe a scontrarsi con il dettato dell’art. 118, comma 2, L.F. che prescrive come unica attività residua del curatore quella di riparto delle somme accantonate ed eventualmente recuperate dai giudizi pendenti. In realtà, però, la maggior parte dei tribunali ritiene possibile tale subentro poiché, alla liquidazione del bene può provvedere direttamente il giudice esecutivo e, di conseguenza, coerentemente con il dettato normativo, al curatore spetterebbe solo l’attività di riparto della somma ricavata.

Discorso diverso viene fatto, nella prassi dei tribunali (es. Trib. Crotone, circolare 26.05.2016), riguardo a quei giudizi di cognizione nei quali il fallimento vanti un diritto alla restituzione di un bene. In questo caso la chiusura anticipata non sarebbe perseguibile poiché, una volta definito il giudizio, si dovrebbero compiere attività liquidatorie che andrebbero oltre i compiti di gestione del giudizio e di riparto supplementare, desumibili dalla norma e affidati al curatore ed al giudice delegato.

Secondo le istruzioni fornite da taluni Tribunali, sono da ricondurre nell’ambito di applicazione della norma anche le seguenti fattispecie particolari:

- fallimento che vanta un credito verso un altro fallimento (così Trib. Benevento, Trib. Vicenza, Trib. Crotone);

- fallimento che vanta un credito fiscale in attesa di rimborso (così Trib. Benevento, Trib. Vicenza, Trib. Crotone).

In questo caso non siamo tecnicamente di fronte ad un giudizio pendente, ma per analogia si applicherebbe la norma novellata per eliminare la situazione ostativa al fine di accelerare la chiusura del fallimento.

La prosecuzione dei giudizi dopo la chiusura del fallimento pone l’importante questione dell’accantonamento delle somme necessarie per spese future ed eventuali oneri relativi agli stessi giudizi pendenti.

Tali accantonamenti debbono essere quantificati prudenzialmente dal curatore, dopo un’attenta previsione dei possibili costi a cui la procedura potrà andare incontro, e dovranno essere trattenute in ossequio alle modalità prescritte dall’art. 117 L.F.

Gli accantonamenti, quindi, sulla base dell’art. 117 LF, dovranno riguardare:

- le somme necessarie per spese future (comprese le somme eventualmente destinate alla quota di compenso del curatore generata dall’ottenimento del risultato - positivo e/o negativo - nell’ambito del giudizio pendente);

- gli oneri relativi ai giudizi pendenti;

- le somme ricevute dal curatore per effetto dei provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato.

Gli eventuali residui degli accantonamenti saranno poi oggetto del riparto finale unitamente alle eventuali somme recuperate a seguito della conclusione positiva dei giudizi pendenti.

Senza dubbio il legislatore ha effettuato la miniriforma de quo concentrandosi unicamente sui quei giudizi attivi che potessero incrementare l’attivo fallimentare, tralasciando del tutto la disciplina dei giudizi pendenti passivi che, invece, potrebbero andare ad incidere sull’ammontare del passivo. L’art. 118, 2 comma, L.F., come accennato, richiama la disciplina dettata dall’art. 117 L.F., che regola, tramite il suo secondo comma, le modalità degli accantonamenti necessari nelle ipotesi di ripartizioni parziali stabilite dall’art. 113 L.F., ossia per:

1. i creditori ammessi con riserva;

2. i creditori opponenti a favore dei quali sono disposte misure cautelari;

3. i creditori opponenti la cui domanda è stata accolta ma la sentenza non è passata in giudicato;

4. i creditori nei cui confronti sono stati proposti i giudizi di impugnazione e revocazione.

Si ritiene, quindi, che tali giudizi di opposizione allo stato passivo, non siano ostativi alla chiusura anticipata del fallimento e che, allo stesso tempo, debbano essere proseguiti secondo la normale disciplina, provvedendo ai necessari accantonamenti.

Al contrario, la chiusura anticipata del fallimento costituisce causa di interruzione dei giudizi passivi in essere nei confronti del curatore in sede ordinaria.

In relazione ai giudizi di opposizione al passivo, i Tribunali hanno evidenziato differenti vedute sui criteri da seguire per effettuare gli accantonamenti in pendenza del giudizio per Cassazione, e si sono individuati tre differenti approcci:

1. predisposizione di accantonamenti sia in caso di soccombenza della curatela che in caso di soccombenza del creditore opponente (Tribunale di Prato 07.01.2016);

2. predisposizione di accantonamenti solo nel caso di soccombenza della curatela in primo grado, mentre, se in primo grado la curatela è risultata vittoriosa la procedura può essere chiusa senza effettuare alcun accantonamento (Tribunale di Vicenza);

3. predisposizione di accantonamenti nel caso di soccombenza della curatela in primo grado, mentre nel caso la curatela sia risultata vittoriosa, si deve procedere ad una specifica valutazione per ogni singolo caso (Tribunale di Benevento 01.03.2016).

Proseguendo nella trattazione, attraverso l’analisi delle circolari e delle istruzioni emanate dai Tribunali, si può delineare la prassi seguita per la verifica dei presupposti di legge e l’applicabilità della nuova normativa nei singoli fallimenti.

Molti Tribunali (es. Trib. Catania, Trib. Crotone, Trib. Messina, Trib. Marsala, Trib. Ferrara), infatti, relativamente all’applicazione del novellato art. 118, comma 2, L.F. hanno emesso le proprie linee guida, con le quali hanno richiesto ai curatori di fallimenti ultradecennali di procedere alla verifica della sussistenza dei presupposti della norma, depositando una relazione in cui vengano indicati (si cita di seguito la circolare del Tribunale di Ferrara del 25.09.2015):

- la causa o le causae petendi, il loro stato e grado, l’entità del petitum se afferente ad una somma;

- una breve relazione del legale che assiste la procedura sui presumibili tempi di definizione della causa o delle cause e sul loro presumibile esito, positivo o negativo, per il fallimento;

- una stima dell’entità delle somme necessarie per le spese future e per gli eventuali oneri connessi alla pendenza della causa o delle cause e l’indicazione delle eventuali somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato;

- le ragioni (eventualmente già valutate dal comitato dei creditori o dal giudice delegato) per cui non appare possibile o conveniente la rinuncia agli atti del giudizio, l’abbandono della causa o delle cause, la cessione dell’azione o delle azioni revocatorie concorsuali o la cessione del credito giudizialmente contestato;

- le ragioni per cui, ad avviso del curatore, può farsi luogo alla chiusura del fallimento ai sensi del richiamato art. 118, comma 2, e la richiesta di autorizzazione a procedere alle operazioni finalizzate alla chiusura della procedura oppure le ragioni per cui, nonostante la chiusura del fallimento sia impedita unicamente dalla pendenza di una o più cause, appare più opportuno e conveniente attenderne l’esito.

In questo modo gli organi della procedura potranno svolgere una valutazione preliminare sull’opportunità di chiudere la procedura e sull’esistenza dei presupposti giuridici per la chiusura stessa. Si dovrà, principalmente, valutare la convenienza a proseguire i contenziosi sulla base delle possibilità di vittoria e la relativa convenienza economica, in termini di conseguente surplus attivo per la procedura. La chiusura del fallimento è configurabile come una conseguenza ineludibile quando ricorrono i presupposti di legge, mentre un’altra parte della dottrina ritiene che sia una scelta discrezionale che spetta al curatore. In realtà, tale scelta sarebbe fortemente influenzata dalla possibilità, per il curatore, di incorrere nella responsabilità erariale in caso di irragionevole durata della procedura.

Come visto, la chiusura del fallimento ex art. 118, comma 2, L.F., prevedendo la prosecuzione dei giudizi pendenti, richiede forzatamente un’"ultrattività" degli organi della procedura. L’art. 120, comma 5, L.F., afferma che "nell’ipotesi di chiusura in pendenza di giudizi ai sensi dell’articolo 118, secondo comma, terzo periodo e seguenti, il giudice delegato e il curatore restano in carica ai soli fini di quanto ivi previsto. In nessun caso i creditori possono agire su quanto è oggetto dei giudizi medesimi". Dal dettato della norma si desume che gli unici due organi che restano in carica sono il curatore ed il giudice delegato, mentre il comitato dei creditori perde ogni suo potere, ed infatti in deroga all’art. 35 L.F. sarà solo il giudice delegato ad autorizzare eventuali rinunzie alle liti o transazioni relative ai giudizi pendenti, come stabilito dall’art. 118, comma 2, L.F.

Il controllo demandato al giudice delegato sul curatore non è ben definito, ma i decreti di chiusura emanati dai Tribunali, che si rifanno in parte all’art. 33, comma 5, L.F., richiedono che "il curatore relazioni ogni sei mesi al giudice delegato circa lo stato del contenzioso e di ogni circostanza rilevante, anche ai fini della sollecita definizione della procedura, residuando in capo al Collegio i poteri ex artt. 37 e 116, comma 4, L.F." (Trib. Di Messina). Dalla circolare del Tribunale di Messina si desume che viene meno per il curatore l’obbligo di redigere il conto della gestione e di invio della relazione al comitato dei creditori, oramai non più esistente. Viene stabilito, inoltre, che il potere di revoca del curatore ex art. 37 L.F. resta nella titolarità del Tribunale, così come l’approvazione del rendiconto di chiusura.

Ancora sempre il Tribunale di Messina dispone "che alle eventuali ulteriori risorse acquisite dopo la chiusura per effetto di provvedimenti definitivi e agli eventuali residui degli accantonamenti, segua la liquidazione di un compenso integrativo per il curatore (da quantificare in base ai medesimi parametri adottati per il compenso già liquidato), previa approvazione del rendiconto relativo alla gestione post chiusura anticipata, nelle forme dell’art. 116 L.F.". In questo caso, il Collegio stabilisce già nel decreto di chiusura le modalità di determinazione per il calcolo del compenso, se ciò non avvenisse il curatore dovrebbe sempre far riferimento ad esso per ottenere le proprie suppletive spettanze.

Per quanto riguarda l’autorizzazione a continuare i giudizi pendenti, la dottrina si è interrogata se questa debba essere espressamente attribuita dal Tribunale al curatore o se la legittimazione processuale sia automaticamente attribuita ex lege al curatore. L’indirizzo riscontrato nella prassi è quello di esplicitare l’attribuzione della legittimazione processuale nel decreto di chiusura, ed in tal senso il Tribunale di Messina ha disposto che "il curatore mantenga la legittimazione processuale nei giudizi pendenti, che vanno proseguiti ex art. 302 c.p.c. ovvero con la produzione in giudizio del presente decreto, anche nei successivi gradi e stati, comprensivi dell’eventuale fase esecutiva (ove necessaria per la soddisfazione del credito)".

Numerose sono, poi, le difficoltà interpretative della norma inerenti il differente iter da seguire una volta che si sia provveduto alla chiusura della procedura.

Nei casi ordinari di chiusura di fallimenti è necessario procedere alla cancellazione dal registro delle imprese, alla chiusura della partita IVA e del codice fiscale ed alla chiusura del conto corrente intestato al fallimento. Tutto ciò, va valutato nel caso di "chiusura anticipata". La tesi prevalente adottata dai Tribunali è quella di consentire, in deroga alla norma, di non procedere alla cancellazione dal registro delle imprese e quindi agli adempimenti conseguenti. Significativa in tal senso è la pronuncia del Tribunale di Bergamo, il quale con decreto del 14.01.2016, ha deciso che "nonostante la norma non lo preveda, limitandosi a rimettere al Tribunale di stabilire le modalità del riparto supplementare, quest’ultimo debba avvenire con le modalità stabilite dagli artt. 110 e segg. l. fall., stante l’ineludibile necessità di assicurare tutela giuridica al creditore che si ritenesse eventualmente leso dal riparto effettuato dal curatore ultrattivo", autorizzando di conseguenza il curatore, nonostante la chiusura della procedura:

- a non cancellare la società fallita dal registro delle imprese;

- a mantenere aperta la partita IVA;

- a mantenere aperto il conto corrente intestato al fallimento.

Analogamente, si deve ritenere che anche la PEC del fallimento debba essere mantenuta aperta per ottemperare ad ogni eventuale comunicazione della procedura.

In conclusione, di fronte all’approssimazione del dettato normativo, i Tribunali hanno cercato di rintracciare una linea d’azione tale da ovviare ai diversi problemi d’interpretazione emersi nella pratica. Sembra prevalere un’interpretazione similare della novella nella maggior parte dei casi analizzati, che si concentra nel tentativo di rendere la procedura post chiusura del fallimento il più lineare possibile per gli organi "ultrattivi".

 

4. La chiusura del fallimento con giudizi pendenti - profili fiscali

È nota la difficile convivenza fra le disposizioni fallimentari e quelle tributarie che, stante le finalità delle due discipline, presentano notevoli differenze (NOTA 24). Tali differenze sono anche frutto del fatto che non esiste una disciplina armonizzata della fiscalità delle procedure concorsuali, ma semplicemente disposizioni speciali all’interno dei singoli tributi. La contrapposizione di interessi che si confrontano, entrambi costituzionalmente protetti, da una parte quello dell’Erario sempre interessato alla riscossione dei tributi, che mantiene intatta la sua rilevanza anche nel fallimento, e dall’altra quelli tipici della procedura (soddisfazione di tutti i creditori del fallimento, in particolare quelle dei lavoratori), rileva una difficile convivenza all’interno delle fonti, che deve quindi trovare una soluzione nell’interpretazione il più possibile sistematica della normativa vigente.

La chiusura del fallimento con giudizi ancora pendenti rappresenta l’esempio più attuale del mancato coordinamento delle due normative, generatrice di nuove incertezze, stante le importanti conseguenze fiscali sia in tema di imposte dirette, sia di IVA, che di ritenute di acconto.

Deve preliminarmente essere ricordato che rimane in capo al fallito, durante la procedura, la soggettività impositiva. Il fallimento, infatti, integrando il concetto di possesso in materia tributaria, alimenta la fattispecie impositiva ai fini delle imposte sui redditi (NOTA 25). In altre parole, anche nel rispetto del dettato dell’art. 42 L.F., il fallimento detiene i beni al fine di gestirli e porli in vendita per soddisfare i creditori concorsuali, ed il fallito viene privato della disponibilità degli stessi, e cioè del potere di disporre ed amministrare (NOTA 26). È chiaro, quindi, che con il fallimento non sorge un nuovo soggetto d’imposta, ma la soggettività passiva tributaria rimane sempre in capo al debitore.

In merito al problema specifico deve sin d’ora essere evidenziato che quanto accantonato in sede di chiusura della procedura al fine della prosecuzione dei giudizi, può influenzare sia profili IVA, sia aspetti che rilevano ai fini delle imposte dirette. Infatti se l’accantonamento ha riguardato, ad esempio, il contenzioso inerente il pagamento della prestazione di servizi di un terzo creditore, si potrebbe, al termine del giudizio, ricevere una fattura con IVA, con relativa detraibilità nel caso di procedura aperta o indetraibilità nel caso di procedura chiusa (almeno ai fini di tale tributo). Allo stesso modo, l’eventuale non debenza delle somme accantonate può portare ad un riparto supplementare e magari ad un’eccedenza rispetto alla soddisfazione della totalità dei creditori (debenza IRES o IRPEF).

Un altro passaggio di rilievo riguarda la cancellazione, con la chiusura del fallimento da parte del curatore, come già visto nella parte civilistica, della società dal registro delle imprese, con evidenti ricadute, per quanto concerne la cancellazione di società personali secondo la giurisprudenza di legittimità, sul socio illimitatamente responsabile della questione (NOTA 27)e l’efficacia costitutiva per le società di capitali.

Dal punto di vista fiscale ciò comporta inevitabili conseguenze sia ai fini delle imposte dirette, che ai fini IVA.

 

4.1. Imposte dirette

La soggettività tributaria dell’imprenditore permane anche nel fallimento (NOTA 28).

Come già anticipato, se la chiusura del fallimento reca, per le società, la cancellazione dal registro delle imprese, ne deriva la chiusura del codice fiscale e conseguenze diverse in tema di versamento delle imposte dirette fra persone fisiche e persone giuridiche. In ogni caso, il curatore deve predisporre, alla chiusura della procedura, la dichiarazione dei redditi relativa al "maxi periodo", ai sensi dell’art. 183, comma 2, TUIR.

Nel caso di "eccedenza patrimoniale", per le persone giuridiche, il curatore procede anche al versamento delle eventuali imposte relative, mentre per le persone fisiche, il risultato fiscale viene recepito, se positivo, nella dichiarazione personale del fallito.

Dal punto di vista sostanziale la chiusura del fallimento con giudizi pendenti potrebbe originare quanto di seguito esposto:

a) il sorgere di una sopravvenienza attiva che influenzi il debito fiscale, in quanto si origina (o si incrementa) il c.d. residuo attivo. In altre parole si ottiene un surplus rispetto alla situazione fiscale di partenza (normalmente a "zero") che comporta la capacità della procedura di pagare tutti i debiti e restituire al fallito il surplus. In tal caso si avrebbe la tassazione, a carico della procedura, ex art. 183, comma 2 TUIR di tale maggior valore;

b) il sorgere di una sopravvenienza passiva che influenzi il debito fiscale, in quanto si riduce il c.d. residuo attivo. In altre parole si ottiene un deficit rispetto alla situazione fiscale di arrivo precedente (risultato del precedente maxi periodo). In tale ipotesi si avrebbe una riduzione della tassazione, a carico della procedura, ex art. 183, comma 2, TUIR di tale minor valore;

c) il sorgere di una sopravvenienza attiva o passiva che non influenza, in considerazione del relativo ammontare, la liquidazione delle imposte intervenuta con la dichiarazione finale relativa alla chiusura del fallimento. In tale caso non sorgerebbe alcun dovere a carico del curatore.

Come anticipato, dall’art. 120, comma 5, L.F. discende la cessazione dell’attività del curatore, tranne nei casi in cui ricorrano le condizioni descritte nell’art. 118, comma 2, terzo periodo, L.F., al verificarsi delle quali il curatore rimane in carica "ai soli fini di quanto ivi previsto".

È necessario quindi interrogarsi quali siano le conseguenze di tale previsione sul compimento delle attività "ai fini fiscali" da parte del curatore.

In effetti le norme speciali che si occupano di fallimento lo fanno con riferimento alla procedura, o meglio alla situazione del soggetto fallito, ma mai con riferimento alla figura del curatore, che è semplicemente un coadiutore del giudice, che non sostituisce il soggetto fiscalmente rilevante.

Come visto, con la chiusura del fallimento, in caso di società, ove si provveda alla cancellazione dal registro delle imprese, si avrà la conseguente eliminazione del codice fiscale.

L’alternativa proposta dall’Agenzia delle Entrate (DRE Veneto del 25.3.2016, ma nello stesso senso anche alcune risposte ad interpelli resi dalla Direzione Centrale Normativa) è che, dalla cancellazione o meno della società dal registro delle imprese, non consegua necessariamente la cancellazione del codice fiscale (dal punto di vista meccanico, un tale procedere è possibile, anche in presenza di chiusura della partita IVA). In altre parole, l’ipotesi avanzata dall’Agenzia delle Entrate è quella di non chiudere il codice fiscale del soggetto anche se estinto. Tale soluzione fa sorgere dubbi circa la possibile esistenza di un soggetto ai soli fini fiscali, tanto più post presentazione della dichiarazione dei redditi finale che va presentata, come noto, in relazione alla data di pubblicazione del decreto con il quale il Tribunale dichiara la chiusura del fallimento ex art. 119 L.F. (Agenzia Entrate, circ. 26/E del 2002).

Per quanto concerne i doveri del curatore, lo stesso continua a svolgere gli adempimenti fiscali, e ciò in ossequio sia a quanto previsto dall’art. 120, ultimo comma, L.F., in forza del quale "restano in carica ai soli fini di quanto ivi previsto", sia laddove si ritenga che la sopravvivenza "è un dato di fatto", come già in precedenza avveniva (ed avviene) per gli adempimenti fiscali successivi alla chiusura (NOTA 29).

Non si può infatti dimenticare che, ai fini delle imposte dirette, la chiusura del fallimento comporta anche il venire meno del soggetto fiscalmente rilevante, stante la "dissoluzione dell’impresa".

Il curatore procederà quindi con la predisposizione della dichiarazione dei redditi del maxi periodo fiscale di cui all’art. 183, comma 2, TUIR. Le regole di compilazione sono dettate dall’Agenzia delle Entrate nelle circolari 26/E del 2002 e dalla 42/E del 2004.

Deve essere comunque affrontato il tema dell’eventuale sopravvivenza del soggetto solo ai fini fiscali.

Le conseguenze della chiusura della procedura in presenza di giudizi pendenti, sono fiscalmente rilevanti solo qualora da tali attività si origini un avanzo di patrimonio da restituire al soggetto fallito (ai soci per le società), in quanto, come noto, stante l’azzeramento del patrimonio netto negativo, non si può originare una base imponibile dalla riduzione del deficit patrimoniale iniziale. Restano ferme le previsioni di cui all’art. 117, comma 4, L.F.

Caso differente è quello del fallito persona fisica. In tale situazione il curatore "sarà tenuto ad espletare tutti gli incombenti fiscali previsti ordinariamente per l’apertura del fallimento" (NOTA 30). In tal caso, il curatore potrebbe predisporre semplicemente una dichiarazione dei redditi integrativa (per ampliamento del periodo fiscale di durata del maxi periodo e/o per modifica della base imponibile) (NOTA 31). Qualora non si ritenga tale soluzione conforme con quanto previsto dall’art. 2 del DPR 322/1998, si dovrebbe redigere una nuova dichiarazione che andrebbe a sostituire quella precedente, con esposizione di un nuovo maxi periodo fiscale. È evidente come le istruzioni alle dichiarazioni dei redditi dovrebbero riportare tale possibilità.

È evidente che si potrebbe pervenire a differenti conclusioni, almeno per il caso della società, nell’ipotesi in cui si ritenesse non applicabile il comma 2 dell’art. 118 L.F. e, conseguentemente, non si facesse derivare l’estinzione della società (per es. come detto, Tribunale Bergamo, 14.1.2016 che afferma che in caso di cause attive, non si debba cancellare la società).

Ad ogni buon conto, considerata la chiara formulazione delle norme, anche ai fini di evitare complicazioni e al fine di assolvere agli obblighi fiscali secondo le regole ordinarie, è auspicabile che, in ogni caso, previa richiesta del curatore, il Tribunale autorizzi quest’ultimo a non procedere con la cancellazione della società, ovvero lo autorizzi agli adempimenti previsti dall’art. 2495 c.c..

Si ritiene, pertanto che il curatore possa presentare istanza affinché al ricorrere delle condizioni previste dall’art. 118, comma 2, n. 3, L.F. possa essere autorizzato, pur in presenza del decreto di chiusura del fallimento emesso ai sensi dell’art. 118, comma 2, L.F., a non procedere con la cancellazione della società, del conto corrente del fallimento e della partita IVA (NOTA 32).

I diversi orientamenti emersi e le molteplici criticità che potrebbero emergere (si pensi, ad esempio, al caso delle sopravvenienze attive derivanti da una causa passiva) inducono a ritenere contraddittorio procedere con il ricorso alla chiusura del fallimento in presenza di giudizi pendenti che possano portare a delle eccedenze rispetto alla situazione debitoria. O meglio sarà il curatore che, nell’ipotesi in cui i risultati dei giudizi pendenti siano in grado di "invertire il segno" e quindi permettere di ottenere un’eccedenza positiva rispetto alla situazione fallimentare, a valutare l’opportunità di non chiedere la chiusura della procedura, ovvero di essere autorizzato, nonostante la chiusura della procedura, a non cancellare la società dal registro delle imprese, a mantenere aperta la partita IVA, a mantenere aperto il conto corrente intestato al fallimento (NOTA 33).

In conclusione la casistica potrebbe essere la seguente per le società in fallimento:

1) Cancellazione della società ed estinzione

- caso eccedenza patrimoniale con devoluzione ai creditori - no dichiarazione fiscale per nuovo maxi periodo di imposta;

- caso eccedenza patrimoniale con devoluzione allo Stato - no dichiarazione fiscale per nuovo maxi periodo di imposta;

- caso no eccedenza patrimoniale - no dichiarazione.

Pur ritenendo che in tale caso non sia ipotizzabile restituire eventuali eccedenze ai soci, qualora ciò accada si procederà a presentare dichiarazione fiscale, in relazione alla definizione dei giudizi pendenti.

 

2) No cancellazione della società (no estinzione società) previa valutazione del curatore e autorizzazione del giudice

- caso eccedenza patrimoniale con restituzione ai soci - sì dichiarazione per nuovo maxi periodo di imposta;

- caso no eccedenza patrimoniale - no dichiarazione per nuovo maxi periodo di imposta. Nel caso in cui non vi sia estinzione della società e non si sia operata la chiusura del codice fiscale, si procederà con la chiusura dello stesso post - estinzione dei giudizi pendenti.

Anche per la richiesta a rimborso delle ritenute fiscali è necessario attendere il decreto di chiusura del fallimento ex art. 119 L.F., come indicato dall’Agenzia delle Entrate nella citata Circolare n. 26/E del 2002.

Il credito per ritenute potrà essere oggetto di assegnazione, ai sensi dell’art. 117 L.F.

Va infine rammentato che, pur se solo ai fini della liquidazione, accertamento e riscossione, l’art. 28 comma 4 del D.Lgs. n. 175/2014 prevede che l’estinzione della società abbia effetto trascorsi 5 anni dalla richiesta di cancellazione. Anche sotto questo punto di vista sorgono problemi di coordinamento con la normativa fallimentare e, quindi, con l’individuazione del momento in cui si manifesta la cancellazione.

 

4.2. IVA

La debenza dell’imposta è, come noto, legata all’esistenza dell’attività di impresa. In tal senso l’art. 2 della Direttiva 112/UE/2006 e l’art. 1 del DPR n. 633/1972.

L’art. 74-bis delle disposizioni IVA stabilisce a carico del curatore gli adempimenti in materia.

Ai fini IVA, l’attività può considerarsi cessata con l’ultimo atto realizzativo degli asset aziendali, come previsto dall’art. 35, comma 4 DPR n. 633/1972. L’Amministrazione finanziaria, con la circolare del 28.1.1992, n. 3/446157, ha precisato al proposito che la "dichiarazione di cessazione può essere presentata allorquando siano ultimate le operazioni rilevanti agli effetti dell'IVA, anche se rimangono in essere eventuali rapporti creditori o debitori".

È evidente come la cessazione della posizione IVA con la chiusura della procedura, comporti anche l’indubbio beneficio della possibilità di richiedere a rimborso il credito residuale IVA. Ciò, naturalmente, è una conseguenza della chiusura della procedura fallimentare ai sensi dell’art. 118 L.F. e non una finalità dell’operazione di cui si discute.

L’Agenzia delle Entrate (si veda la DRE Veneto citata e risposte ad interpelli della Direzione Centrale Normativa), nel caso di specie, ha ritenuto necessaria la riapertura della partita IVA da parte del curatore qualora "lo stesso debba effettuare operazioni rilevanti ai fini IVA che si rendessero necessarie, in particolare all’esito dei giudizi pendenti", con conseguente dicotomia fra la situazione civilistica e quella fiscale.

Fino a questo momento vi era invece piena armonia fra gli uni e gli altri, sanciti dalle disposizioni vigenti (NOTA 34).

La chiusura o meno della partita IVA ha influenze anche in tema di emissione della nota di credito da parte del creditore, in quanto sarebbe o meno raggiunta quella "definitività" della perdita, come richiesto dall’Agenzia delle Entrate, in relazione all’art. 26 del DPR n. 633/1972.

Va rammentato che l’Agenzia con la Risoluzione del 20 agosto 2009, n. 232/E ha affermato, relativamente ad un’attività professionale (peraltro applicabile in tema di prestazioni di servizio), che "La cessazione dell'attività per il professionista non coincide, pertanto, con il momento in cui egli si astiene dal porre in essere le prestazioni professionali, bensì con quello, successivo, in cui chiude i rapporti professionali, fatturando tutte le prestazioni svolte e dismettendo i beni strumentali".

La Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza del 21 aprile 2016, n. 8059, in tema di prestazioni di servizi, pur richiedendo l’assoggettamento ad IVA della prestazione al momento del verificarsi del momento impositivo, ha consentito, al contrario, la precedente cessazione dell’attività.

In altre parole, per la Suprema Corte, ciò che rileva ai fini dell’imponibilità della prestazione, è il fatto generatore dell’imposta, che va distinto dal momento di esigibilità, sancito dall’art. 6 comma 3 del DPR 633/1972. La Cassazione ha affermato come si possa comunque procedere alla cessazione dell’attività, pur in presenza di operazioni rese, ma da incassare, quindi con generazione successiva del debito IVA. In ciò, si è discostata dalla risoluzione n. 232/E sopra citata.

Più precisamente la Sentenza citata afferma, al punto 4.1 che "il fatto generatore del tributo IVA e, dunque, l'insorgenza della correlativa imponibilità vanno identificati - non solo sul piano dei rapporti privatistici (in tal senso, già Cass. 8222/11, 15690/08), ma anche sul piano eminentemente tributario - con la materiale esecuzione della prestazione, giacché, in doverosa aderenza alla disciplina Europea, la previsione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3, va intesa nel senso che, con il conseguimento del compenso, coincide, non l'evento generatore del tributo, bensì, per esigenze di semplificazione funzionali alla riscossione, solo la sua condizione di esigibilità ed estremo limite temporale per l'adempimento dell'obbligo di fatturazione".

La conseguenza è "che i compensi di prestazioni (di servizio ndr) da attività imprenditoriale o professionale, conseguiti dopo la cessazione dell'attività medesima, devono ritenersi assoggettati ad IVA, risultandone lo "statuto" impositivo definito dalla contestuale ricorrenza, all'atto del manifestarsi del fatto generatore dell'imposta (e suo presupposto oggettivo) anche del relativo presupposto soggettivo".

La Suprema Corte afferma ancora che "in assenza di compiuto sostanziale esaurimento di tutte le operazioni fiscalmente rilevanti, non possono assumere valore determinante, ai fini dell'esclusione dall'imposizione, dato dell'intervenuta dichiarazione di cessazione dell'attività D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 35 e quello della dismissione della partita IVA, atteso il carattere meramente formale (anzi: "anagrafico") della prima evenienza (cfr. Corte giust. 22.12.2010, in C-438/09; Cass. 5851/12, 22774/06, 4234/04) e puramente strumentale della seconda".

Peraltro la stessa non richiede, dal punto di vista sostanziale, la riapertura della partita IVA, ma l’assolvimento del tributo.

Ancora, si potrebbe verificare la cessione di beni successivamente alla chiusura della posizione fiscale. In tali casi la giurisprudenza della Corte di Cassazione (sent. 6198/96 e 8145/96), ha affermato che la cessione di un bene, posta in essere da un imprenditore successivamente alla cessazione dell'attività d'impresa, esula dall'imposizione IVA ed è soggetta all'ordinaria tassazione proporzionale di registro di cui all’art. 38 del DPR n.634/1972, anche se si tratti di bene prodotto nell'ambito della pregressa attività o comunque da essa derivato.

Un tale orientamento è confermato anche dalle Sezioni Unite citate, che affermano che "differentemente da quanto avviene per le prestazioni di servizi - in relazione alle cessioni di beni di cui alle decisioni in rassegna, la cessazione dell'attività determina il contestuale compiuto esaurimento del ciclo dell'imposizione IVA, in forza dell'obbligatoria applicazione della regola del cd. "autoconsumo", estesa dalla previsione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, comma 2, n. 5, (in combinato con quella di cui al successivo l'art. 35, comma 4) all'ipotesi di cessazione dell'attività; sicché, in merito alle cessioni successive, resta spazio solo per l'applicazione di altre forme di fiscalità".

Da quanto sopra paiono discendere conseguenze e comportamenti differenziati, in funzione delle situazioni che si originano nell’ambito dei giudizi pendenti e che dovranno essere valutate dai curatori.

 

A) Prestazioni di servizi rese ante chiusura ma non incassate

Qualora si presentino situazioni concernenti prestazioni di servizi realizzate ante cessazione dell’attività e chiusura della posizione IVA, ai fini dell’imposizione indicata dalla Sentenza sopra citata, e per semplificare la cosa in termini operativi, si potrà effettuare la riapertura della partita IVA. La data di riapertura della partita IVA potrà coincidere con l’incasso del corrispettivo derivante dalla prestazione di servizi. Una tale affermazione non soddisfa, in quanto prevarrebbe solamente l’eventuale aspetto realizzativo delle prestazioni di servizi; al contrario, la procedura, in tali casi, ha diritto ad ottenere la detrazione dell’imposta relativa alle prestazioni passive (si pensi all’IVA sulle prestazioni dei professionisti interessati della vicenda). In tale caso, la riapertura dovrebbe intervenire alla prima operazione attiva o passiva.

 

B) Presenza di sole prestazioni passive

Si deve confermare che la partita IVA potrebbe anche essere riaperta solo per recuperare l’imposta relativa a spese funzionali ad un’attività conclusa, ma sostenute dopo la sua cessazione, come nel caso di spese legali per una causa inerente tale situazione, in quanto spetta il diritto alla detrazione (Corte Giustizia UE, sentenza del 3 marzo 2005, causa C-32/03).

È evidente come dalla giurisprudenza citata non emerga un obbligo alla riapertura alla partita IVA, ancorché tale soluzione sembri la più immediata e semplice e permetta di recuperare l’imposta da attribuire ai creditori della procedura.

 

C) Cessioni di beni

Aspetti diversi, come visto, comporta la cessione di beni dopo la chiusura della partita IVA. In tal caso il curatore non dovrà più riaprire la partita IVA e si comporterà come un soggetto non imprenditore.

 

4.3. Ritenute

L’art. 23 del DPR n. 600/1973, individua nel curatore uno dei soggetti qualificati come sostituti di imposta. Il dato letterale porta ad una conseguenza scontata; fino a quando il curatore permane in carica deve effettuare le ritenute di legge in relazione alle attività che allo stesso competono, quali, ai sensi dell’art. 118 L.F., il pagamento di spese future e/o oneri relativi ai giudizi pendenti ed eventuali riparti supplementari. Ove intervenga la cancellazione della Società dal Registro delle imprese, ed il venir meno del codice fiscale, ci si deve interrogare se il curatore possa ancora dar corso all’applicazione delle ritenute, con i relativi adempimenti.

Nel caso di mantenimento del codice fiscale, il curatore manterrà gli incombenti del sostituto di imposta.

 

5. Sintesi delle posizioni e proposte operative

Volendo tirare le somme del discorso, si è visto come l’argomento necessiti di essere affrontato almeno su tre piani: quello civilistico, quello fallimentare e quello fiscale.

Secondo il codice civile (art.2495 c.c.) e la giurisprudenza della Corte di Cassazione (da ultimo, Sezioni Unite n.6070/2013):

- conclusa la liquidazione, la società deve essere cancellata dal registro imprese;

- dalla cancellazione della società consegue necessariamente la sua estinzione;

- in presenza di rapporti giuridici non definiti, siano attivi o passivi, in essi succedono gli ex soci, tranne nel caso in cui si tratti di diritti attivi solo potenziali (c.d. mere pretese) i quali, invece, si considerano come rinunciati.

Secondo la DRE Veneto (nota 25/03/2016 e le risposte ad interpelli della Direzione Centrale Normativa), invece,

in caso di chiusura del fallimento in pendenza di giudizi:

- non dovrebbe essere richiesta la cancellazione della società;

- dovrebbe essere comunicata la sola chiusura della procedura;

- dovrebbe essere mantenuto il codice fiscale;

- dovrebbe essere richiesta la chiusura della partita IVA per cessazione dell’attività;

- dovrebbe essere richiesta l’apertura della partita IVA in caso di sopravvenienze attive, agli esiti del giudizio;

- il curatore continua a rivestire la qualifica di sostituto d’imposta.

L’incertezza interpretativa, suggerisce di investire della questione il Giudice.

Il curatore, pertanto, nell’istanza di chiusura dovrebbe puntualmente indicare le condizioni e le situazioni e le caratteristiche del fallimento che lo "attraggono" sotto l’ambito di applicazione dell’art. 118, comma 2, n. 3, L.F.; il Tribunale nel decreto di chiusura del fallimento per compiuta ripartizione dell’attivo ai sensi dell’art. 118, comma 2, n. 3, L.F. potrà decretare di non cancellare la società dal registro delle imprese.

In presenza di un decreto che autorizzi il curatore a non procedere con la cancellazione della società dal registro delle imprese, il curatore stesso avrà la possibilità di assolvere gli obblighi fiscali secondo le regole ordinarie (NOTA 35).

 

6. Una possibile evoluzione normativa

In considerazione delle numerose problematiche in precedenza evidenziate, potrebbe proporsi un’ulteriore interpretazione che richiede, però, necessarie modifiche normative.

 

Tale ricostruzione dovrebbe fondarsi sui seguenti presupposti:

- il decreto di chiusura del fallimento viene emesso ai sensi dell’art. 118 L.F.;

- nonostante la chiusura del fallimento, il curatore non procede alla cancellazione dal registro delle imprese sino alla conclusione dei giudizi in corso ed all’effettuazione dei riparti supplementari (tale ricostruzione importa una necessaria integrazione/modifica dell’art. 118 L.F.);

- dal decreto di chiusura del fallimento decorre il termine per la dichiarazione di cessazione dell’attività ex art. 35 del DPR 633/1972;

- dal decreto di chiusura consegue la chiusura della partita IVA, che dovrà essere riaperta in caso di operazioni attive;

- in quest’ultimo caso il curatore sarà tenuto a tutti gli adempimenti previsti dall’art. 74-bis DPR n. 633/1972 sino all’effettuazione del riparto supplementare;

- le sopravvenienze derivanti dai giudizi pendenti saranno ricomprese nel reddito d’impresa di cui al maxi periodo intercorrente tra la dichiarazione di fallimento e la sua chiusura (con modifica dell’art. 183 TUIR);

- le dichiarazioni andranno presentate entro l’ultimo giorno del nono mese successivo alle operazioni di riparto supplementare o per le imposte dirette dall’estinzione della Società (con modifica dell’art. 5 DPR n. 322/1998);

- il curatore continua a rivestire la qualifica di sostituto d’imposta anche nella fase successiva alla chiusura del fallimento e sino al completamento delle operazioni di riparto supplementare, o meglio dall’estinzione della società.

Andrà chiarita la possibilità di chiedere il rimborso dell’eventuale credito IVA e delle ritenute fiscali con la chiusura del fallimento e quindi in un momento antecedente la chiusura dei giudizi pendenti, al fine di favorire il riparto a favore dei creditori.

Dovrebbero, inoltre, trovare sistematica regolazione anche tematiche riconducibili a:

1. il compenso del curatore per l’attività svolta dopo la chiusura del fallimento ex art. 118, comma 2, n. 3 e 4 e fino alla chiusura definitiva (con modifica in tal senso dell’art. 39 L.F.);

2. l’individuazione del momento a decorrere dal quale si computa il termine quinquennale per l’emersione della responsabilità del curatore per gli adempimenti svolti ai soli fini di quanto previsto dall’art. 118, comma 2, secondo periodo L.F;

3. individuare il termine per gli accertamenti fiscali a carico del fallimento.

 

Modifiche normative

In grassetto alcune proposte di modifica ai testi vigenti.

 

RD 267/1942

Art. 118 - Casi di chiusura

In vigore dal 27 giugno 2015

Salvo quanto disposto nella sezione seguente per il caso di concordato, la procedura di fallimento si chiude:

1) se nel termine stabilito nella sentenza dichiarativa di fallimento non sono state proposte domande di ammissione al passivo;

2) quando, anche prima che sia compiuta la ripartizione finale dell'attivo, le ripartizioni ai creditori raggiungono l'intero ammontare dei crediti ammessi, o questi sono in altro modo estinti e sono pagati tutti i debiti e le spese da soddisfare in prededuzione;

3) quando è compiuta la ripartizione finale dell'attivo;

4) quando nel corso della procedura si accerta che la sua prosecuzione non consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura. Tale circostanza può essere accertata con la relazione o con i successivi rapporti riepilogativi di cui all'articolo 33.

Nei casi di chiusura di cui ai numeri 3) e 4), ove si tratti di fallimento di società il curatore ne chiede la cancellazione dal registro delle imprese. La chiusura della procedura di fallimento della società nei casi di cui ai numeri 1) e 2) determina anche la chiusura della procedura estesa ai soci ai sensi dell'articolo 147, salvo che nei confronti del socio non sia stata aperta una procedura di fallimento come imprenditore individuale. La chiusura della procedura di fallimento nel caso di cui al n. 3) non è impedita dalla pendenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore può mantenere la legittimazione processuale,

anche nei successivi stati e gradi del giudizio, ai sensi dell'articolo 43. In tale caso il curatore non chiede la cancellazione della società dal registro delle imprese. In deroga all'articolo 35, anche le rinunzie alle liti e le transazioni sono autorizzate dal giudice delegato. Le somme necessarie per spese future ed eventuali oneri relativi ai giudizi pendenti, nonché le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato, sono trattenute dal curatore secondo quanto previsto dall'articolo 117, comma secondo. Dopo la chiusura della procedura di fallimento, le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti definitivi e gli eventuali residui degli accantonamenti sono fatti oggetto di riparto supplementare fra i creditori secondo le modalità disposte dal tribunale con il decreto di cui all'articolo 119. In relazione alle eventuali sopravvenienze attive derivanti dai giudizi pendenti non si fa luogo a riapertura del fallimento. Qualora alla conclusione dei giudizi pendenti consegua, per effetto di riparti, il venir meno dell'impedimento all'esdebitazione di cui al comma secondo dell'articolo 142, il debitore può chiedere l'esdebitazione nell'anno successivo al riparto che lo ha determinato.

 

Art. 117 - Ripartizione finale

Approvato il conto e liquidato il compenso del curatore, il giudice delegato, sentite le proposte del curatore, ordina il riparto finale secondo le norme precedenti.

Nel riparto finale vengono distribuiti anche gli accantonamenti precedentemente fatti. Tuttavia, se la condizione non si è ancora verificata ovvero se il provvedimento non è ancora passato in giudicato, la somma è depositata nei modi stabiliti dal giudice delegato, perché, verificatisi gli eventi indicati, possa essere versata ai creditori cui spetta o fatta oggetto di riparto supplementare fra gli altri creditori. Gli accantonamenti non impediscono la chiusura della procedura. In tal caso trova applicazione l’art. 118, secondo comma, L.F.

Il giudice delegato, nel rispetto delle cause di prelazione, può disporre che a singoli creditori che vi consentono siano assegnati, in luogo delle somme agli stessi spettanti, crediti di imposta del fallito non ancora rimborsati.

Per i creditori che non si presentano o sono irreperibili le somme dovute sono nuovamente depositate presso l'ufficio postale o la banca già indicati ai sensi dell'articolo 34. Decorsi cinque anni dal deposito, le somme non riscosse dagli aventi diritto e i relativi interessi, se non richieste da altri creditori, rimasti insoddisfatti, sono versate a cura del depositario all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate, con decreti del Ministro dell'economia e delle finanze, ad apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero della giustizia.

Il giudice, anche se è intervenuta l'esdebitazione del fallito, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, su ricorso dei creditori rimasti insoddisfatti che abbiano presentato la richiesta di cui al quarto comma, dispone la distribuzione delle somme non riscosse in base all'articolo 111 fra i soli richiedenti.

 

Art. 120 - Effetti della chiusura

Con la chiusura cessano gli effetti del fallimento sul patrimonio del fallito e le conseguenti incapacità personali e decadono gli organi preposti al fallimento

Le azioni esperite dal curatore per l'esercizio di diritti derivanti dal fallimento non possono essere proseguite.

I creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per capitale e interessi, salvo quanto previsto dagli articoli 142 e seguenti.

Il decreto o la sentenza con la quale il credito è stato ammesso al passivo costituisce prova scritta per gli effetti di cui all'articolo 634 del codice di procedura civile.

Nell'ipotesi di chiusura in pendenza di giudizi ai sensi dell'articolo 118, secondo comma, terzo periodo e seguenti, il giudice delegato e il curatore restano in carica ai soli fini di quanto ivi previsto, mantenendo gli obblighi di cui all’art. 33 , ultimo comma, esclusa la trasmissione al comitato dei creditori.

e seguenti L.F. In nessun caso i creditori possono agire su quanto è oggetto dei giudizi medesimi.

 

Art. 38 - Responsabilità del curatore

Il curatore adempie ai doveri del proprio ufficio, imposti dalla legge o derivanti dal piano di liquidazione approvato, con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico. Egli deve tenere un registro preventivamente vidimato da almeno un componente del comitato dei creditori, e annotarvi giorno per giorno le operazioni relative alla sua amministrazione.

Durante il fallimento l'azione di responsabilità contro il curatore revocato è proposta dal nuovo curatore, previa autorizzazione del giudice delegato, ovvero del comitato dei creditori.

Il curatore che cessa dal suo ufficio, anche durante il fallimento, deve rendere il conto della gestione a norma dell'art. 116.

 

Tale adempimento deve essere svolto in caso di chiusura del fallimento ex art. 118 comma 2, in presenza di giudizi pendenti solo alla conclusione dei medesimi.

 

Art. 39 - Compenso del curatore

Il compenso e le spese dovuti al curatore, anche se il fallimento si chiude con concordato, sono liquidati ad istanza del curatore con decreto del tribunale non soggetto a reclamo, su relazione del giudice delegato, secondo le norme stabilite con decreto del Ministro della giustizia.

La liquidazione del compenso è fatto dopo l'approvazione del rendiconto e, se del caso, dopo l'esecuzione del concordato.

È in facoltà del tribunale di accordare al curatore acconti sul compenso per giustificati motivi. Rimane Se nell'incarico si sono succeduti più curatori, il compenso è stabilito secondo criteri di proporzionalità ed è liquidato, in ogni caso, al termine della procedura, salvi eventuali acconti. Salvo che non ricorrano giustificati motivi, ogni acconto liquidato dal tribunale deve essere preceduto dalla presentazione di un progetto di ripartizione parziale. Nessun compenso, oltre quello liquidato dal tribunale, può essere preteso dal curatore, nemmeno per rimborso di spese.

Le promesse e i pagamenti fatti contro questo divieto sono nulli, ed è sempre ammessa la ripetizione di ciò che è stato pagato, indipendentemente dall'esercizio dell'azione penale.

In presenza della prosecuzione dell’attività ai sensi dell’art. 120, ultimo comma, spetta al curatore il compenso determinato secondo le regole del presente articolo.

 

DPR n. 633/1972

Art. 35 - Disposizione regolamentare concernente le dichiarazioni di inizio, variazione e cessazione attività

... Omissis

3. In caso di variazione di alcuno degli elementi di cui al comma 2 o di cessazione dell'attività, il contribuente deve entro trenta giorni farne dichiarazione ad uno degli uffici indicati dal comma 1, utilizzando modelli conformi a quelli approvati con provvedimento del direttore dell'Agenzia delle Entrate. Se la variazione comporta il trasferimento del domicilio fiscale essa ha effetto dal sessantesimo giorno successivo alla data in cui si è verificata. In caso di fusione, scissione, conferimenti di aziende o di altre trasformazioni sostanziali che comportano l'estinzione del soggetto d'imposta, la dichiarazione è presentata unicamente dal soggetto risultante dalla trasformazione.

4. In caso di cessazione dell'attività il termine per la presentazione della dichiarazione di cui al comma 3 decorre dalla data di ultimazione delle operazioni relative alla liquidazione dell'azienda, per le quali rimangono ferme le disposizioni relative al versamento dell'imposta, alla fatturazione, registrazione, liquidazione e dichiarazione. In caso di fallimento o liquidazione coatta amministrativa, anche nel caso dell’art. 118, secondo comma, secondo periodo, L.F. o di disposizione analoga per la liquidazione coatta amministrativa, il termine per la presentazione della dichiarazione di cessazione di cui al comma 3 decorre dalla data di decreto di chiusura del fallimento. In tale ultimo caso, rimarrà in essere il codice fiscale fino all’estinzione della società stessa. In presenza di chiusura per giudizi pendenti, ex art. 118, secondo comma, L.F., o disposizione analoga per liquidazione coatta amministrativa, nel caso di operazioni attive successive alla suddetta chiusura, dovrà essere operata la riapertura della partita iva; in caso di operazioni passive, è facoltà del curatore operare in tale senso.

Nell'ultima dichiarazione annuale deve tenersi conto anche dell'imposta dovuta ai sensi del n. 5) dell'articolo 2, da determinare computando anche le operazioni indicate nel quinto comma dell'articolo 6, per le quali non si è ancora verificata l'esigibilità dell'imposta.

 

DPR n. 605/1973

Art. 4 - Domanda di attribuzione del numero di codice fiscale

1. La domanda di attribuzione del numero di codice fiscale, da redigersi in carta libera ed in conformità al modello stabilito con decreto del Ministro per le finanze, deve essere sottoscritta dal soggetto richiedente o da chi ne ha la rappresentanza e deve comunque indicare:

a) per le persone fisiche, il cognome e il nome, il luogo e la data di nascita, il sesso e il domicilio fiscale;

b) per i soggetti diversi dalle persone fisiche, la denominazione, la ragione sociale o la ditta, il domicilio fiscale. Per le società, associazioni o altre organizzazioni senza personalità giuridica, devono essere inoltre indicati gli elementi di cui alla lettera a) per almeno una delle persone che ne hanno la rappresentanza;

2. Nell'indicazione della sede e del domicilio fiscale devono essere specificati la via, il numero civico e il codice di avviamento postale.

3. Qualora intervengano, nelle forme previste dalla legge, rettifiche o modificazioni relative al nome, cognome, sesso, luogo e data di nascita di persone fisiche alle quali sia già stato attribuito il numero di codice fiscale queste debbono richiedere, entro sei mesi dalla data in cui le stesse hanno avuto effetto, il numero di codice fiscale corrispondente ai nuovi elementi di identificazione. Il numero di codice fiscale precedentemente attribuito ha a tutti gli effetti validità di numero di codice fiscale provvisorio. Nella domanda deve essere indicato anche il numero di codice fiscale precedentemente attribuito.

In caso di fallimento o liquidazione coatta amministrativa, anche nel caso dell’art. 118, co 2, secondo periodo, L.F. o norma analoga per la liquidazione coatta amministrativa, rimane in essere il codice fiscale fino all’estinzione della società.

 

DPR n. 322/1998

Art. 5. - Dichiarazione nei casi di liquidazione

1. In caso di liquidazione di società o enti soggetti all'imposta sul reddito delle persone giuridiche, di società o associazioni di cui all'articolo 5 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e di imprese individuali, il liquidatore o, in mancanza, il rappresentante legale, presenta, secondo le disposizioni di cui all'articolo 3, la dichiarazione relativa al periodo compreso tra l'inizio del periodo d'imposta e la data in cui si determinano gli effetti dello scioglimento della società ai sensi degli articoli 2484 e 2485 del codice civile, ovvero per le imprese individuali la data indicata nella dichiarazione di cui all'articolo 35 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, entro l'ultimo giorno del nono mese successivo a tale data in via telematica. Lo stesso liquidatore presenta la dichiarazione relativa al risultato finale delle operazioni di liquidazione entro nove mesi successivi alla chiusura della liquidazione stessa o al deposito del bilancio finale, se prescritto in via telematica.

2. Nel caso in cui il liquidatore non sia nominato con provvedimento dell'autorità giudiziaria lo stesso, o in mancanza il rappresentante legale, presenta le dichiarazioni di cui al comma 1 entro l'ordinario termine per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi.

3. Se la liquidazione si prolunga oltre il periodo d'imposta in corso alla data indicata nel comma 1 sono presentate, nei termini stabiliti dall'articolo 2, la dichiarazione relativa alla residua frazione del detto periodo e quelle relative ad ogni successivo periodo d'imposta.

3-bis. In caso di revoca dello stato di liquidazione quando gli effetti, anche ai sensi del secondo comma dell'articolo 2487- ter del codice civile, si producono prima del termine di presentazione delle dichiarazioni di cui ai precedenti commi 1, primo periodo, e 3, il liquidatore o, in mancanza, il rappresentante legale, non è tenuto a presentare le medesime dichiarazioni.

Restano in ogni caso fermi gli effetti delle dichiarazioni già presentate ai sensi dei commi 1, primo periodo, e 3, prima della data in cui ha effetto la revoca dello stato di liquidazione, ad eccezione dell'ipotesi in cui la revoca abbia effetto prima della presentazione della dichiarazione relativa alla residua frazione del periodo d'imposta in cui si verifica l'inizio della liquidazione.

4. Nei casi di fallimento o di liquidazione coatta amministrativa, le dichiarazioni di cui al comma 1 sono presentate, anche se si tratta di imprese individuali, dal curatore o dal commissario liquidatore, in via telematica, avvalendosi del servizio telematico Entratel, direttamente o tramite i soggetti incaricati di cui all'articolo 3, comma 3, entro l'ultimo giorno del nono mese successivo a quello, rispettivamente, della nomina del curatore e del commissario liquidatore, e della chiusura del fallimento e della liquidazione; le dichiarazioni di cui al comma 3 sono presentate, con le medesime modalità, esclusivamente ai fini dell'imposta regionale sulle attività produttive e soltanto se vi è stato esercizio provvisorio.

Nel caso di chiusura del fallimento ai sensi dell’art. 118 co 2, secondo periodo, L.F. o norma analoga per la liquidazione coatta amministrativa, il curatore, o il commissario liquidatore, dovrà presentare una nuova dichiarazione, relativa all’intero periodo di durata della procedura, solamente nel caso in cui, al termine dellaprocedura, sia presente un residuo attivo. Il reddito d'impresa, di cui al comma 1 dell'articolo 183 del testo unico delle imposte sui redditi e quello di cui ai commi 2 e 3 del medesimo articolo, risultano dalle dichiarazioni iniziale e finale che devono essere presentate dal curatore o dal commissario liquidatore. Il curatore o il commissario liquidatore, prima di presentare la dichiarazione finale, deve provvedere al versamento, se la società fallita o liquidata vi è soggetta, dell'imposta sul reddito delle società. In caso di fallimento o di liquidazione coatta, di imprese individuali o di società in nome collettivo o in accomandita semplice, il curatore o il commissario liquidatore, contemporaneamente alla presentazione delle dichiarazioni iniziale e finale di cui al secondo periodo, deve consegnarne o spedirne copia per raccomandata all'imprenditore e a ciascuno dei familiari partecipanti all'impresa, ovvero a ciascuno dei soci, ai fini dell'inclusione del reddito o della perdita che ne risulta nelle rispettive dichiarazioni dei redditi relative al periodo d'imposta in cui ha avuto inizio e in quello in cui si è chiuso il procedimento concorsuale. Per ciascuno degli immobili di cui all'articolo 183, comma 4, secondo periodo, del testo unico il curatore o il commissario liquidatore, nel termine di un mese dalla vendita, deve presentare all'Ufficio dell'Agenzia delle entrate apposita dichiarazione ai fini dell'imposta locale sui redditi, previo versamento nei modi ordinari del relativo importo, determinato a norma dell'articolo 25 del testo unico.

5. Resta fermo, anche durante la liquidazione, l'obbligo di presentare le dichiarazioni dei sostituti d'imposta.

 

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Note:

 

1) A tal proposito si segnalano le previsioni di cui all’art. 7, comma 10, lett. b) del disegno di legge delega per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza (AS n. 2681), che enunciano, tra gli altri, criteri direttivi volti ad integrare la disciplina della procedura in pendenza di procedimenti giudiziari, con particolare riferimento all’attività del curatore e alla sua legittimazione esclusiva nei procedimenti pendenti e alla possibilità che, con il decreto di chiusura, il tribunale disponga circa le modalità del rendiconto e del riparto supplementare nonché sulla determinazione del supplemento di compenso spettante al curatore in caso di realizzazione di ulteriore attivo.

2) Con la conseguenza che, a partire da quel momento, la società si doveva ritenere estinta a prescindere all’esistenza di rapporti rimasti pendenti.

3) Lasciando, quindi, intendere che l’estinzione si presumeva salvo prova contraria, fino a quando, cioè, non fosse stata dimostrata l’esistenza di creditori rimasti insoddisfatti

4) Cfr. SS.UU. nn. 4060/4061/4062 del 22/02/2010.

5) Al riguardo occorre mettere in evidenza come il principio sia stato espresso anche da SS.UU., n. 6070 del 12/03/2013, pronunzia la quale, evidenziando la differente valenza della cancellazione dal registro delle società di persone - meramente dichiarativa e non costitutiva come è per le società di capitali - conclude anch’essa nel senso della estinzione della società di persone a seguito della cancellazione, fatta salva la prova contraria consistente nel fatto dinamico, vale a dire nella prova che la società, nonostante la cancellazione, abbia continuato ad operare, e, dunque, per tal motivo, ad esistere.

6) Cfr. SS.UU. n. 6070/2013.

7) Cioè quei diritti potenziali la cui inclusione avrebbe richiesto l’avvio di un’attività legale o stragiudiziale, anche se già intrapresa.

8) Intendendosi per tali, in base alla previsione di cui all’art. 2495, secondo comma, c.c., in cui si parla del mancato pagamento di crediti per colpa del liquidatore, sia le passività la cui esistenza non era conosciuta al momento della cancellazione, sia le passività note o che usando l’ordinaria conoscenza il liquidatore era in grado di conoscere.

9) Cfr. sempre SS.UU. n. 6070/2013.

10) Laddove, al comma 3, si impone la trattazione prioritaria della causa in cui sia pure un fallimento.

11) In materia di programma di liquidazione, mediante fissazione di rigidi termini di approvazione ed esecuzione.

12) Ai sensi dell’art.118, comma 2, L.F., nei casi di chiusura di cui ai numeri 3) e 4), ove si tratti di fallimento di società, il curatore ne chiede la cancellazione dal registro delle imprese; il successivo art. 119, comma 1, L.F., infine, dispone che del decreto di chiusura deve essere data pubblicità ai sensi dell’art. 17 L.F., articolo che, a sua volta, al comma 2, prevede l’annotazione presso il competente ufficio del registro delle imprese.

13) In dottrina è stato evidenziato che non si può trattare dei soli crediti ex art. 96, 3 comma, n. 1) e n. 3), ma anche "tutti i casi di accantonamento in attesa di eventi non ancora definiti e quindi anche ai crediti indicati nell’ultimo comma dell’art. 55, ai crediti ammessi con riserva di produzione di documenti, ai creditori opponenti in favore dei quali era stato disposto un provvedimento cautelare o è già stata emessa sentenza favorevole non passata in giudicato, ai creditori contestati con giudizi di impugnazione o revocazione" (V. Zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Torino, 2008, pag. 333).

14) E. Forgillo, in Fallimento ed altre procedure concorsuali, diretto da G. Fauceglia e L. Panzani, Torino, 2009, pag. 1329. A favore anche P. Bortoluzzi in La legge fallimentare, a cura di M. Ferro, Padova, 2014, pag. 1655 e ss. che ritiene possibile che il curatore in sede di riparto finale indichi già i creditori destinatari nel caso in cui le somme accantonate siano dichiarate non dovute.

15) La norma, del codice delle assicurazioni private prevede infatti che:

"7. La pendenza di ricorsi e giudizi, ivi compreso quello di accertamento dello stato di insolvenza, non preclude l'effettuazione degli adempimenti finali previsti ai commi da 1 a 6 e la chiusura della procedura di liquidazione coatta amministrativa. Tale chiusura è subordinata all'esecuzione di accantonamenti o all'acquisizione di garanzie ai sensi dell'articolo 260, commi 3 e 4.

8. Successivamente alla chiusura della procedura di liquidazione coatta, i commissari liquidatori mantengono la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi dei giudizi in corso. Ai commissari liquidatori, nello svolgimento delle attività connesse ai giudizi, si applicano i commi 2 e 3 dell'articolo 233, il comma 8 dell'articolo 234 ed i commi 1, 3 e 7 dell'articolo 250".

16) Cfr. M. Montanari, Ancora sulla chiusura anticipata del fallimento in pendenza di giudizi, in Crisi di impresa e fallimento, 02/04/2016.

17) Cfr. M. Vitiello, La chiusura anticipata del fallimento in pendenza di giudizi, www.ilfallimentarista.it, 01/02/2016.

18) Laddove viene fatto riferimento a "...giudizi pendenti..." .

19) Tramite l’espressione a "... quanto è oggetto del giudizio...".

20) Laddove, all’ultimo periodo, è stabilito che in nessun caso i creditori possono agire su quanto ha costituito oggetto dei giudizi pendenti.

21) La cancellazione dal registro delle imprese, e la conseguente estinzione della società, come effetto naturale delle ipotesi di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 118 comma 1 L.F., è stato ribadito anche da una pronuncia del Tribunale di Napoli (decr. 22 settembre 2015) che ha escluso il medesimo effetto per l’ipotesi del concordato fallimentare precisando come "La scelta di legislatore (della riforma fallimentare del 2006), di prevedere la cancellazione dell’ente da parte del curatore e l’iscrizione camerale dell’evento solo in queste due ipotesi, si giustifica per il fatto che in entrambi i casi presi in considerazione dall’art. 118, alla chiusura del fallimento - comunque non completamente satisfattoria per i creditori - non residui alcun bene del patrimonio della fallita". Secondo il Tribunale, dunque, la ratio della norma va rinvenuta nel fatto che "È evidente che in tal modo la società si trovi nell’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale e, quindi, in una situazione liquidatoria; di più, con una liquidazione (concorsuale) già definita e conclusa".

22) E. Forgillo, op. cit., pag. 1333.

23) L’aspetto è stato recentemente affrontato dal Plenum della Sezione fallimentare di Milano, con circolare datata 11 aprile 2017.

24) Per un’approfondita disamina del tema cfr. M. Mauro, Imposizione fiscale e fallimento, Torino, 2011, pag. 1 e ss.

25) Per un’ampia rassegna della dottrina e della giurisprudenza sul punto, cfr. M. Mauro, op. cit., pag. 20 e ss.

26) M. Fabiani, G.B. Nardecchia, a cura di, Legge Fallimentare, Padova, 2014, pag. 409 e ss.

27) E. Forgillo, op. cit., pag. 1333.

28) Agenzia delle Entrate, circolare del 22 marzo 2002 n. 26/E ed in dottrina, per tutti, C. Zaffarana, Manuale tributario del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 2010, pag. 106.

29) E.Forgillo, op. cit., pag. 1329.

30) In tal senso, anche se riferito al caso della riapertura del fallimento, M. Costantini, Trattato delle procedure concorsuali, vol. 6, pag. 588.

31) Una tale ipotesi pare compatibile con le conclusioni raggiunte dall’Agenzia delle Entrate nella Ris., 20 dicembre 2010 n. 132/E.

32) Cfr. Plenum della Sezione fallimentare di Milano, circolare 11 aprile 2017.

33) Soluzione indicata da Trib. Bergamo, 16 gennaio 2016.

34) Cfr. C. Zaffarana, op. cit., pag. 107.

35) Cfr. in tal senso le risposte ad alcuni interpelli rese dalla Direzione Centrale Normativa e il Plenum della Sezione fallimentare di Milano, circolare 11 aprile 2017.