Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 22 settembre 2016, n. 18591

Lavoro - Pubblico impiego contrattualizzato - Trattamento economico - Retribuzione pensionabile - Assegno ad personam

 

Svolgimento del processo

 

1. La Corte d'Appello di Napoli, con la sentenza n. 3915 del 2011, accoglieva l'impugnazione proposta dalla Corte di Conti, nei confronti di C.A., avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Napoli il 12-20 dicembre 2007, e per l'effetto rigettava la domanda della lavoratrice.

Il Tribunale aveva accolto la domanda della C., dichiarando il diritto della ricorrente all'inclusione dell'assegno ad personam in misura pari alla quattordicesima mensilità nella retribuzione pensionabile spettante, con condanna della Corte dei Conti al pagamento della somma di euro 7.331,06, a titolo di differenze retributive, oltre accessori, ed alla rifusione delle spese di giudizio.

2. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre C.A. prospettando sette motivi di ricorso.

3. Resiste la Corte dei Conti con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

1. La ricorrente ha prospettato i seguenti motivi di ricorso.

Con il primo motivo è dedotta violazione degli artt. 112, 327 e 424 cpc. Vizio di extrapetizione. Violazione del diritto alla difesa.

La sentenza della Corte d'Appello è censurata in quanto il giudice di secondo grado non si sarebbe attenuto ai motivi di impugnazione.

1.1. Il motivo non è fondato.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., n. 2209 del 2016; n. 20652 del 2009) il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, fissato dall'art. 112 cpc, non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, o in applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall'istante, purché restino immutati il "petitum" e la "causa petendi" e la statuizione trovi corrispondenza nei fatti di causa e si basi su elementi di fatto ritualmente acquisiti in giudizio ed oggetto di contraddittorio.

Ciò si è verificato nella fattispecie in esame, atteso che la Corte d'Appello ha proceduto alla ricostruzione giuridica delle condizioni legislative e contrattuali che devono sussistere per il riconoscimento delle indennità in questione, nell'ambito del thema decidendum come delimitato dalle parti e dei fatti di causa.

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio - art. 360, n. 5, cpc, in particolare sull'applicabilità dell'accordo del 13 maggio 2005. Violazione degli artt. 112, 327 e 424 cpc. Vizio di extrapetizione. Violazione del diritto alla difesa.

Si censura la statuizione della Corte d'Appello che ha ritenuto non applicabile alla ricorrente l'accordo 13 maggio 2002 Ipost poiché il lavoratore era ormai transitato nella Corte dei Conti e non aveva provato di avere effettuato la regolarizzazione contributiva prevista dall'accordo.

Assume la ricorrente che il giudizio verteva sulla conservazione stipendiale di tale voce e non sulla pensionabilità ed inclusione nella indennità di fine rapporto, per cui nessun onere di prova sussisteva a carico di esso lavoratore.

3. Con il terzo motivo di ricorso di deduce omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio - art. 360, n. 5, cpc, in particolare sulla inclusione della 14 mensilità nella indennità di fine rapporto. Violazione degli artt. 112, 327 e 424 cpc. Vizio di extrapetizione. Violazione del diritto alla difesa.

La ricorrente censura il richiamo effettuato dalla Corte d'Appello ai principi enunciati da Cass. n. 28281 del 2008, mai invocato dall'Amministrazione appellante, che non sarebbe applicabile al caso di specie (miglior trattamento economico goduto al momento del trasferimento alla Corte dei Conti), in quanto si riferisce al calcolo indennità di buonuscita.

4. Con il quarto motivo di ricorso è dedotto vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, art. 360, n. 5, cpc.

Viene censurata l'equiparazione dell'indennità di amministrazione con la quattordicesima mensilità, adducendo la natura non pensionabile di tale voce retributiva, atteso che essa ricorrente aveva sempre asserito che l'indennità di amministrazione era una componente accessoria e come tale legata a fatti contingenti.

5. Con il quinto motivo di ricorso la C. censura la sentenza di appello per violazione e falsa applicazione dell'art. 360, n. 5, cpc. Violazione e non corretta applicazione del principio del divieto di reformatio in peius richiamato dal contratto individuale.

Erroneamente, la Corte d'Appello, accogliendo un motivo di appello non scritto, aveva affermato che la lavoratrice non aveva provato l'applicabilità nei propri confronti del divieto di reformatio in peius richiamato dal contratto individuale. Atteso che tale prova si trovava nel prospetto provvisorio della retribuzione allegata la contratto sottoscritto.

Da tale documentazione emergeva che la 14a mensilità non era un elemento accessorio e variabile della retribuzione, né un'indennità diretta a compensare disagi, ma una componente fissa e continuativa del trattamento corrispondente ad una determinata posizione di lavoro, normativamente individuata. La Corte d'Appello affermava che non vi era reformatio in peius solo in base al raffronto tra gli stipendi senza considerare il diritto del dipendente a conservare le voci fisse (tra cui la 14a mensilità) e non tutte le altre voci variabili, che concorrono a determinare lo stipendio in godimento. Nella specie, afferma la ricorrente, non si tratta di un elemento accessorio e variabile della retribuzione, né di un'indennità diretta a compensare particolari disagi, ma di una componente fissa e continuativa del trattamento corrispondete ad una determinata posizione di lavoro. Essa ricorrente aveva diritto a conservare le sole voci fisse tra cui al quattordicesima e non tutte le altre voci, definite variabili, che concorrono solo a determinare lo stipendio attualmente in godimento.

6. Con il sesto motivo di ricorso è denunciato il vizio di mancata prova delle norme applicabili al trasferimento. Violazione art. 2112 cc.

La Corte d'Appello non ha indicato quale era la disciplina del trasferimento, che è norma di generale applicazione, richiamata nel contratto: art. 4, comma 2, del d.lsg. n. 163 del 1995 conv. dalla legge n. 273 del 1995. In mancanza di disposizioni speciali, nella fattispecie doveva trovare applicazione l'art. 2112 cc, con la salvaguardia del diritto al trattamento economico in godimento presso l'Amministrazione cedente.

7. Il settimo motivo di ricorso verte sul principio generale della riassorbilità dell'assegno e del divieto di reformatio in peius.

Nel caso di specie, non vi era stata attribuzione di assegno ad personam benché vi fosse stata una deminutio rispetto alla precedente retribuzione. Per cui l'affermazione della Corte d'Appello della possibilità dell'assegno ad personam riassorbibile in caso di trasferimento era contraddittoria.

8. Il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, il sesto e il settimo motivo di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati e devono essere rigettati.

8.1. Occorre precisare che in ragione dell'oggetto della domanda introduttiva del giudizio e della statuizione del giudice di primo grado, come riportati dalla sentenza della Corte d'Appello e non contestati specificamente dalla ricorrente, che non riproduce, in particolare, in ricorso l'atto introduttivo del giudizio dinanzi al Tribunale, si controverte della riconoscibilità a  dipendente di Poste italiane spa, passato alla Corte dei conti (marzo 2001) della 14a mensilità, ancor prima che come assegno ad personam riassorbile, quale voce della retribuzione pensionale, spettante indipendentemente dall'operatività del principio della reformatio in peius.

8.2. Tanto premesso, osserva il Collegio che questa Corte, con la sentenza n. 12861 del 2015, ha affermato che i dipendenti dell’Amministrazione delle poste e telecomunicazioni che, ai sensi dell’art. 6, comma 4, della legge 29 gennaio 1994, n. 71, siano transitati nei ruoli di altra amministrazione dello Stato presso la quale erano comandati non hanno diritto alla conservazione della quattordicesima mensilità di cui all'art. 3 del CCNL per il personale dipendente dell’Ente Poste Italiane per il biennio 1996/1997, dovendosi considerare gli stessi, a seguito della trasformazione dell'Ente Poste in Poste Italiane S.p.A., provenienti da rapporto di lavoro subordinato privato e non da Amministrazione dello Stato, requisito la cui sussistenza condiziona il diritto a conservare il miglior trattamento economico maturato presso il datore di lavoro di provenienza.

Né, comunque, tale voce, come retribuzione pensionabile, faceva parte del trattamento economico in godimento da parte del lavoratore al momento del passaggio alla Corte dei Conti (a far data dal 16 ottobre 2001 giusto D.P.C.M. 19 aprile 2001, n. 013867, come dedotto nel ricorso dal lavoratore), atteso che solo con l'accordo Ipost del 13 maggio 2002, allorché la ricorrente era già transitato nella Corte dei Conti, veniva riconosciuta ai dipendenti di Poste italiane spa la pensionabilità della 14 mensilità, previa regolarizzazione della posizione contributiva.

Correttamente e con congrua motivazione quindi, vigendo, altresì, nel pubblico impiego contrattualizzato il principio di tassatività legale delle componenti della base pensionabile, sancito dall'art. 43 del d.P.R. n. 1092 del 1973, e successive modificazioni, poiché il lavoratore non era più dipendente postale e non aveva, altresì, provato la regolarizzazione dei contributi (necessaria presso Poste italiane spa per la pensionabilità della 14a mensilità) la Corte d'Appello ha escluso il diritto all'emolumento in questione nei termini di retribuzione pensionabile. Correttamente, altresì, il giudice di secondo grado ha escluso l'attribuibilità dell'assegno ad personam riassorbibile, dovendosi a fondamento di quest'ultima statuizione richiamare Cass. n. 12861 del 2015 (cui adde le recenti n. 14371 e 14372 del 2016)

Né trova applicazione nella fattispecie in esame, in ragione della natura del rapporto di lavoro, l'art. 2112 cc.

9. Il ricorso deve essere rigettato.

10. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro tremila per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.