Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 22 settembre 2016, n. 18587

Licenziamento - Per giusta causa - Prelievo di denaro dalla cassa dell'Ufficio Postale - Restituzione - Elevata intensità della violazione - Lesione del vincolo fiduciario - Legittimità

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza n. 10594/2012, depositata il 30/1/2013, la Corte di appello di Roma, in accoglimento del gravame di Poste Italiane S.p.A. e in riforma della sentenza del Tribunale di Roma, respingeva la domanda di G. R. C. diretta alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimatole dalla società, con lettera del 12/10/2007, a motivo della condotta tenuta dalla dipendente il giorno 21/8/2007, allorquando, addetta come mono operatore all'U.P. di Villa Sant'Angelo, aveva fatto un prelievo di denaro dalla cassa dell'Ufficio per provvedere alla copertura di un proprio assegno privo temporaneamente di adeguata provvista.

La Corte rilevava a fondamento della propria decisione che il prelievo dalla cassa dell'Ufficio non era contestato; che la somma era stata restituita soltanto alle ore 13.58 dello stesso giorno e successivamente alla verifica di cassa effettuata, senza preavviso, da altra dipendente di ciò incaricata; che ben avrebbe potuto la lavoratrice chiedere ad uno dei suoi familiari, contitolari del libretto di deposito, dal quale era stata poi prelevata la somma necessaria alla restituzione, di provvedere alla copertura dell'assegno. Osservava, quindi, come il fatto non consentisse la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro, perché idoneo a far venire meno il vincolo fiduciario, che deve essere tanto più rigorosamente inteso nel caso di persona addetta al maneggio di denaro.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la lavoratrice con quattro motivi; la società ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1455, 2104, 2106 e 2119 c.c., degli artt. 1, 3 e 5 I. 15 luglio 1966, n. 604 e dell'art. 7 I. 20 maggio 1970, n. 300; la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2727 e 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c.; la violazione degli artt. 1362 e ss. c.c. in relazione agli artt. 54, 55, 56 e 58 CCNL per il personale non dirigente di Poste Italiane dell'11 luglio 2007: in particolare, la ricorrente si duole che la Corte di appello abbia ritenuto sussistente una giusta causa di licenziamento e rispettato il principio di proporzionalità tra il fatto addebitato e la sanzione senza premettere, a sostegno di tali conclusioni, una valutazione unitaria e sistematica di ogni aspetto concreto della vicenda, sia sotto l'aspetto soggettivo che oggettivo, in contrasto con orientamento consolidato ed anche con le regole che presiedono all'acquisizione del materiale probatorio e alla formazione del convincimento del giudice; la ricorrente si duole, inoltre, che la Corte, in presenza di un rapporto lavorativo di lunga durata e dell'assenza di precedenti disciplinari, non abbia considerato, e comunque abbia erroneamente interpretato, le previsioni della contrattazione collettiva, le quali prendono in esame la condotta oggetto nella specie di addebito disciplinare e la puniscono con la minore sanzione della sospensione.

Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando il vizio di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c., censura la sentenza impugnata per aver omesso di vagliare elementi e fatti decisivi ai fini della ricostruzione della condotta, sia sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo.

Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando il vizio di cui all'art. 360 n. 4 c.p.c., in relazione agli artt. 132 c.p.c.e 118 disp. att. c.p.c., censura la sentenza impugnata per non essere sorretta da una motivazione sufficiente e da una congrua esposizione delle ragioni in fatto e in diritto a fondamento della decisione adottata.

Con il quarto motivo la ricorrente, denunciando la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all'art. 2697 c.c. e all'art. 24 Cost., nonché omessa e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia ed omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, lamenta che la Corte di appello, come già il giudice di primo grado, non abbia dato ingresso ai capitoli di prova dedotti, nonostante esplicita reiterazione della relativa istanza.

Il ricorso deve essere respinto.

La lavoratrice lamenta anzitutto (con il primo motivo di ricorso, ma la tesi permea, in sostanza, l'intera impugnazione, essendo riconoscibile quale presupposto sostanziale delle ulteriori e diverse censure formulate ai sensi del n. 4 e del n. 5 dell'art. 360) che la Corte territoriale non abbia proceduto, nella valutazione di gravità della condotta e di conseguente congruità della sanzione espulsiva, ad una complessiva ricostruzione e analisi della concreta vicenda portata al suo giudizio, trascurando di esaminare elementi e circostanze di fatto (cfr., per una elencazione di sintesi, ricorso, pp. 19 e 47) che avrebbero potuto determinare un differente esito decisorio, alla stregua di un apprezzamento unitario e sistematico del fatto e del suo disvalore ai fini della prosecuzione del rapporto di lavoro.

In particolare, la ricorrente richiama l'orientamento di legittimità, secondo il quale "in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fini del giudizio di proporzionalità, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine preminente rilievo alla configurazione che della mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed alla sua durata ed all'assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia" (Cass. 22 giugno 2009 n. 14586; conformi, fra le altre, Cass. n. 17514/2010 e n. 2013/2012).

Il rilievo è infondato.

Il giudice del merito ha, infatti, avuto presenti gli elementi che concorrono, nel loro insieme, alla definizione del caso concreto, sia sul piano oggettivo che soggettivo, come risulta dalle premesse medesime delta motivazione della sentenza impugnata, là dove la Corte di appello ha sottolineato la natura sostanzialmente incontestata dei fatti materiali dedotti in giudizio ed esplicitamente richiamato anche la lettera contenente le giustificazioni svolte dalla lavoratrice nell'ambito del procedimento disciplinare; anche se poi, sull'assenza di precedenti disciplinari nell'arco di un lungo rapporto di lavoro e sulle altre circostanze idonee ad un potenziale ridimensionamento dell'episodio (come la mancanza di una volontà di appropriazione definitiva della somma di denaro e sulla restituzione di essa prima della chiusura dell'ufficio), ha fatto prevalere, nell'esercizio dei propri poteri valutativi, altre circostanze di segno contrario, quali essenzialmente la peculiare natura delle mansioni assegnate, comportanti il maneggio di denaro, con le elevate responsabilità che vi sono connesse, e la possibilità di procurare la copertura dell'assegno attraverso la soluzione alternativa di chiedere la collaborazione di uno dei familiari, anch'essi contitolari del libretto di deposito, da cui venne prelevata la somma utilizzata per il ripianamento della cassa: circostanze di fatto, anche queste, pacifiche, secondo ciò che emerge dagli stralci del ricorso introduttivo e del capitolato di prova riportati nel presente ricorso alle pp. 26 e 27.

Né può ritenersi che la valutazione così operata dal giudice del merito si discosti dalle tipizzazioni dell'autonomia collettiva, posto che, ai sensi dell'art. 56 CCNL dell'11 luglio 2007, è punito con la sanzione del licenziamento senza preavviso il dipendente di Poste Italiane che commetta "illecito uso, manomissione, distrazione o sottrazione di somme, o beni di spettanza o di pertinenza della Società o ad essa affidati" (par. VI); mentre la previsione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione

fino a dieci giorni, per "qualsiasi negligenza o inosservanza di leggi o regolamenti o degli obblighi di servizio deliberatamente commesse, anche per procurare indebiti vantaggi a sé o a terzi, ancorché l'effetto voluto non si sia verificatò', non esclude che la mancanza sia diversamente sanzionabile nel caso in cui la stessa risulti tale (come nella specie, stante l'accertata adibizione a mansioni di maneggio di denaro e valori) da rivestire "carattere di particolare gravità" (par. IV).

D'altra parte, è indubbia l'astratta idoneità della condotta realizzata a ledere il vincolo fiduciario tra le parti del rapporto e a integrare la nozione "elastica" di giusta causa (art. 2119 c.c.), sia perché riconducibile alla fattispecie criminosa dell'appropriazione indebita, che è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta, mediante la quale l'agente compie un atto di dominio sulla cosa (cfr. Cass. pen. 29 aprile 2014 n. 17901); sia per la speciale attenzione che, in ogni settore della vita sociale, è rivolta alle attività che implicano la gestione di valori, essendo richieste in grado elevato, ai soggetti che le svolgano, serietà, precisione e correttezza, insieme con la capacità di tenere costantemente separati dai compiti d'ufficio o di servizio i propri eventuali interessi individuali.

Il secondo motivo è inammissibile.

Esso, infatti, imputando al percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale carenze motivazionali, decisivi errori nella valutazione dei fatti posti a fondamento del provvedimento disciplinare e la formulazione di un giudizio di proporzione del recesso datoriale non sorretto da adeguata e logica motivazione, si sostanzia nella denuncia di un vizio di motivazione secondo lo schema normativo di cui all'art. 360 n. 5 nella versione anteriore alla modifica introdotta con il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito in I. 7 agosto 2012, n. 134, pur in presenza di sentenza di appello depositata in data 30/1/2013 e, pertanto, posteriore all'entrata in vigore della modifica (11 settembre 2012).

Come precisato da questa Corte a Sezioni Unite con le sentenze 7 aprile 2014 n. 8053 e n. 8054, l'art. 360 n. 5 c.p.c., così come riformulato a seguito della novella legislativa, configura un vizio specifico denunciabile per cassazione, costituito dall'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (e cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., il ricorrente è tenuto ad indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato

comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Anche il terzo motivo non può essere accolto, alla luce della medesima giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, potendo ora, secondo la nuova formulazione dell’art. 360 n. 5, essere denunciata in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali: anomalia che - precisano le Sezioni Unite di questa Corte - si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione.

Inammissibile risulta infine il quarto motivo, avendo il giudice di secondo grado (come già il primo giudice) legittimamente reputato di non dare ingresso alle prove per testi sul rilievo della natura pacifica dei fatti di causa e cioè sulla base di una valutazione che la stessa ricorrente, con una puntuale sinossi tra ricorso introduttivo, da un lato, e, dall'altro, mancata contestazione e memoria di costituzione di controparte, mostra di condividere (cfr. ricorso, pp. 22-29); mentre, nella parte in cui ripropone censure di ordine motivazionale, il motivo in esame è soggetto alle medesime considerazioni già sopra svolte con riferimento al secondo motivo di ricorso.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Respinge il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi euro 3.100,00 di cui euro 100,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compenso professionale, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto delta sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.